Mi ero ripromesso, dopo avere parlato de La grande bellezza, che avrei
ricominciato a scrivere di un film italiano solo per sottolinearne gli aspetti
positivi. Dopo numerose visioni che mi hanno lasciato abbastanza perplesso
(come gli ultimi titoli di Bertolucci, Soldini e Paolo Franchi) ho dovuto ripiegare
su un classico come Viaggio in Italia
di Rossellini per risentire un po’ di sano orgoglio cinefilo nazionale. Ma
questo non era sicuramente sufficiente a ripagare l’amarezza data da un paese che
sembra ormai avere adeguato il livello della sua cultura cinematografica a
quello dell’estetica televisiva. Sceneggiature sciatte (o insopportabilmente
pompose), tecnica sempre più ridondante e recitazione spesso sopra le righe. In
mezzo a tanta desolazione abbiamo ancora, per fortuna, qualche autore che
prosegue il suo percorso artistico rimanendo fedele alla sua idea iniziale di
cinema che possa servire a raccontare il presente in modo critico, mai ruffiano
e capace di utilizzare il mezzo cinematografico in modo serio, come un bravo
artigiano che conosce bene i suoi strumenti di lavoro e sa quando deve renderli
protagonisti e quando invece deve nasconderli per mettere in risalto la storia
che racconta. Mi riferisco a Matteo Garrone regista italiano venuto fuori negli
anni Novanta con titoli importanti come Terra
di mezzo e L’imbalsamatore e poi confermatosi
ad alti livelli con opere come Primo
amore e il suo ultimo recente Reality.
Sembra abbastanza singolare che per trovare un film che non si abbassi al
livello dello sceneggiato televisivo da prima serata bisogna vedere un film che,
sin dal titolo, rimandi in maniera diretta a ciò che più televisivo non
potrebbe essere, il reality e quel grande fratello che è riuscito ad elevare a
modello comportamentale personaggi che, in una società appena più normale della
nostra, meriterebbero il più completo disinteresse (se non qualche rimbrotto e il
consiglio di andare a leggersi qualche libro).
Garrone è un regista attento alle mutazioni della nostra
società, qualcuno ha detto che il suo film è arrivato fuori tempo massimo per
il fatto che il fenomeno mediatico del grande fratello non gode più dell’entusiasmo
di qualche anno fa. Ma per Garrone non è tanto il format televisivo in
questione il centro della storia, ma cercare di capire come la nostra società è
cambiata nel corso degli ultimi anni facendoci diventare schiavi di un meccanismo
perverso per cui l’apparire, sempre comunque e in ogni modo, è il solo metro di
paragone per ritenersi vivi e facenti parte di una comunità. Metro di crescita
dell’individuo non è più la capacità di elevarsi culturalmente o riuscire a
indicare ai propri figli stili di vita sani e solidali, ma riuscire a farsi
notare in un mondo sottosopra dove non conta più se fai la figura dell’idiota perché
in mezzo a tanti idioti si capovolge, come in un carnevale, il senso del
giudizio è idiota appare l’unico sano.
Luciano, il protagonista del film di Garrone, mette a
repentaglio la propria famiglia e la propria esistenza nel sogno folle di
partecipare a un programma televisivo che potrebbe significare l’inizio di una
nuova vita. Garrone ci presenta Luciano non come una scheggia malata della
società ma, semplicemente, come un elemento più debole degli altri che perde la
testa dietro ad una illusione che però non è vista come tale dagli altri.
Nessuno mette in discussione il fatto che la partecipazione al grande fratello potrebbe
veramente significare un punto di arrivo nella vita di un uomo. Ed è probabilmente
questo l’aspetto più inquietante del film di Garrone, la nostra società ha
completamente capovolto i valori di riferimento e chi non la vede così diventa
quasi un alieno. In questo senso diventa magistrale l’idea del regista di
aprire e chiudere il film con due movimenti di macchina opposti. All’inizio la
macchina da presa arriva dal cielo e si avvicina progressivamente alla città
mentre alla fine si allontana progressivamente dal primo piano del protagonista
per raggiungere nuovamente le stelle. Ed è bellissimo notare come Garrone si
ricordi la grande lezione dei maestri del cinema che sottolineavano gli aspetti
tecnici solo quando erano funzionali al racconto e non perché dovevano servire
a sottolineare le capacità tecniche del regista. Come diceva Orson Welles la
tecnica la puoi imparare in qualche settimana di studio ma la capacità di
sapere raccontare ciò che ti sta attorno richiede molto più sacrificio e
studio. In Italia questo insegnamento si è quasi del tutto perso ma per fortuna
il cinema di Garrone ci da ancora qualche speranza.
Sergio
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