Quando muore un artista che hai apprezzato e amato ci si
sente inevitabilmente più deboli. La speranza che una persona preziosa possa
ancora regalarti delle opere che ti renderanno più agevole l’esistenza si
blocca improvvisamente. Quando ieri sera ho letto della morte di Abbas
Kiarostami ho provato quel senso di vuoto che prende quelle volte in cui non ti
senti più sicuro sulla strada da prendere, come se una guida importante ti
girasse improvvisamente le spalle. Ho iniziato a studiare il cinema in modo
serio agli inizi degli anni Novanta quando era in pieno splendore la
cinematografia di un paese, quello iraniano, ancora pochissimo conosciuto in
occidente. Kiarostami fu il precursore di quel cinema, colui che aprì la strada
a decine di grandi registi dopo di lui. Il primo commento che ho letto ieri
sera è stato quello di Asghar Farhadi (assieme a Panahi il più grande regista
iraniano contemporaneo) che riconosceva proprio a Kiarostami questo merito. Nel
1987 aveva girato Dov’è la casa del mio
amico che arrivò in Europa qualche
anno dopo ricevendo un grandissimo successo di critica. Si parlava di un cinema
che raccoglieva l’eredità più pura del neorealismo italiano ma a guardarlo bene
i punti in comune non erano proprio tanti. Una volta Kiarostami ebbe a dire che
lo imbarazzavano quei paragoni così importanti. Quando aveva iniziato a fare
cinema non aveva una grossa esperienza da spettatore cinefilo. Spesso alle
domande che lo accostavano a Rossellini o De Sica non sapeva bene cosa
rispondere. In realtà il suo cinema era profondamente figlio della cultura
iraniana e poco aveva da spartire con riferimenti altri. C’era la povertà
produttiva, l’uso di attori non professionisti, gli ambienti reali ma con il
neorealismo nessun altro paragone era possibile. L’Iran di quegli anni era un
paese che viveva una situazione molto particolare, la rivoluzione di Khomeini del
1979 aveva rivoltato il paese da tutti i punti di vista. Il cinema nasceva
praticamente da zero e negli anni Ottanta giovani registi che volevano girare
dei lungometraggi si affidavano ai fondi dell’istituto per lo sviluppo
intellettuale dell’infanzia (Kanun), a causa di ciò i soggetti erano quasi
sempre riconducibili a storie del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma
Kiarostami a partire da quei soggetti imposti riusciva a inserire una poetica e
uno sguardo universale sull’uomo. Come nei film di Ozu, quasi sempre ambientati
nel Giappone del secondo dopoguerra, riusciamo a scorgere elementi universali
del nostro essere così Kiarostami con quelle storie minime riusciva a parlare
agli uomini di tutte le latitudini.
Avere vent’anni e avere conosciuto il suo cinema è stato per
me un privilegio incredibilmente alto. Probabilmente grazie alle sue opere ho
compreso che il cinema non sarebbe stato soltanto una passione ma doveva
diventare qualcosa di più. La fortuna volle che in quegli anni ebbi anche la
possibilità di incontrarlo diverse volte, brevi dialoghi spesso in un inglese o
francese stentato altre volte con l’aiuto di un interprete (quasi sempre il suo
grande amico Babak Karimi residente da anni in Italia). Il festival del cinema
di Taormina negli anni Novanta era organizzato da tutto il gruppo di Fuori
Orario. La direzione di Enrico Ghezzi diede a noi giovani studenti universitari
la possibilità di crescere guardando un cinema che ci sarebbe stato difficile
vedere in altri luoghi. La presenza di Kiarostami, così come quella degli altri
grandi registi iraniani come Amir Naderi e Mohsen Makhmalbaf era una
piacevolissima consuetudine. Kiarostami era già il più grande ma anche il più
timido dei tre. La mia speranza era sempre quella di poterlo incontrare per
potere chiacchierare con lui. Era sempre molto disponibile a rispondere a quel
ragazzino abbastanza fanatico che ero in quegli anni. A volte con una pizzetta
in mano (solo pranzo che noi giovani studenti potevamo permetterci) lo bloccavo
al palazzo dei congressi per rivolgergli delle domande sul suo cinema e lui era
sempre pronto a rispondere. Nel frattempo gli rifilavo libri che parlavano di
lui e locandine delle vhs che già allora compravo per farle autografare. Lui
rideva sornione con Amir Naderi accanto stupito del fatto che quei film fossero
usciti in cassetta in Italia. Una volta Naderi mi chiese se avessi visto anche i
suoi film ma purtroppo dovetti rispondere di no, lui ridendo mi disse che
dovevo rimediare al più presto se volevo ancora parlare di cinema con loro.
Naturalmente lo feci. Nel 1997 Kiarostami arrivò alla consacrazione
internazionale grazie alla palma d’oro vinta a Cannes con Il sapore della ciliegia. Il film arrivò in anteprima italiana, naturalmente a Taormina, nell’estate di quell’anno. Fu l’unica volta che riuscì
a permettermi il prezzo del biglietto al teatro greco (gli ingressi al palazzo
dei congressi dove si svolgevano le altre proiezioni erano per nostra fortuna
gratuiti). Ancora una volta fu una folgorazione, ebbi subito chiaro di avere
assistito a un’opera immensa. Quando uscì del teatro mi ritrovai davanti
Kiarostami assieme a Babak Karimi e un uomo con una telecamera. Kiarostami fece
segno a Babak di fermarmi e mi fecero delle domande sul film. Ero assolutamente
incantato e mi dovetti sforzare per parlare in maniera adeguata. Non ricordo
più le parole che usai, poi la telecamera si spense e Kiarostami si avvicinò a
me dandomi la mano e dicendomi semplicemente “thank you”. Io mi allontanai in
fretta perché avevo iniziato a piangere come un bambino per tutte le emozioni
che avevo provato quella sera. Qualche mese dopo ricevetti una telefonata da un’amica
di Bologna che mi diceva di avere visto la mia intervista usata come trailer
del film (in quegli anni si usava, per le presentazioni di certi film,
raccogliere le interviste dopo la proiezione della prima italiana). Io non
riuscì purtroppo mai a vederla. Sono passati quasi vent’anni da quel giorno, il
cinema per me è diventato anche un lavoro, Kiarostami ha fatto diversi
altri film, altri grandi altri meno riusciti. Dal 2005 (dopo l’arrivo del
governo di Ahmadinejad) ha iniziato a girare film all’estero senza però
riuscire a essere il grande regista di prima. Ma ha continuato a essere uno dei più
grandi maestri del cinema. Gli spezzoni dei suoi film, i piccoli segreti che mi
confidava in quei dialoghi rubati sono argomento fisso delle mie lezioni di
cinema. Ogni anno so che dopo la lezione sull’utilizzo del campo lungo al
cinema (quando faccio vedere il finale di Sotto
gli ulivi) qualcuno dei miei allievi mi chiederà i film di Kiarostami e poi
mi dirà di essersene innamorato. Io allora sento di avere fatto bene il mio
lavoro. Adesso che lui non c’è più mi sento più solo ma continuerò a parlare
del suo cinema, delle sue opere, della sua grandezza e della sua umanità e i
miei ricordi con lui saranno ancora più preziosi. Thank you Abbas
Sergio Barone
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