martedì 5 luglio 2016

Abbas Kiarostami (1940-2016)



Quando muore un artista che hai apprezzato e amato ci si sente inevitabilmente più deboli. La speranza che una persona preziosa possa ancora regalarti delle opere che ti renderanno più agevole l’esistenza si blocca improvvisamente. Quando ieri sera ho letto della morte di Abbas Kiarostami ho provato quel senso di vuoto che prende quelle volte in cui non ti senti più sicuro sulla strada da prendere, come se una guida importante ti girasse improvvisamente le spalle. Ho iniziato a studiare il cinema in modo serio agli inizi degli anni Novanta quando era in pieno splendore la cinematografia di un paese, quello iraniano, ancora pochissimo conosciuto in occidente. Kiarostami fu il precursore di quel cinema, colui che aprì la strada a decine di grandi registi dopo di lui. Il primo commento che ho letto ieri sera è stato quello di Asghar Farhadi (assieme a Panahi il più grande regista iraniano contemporaneo) che riconosceva proprio a Kiarostami questo merito. Nel 1987 aveva girato Dov’è la casa del mio amico  che arrivò in Europa qualche anno dopo ricevendo un grandissimo successo di critica. Si parlava di un cinema che raccoglieva l’eredità più pura del neorealismo italiano ma a guardarlo bene i punti in comune non erano proprio tanti. Una volta Kiarostami ebbe a dire che lo imbarazzavano quei paragoni così importanti. Quando aveva iniziato a fare cinema non aveva una grossa esperienza da spettatore cinefilo. Spesso alle domande che lo accostavano a Rossellini o De Sica non sapeva bene cosa rispondere. In realtà il suo cinema era profondamente figlio della cultura iraniana e poco aveva da spartire con riferimenti altri. C’era la povertà produttiva, l’uso di attori non professionisti, gli ambienti reali ma con il neorealismo nessun altro paragone era possibile. L’Iran di quegli anni era un paese che viveva una situazione molto particolare, la rivoluzione di Khomeini del 1979 aveva rivoltato il paese da tutti i punti di vista. Il cinema nasceva praticamente da zero e negli anni Ottanta giovani registi che volevano girare dei lungometraggi si affidavano ai fondi dell’istituto per lo sviluppo intellettuale dell’infanzia (Kanun), a causa di ciò i soggetti erano quasi sempre riconducibili a storie del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma Kiarostami a partire da quei soggetti imposti riusciva a inserire una poetica e uno sguardo universale sull’uomo. Come nei film di Ozu, quasi sempre ambientati nel Giappone del secondo dopoguerra, riusciamo a scorgere elementi universali del nostro essere così Kiarostami con quelle storie minime riusciva a parlare agli uomini di tutte le latitudini.

Avere vent’anni e avere conosciuto il suo cinema è stato per me un privilegio incredibilmente alto. Probabilmente grazie alle sue opere ho compreso che il cinema non sarebbe stato soltanto una passione ma doveva diventare qualcosa di più. La fortuna volle che in quegli anni ebbi anche la possibilità di incontrarlo diverse volte, brevi dialoghi spesso in un inglese o francese stentato altre volte con l’aiuto di un interprete (quasi sempre il suo grande amico Babak Karimi residente da anni in Italia). Il festival del cinema di Taormina negli anni Novanta era organizzato da tutto il gruppo di Fuori Orario. La direzione di Enrico Ghezzi diede a noi giovani studenti universitari la possibilità di crescere guardando un cinema che ci sarebbe stato difficile vedere in altri luoghi. La presenza di Kiarostami, così come quella degli altri grandi registi iraniani come Amir Naderi e Mohsen Makhmalbaf era una piacevolissima consuetudine. Kiarostami era già il più grande ma anche il più timido dei tre. La mia speranza era sempre quella di poterlo incontrare per potere chiacchierare con lui. Era sempre molto disponibile a rispondere a quel ragazzino abbastanza fanatico che ero in quegli anni. A volte con una pizzetta in mano (solo pranzo che noi giovani studenti potevamo permetterci) lo bloccavo al palazzo dei congressi per rivolgergli delle domande sul suo cinema e lui era sempre pronto a rispondere. Nel frattempo gli rifilavo libri che parlavano di lui e locandine delle vhs che già allora compravo per farle autografare. Lui rideva sornione con Amir Naderi accanto stupito del fatto che quei film fossero usciti in cassetta in Italia. Una volta Naderi mi chiese se avessi visto anche i suoi film ma purtroppo dovetti rispondere di no, lui ridendo mi disse che dovevo rimediare al più presto se volevo ancora parlare di cinema con loro. Naturalmente lo feci. Nel 1997 Kiarostami arrivò alla consacrazione internazionale grazie alla palma d’oro vinta a Cannes con Il sapore della ciliegia. Il film arrivò in anteprima italiana, naturalmente a Taormina, nell’estate di quell’anno. Fu l’unica volta che riuscì a permettermi il prezzo del biglietto al teatro greco (gli ingressi al palazzo dei congressi dove si svolgevano le altre proiezioni erano per nostra fortuna gratuiti). Ancora una volta fu una folgorazione, ebbi subito chiaro di avere assistito a un’opera immensa. Quando uscì del teatro mi ritrovai davanti Kiarostami assieme a Babak Karimi e un uomo con una telecamera. Kiarostami fece segno a Babak di fermarmi e mi fecero delle domande sul film. Ero assolutamente incantato e mi dovetti sforzare per parlare in maniera adeguata. Non ricordo più le parole che usai, poi la telecamera si spense e Kiarostami si avvicinò a me dandomi la mano e dicendomi semplicemente “thank you”. Io mi allontanai in fretta perché avevo iniziato a piangere come un bambino per tutte le emozioni che avevo provato quella sera. Qualche mese dopo ricevetti una telefonata da un’amica di Bologna che mi diceva di avere visto la mia intervista usata come trailer del film (in quegli anni si usava, per le presentazioni di certi film, raccogliere le interviste dopo la proiezione della prima italiana). Io non riuscì purtroppo mai a vederla. Sono passati quasi vent’anni da quel giorno, il cinema per me è diventato anche un lavoro, Kiarostami ha fatto diversi altri film, altri grandi altri meno riusciti. Dal 2005 (dopo l’arrivo del governo di Ahmadinejad) ha iniziato a girare film all’estero senza però riuscire a essere il grande regista di prima. Ma ha continuato a essere uno dei più grandi maestri del cinema. Gli spezzoni dei suoi film, i piccoli segreti che mi confidava in quei dialoghi rubati sono argomento fisso delle mie lezioni di cinema. Ogni anno so che dopo la lezione sull’utilizzo del campo lungo al cinema (quando faccio vedere il finale di Sotto gli ulivi) qualcuno dei miei allievi mi chiederà i film di Kiarostami e poi mi dirà di essersene innamorato. Io allora sento di avere fatto bene il mio lavoro. Adesso che lui non c’è più mi sento più solo ma continuerò a parlare del suo cinema, delle sue opere, della sua grandezza e della sua umanità e i miei ricordi con lui saranno ancora più preziosi. Thank you Abbas

Sergio Barone

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