I film di Gianni Amelio sono stati importanti nella mia
formazione giovanile soprattutto per consolidare l’idea di un cinema di forte
impegno morale. Un cinema che non si tirava mai indietro nel raccontare temi
importanti come nel bellissimo Porte
aperte, tratto dal romanzo di Sciascia, del 1990 (con una delle ultime e
più grandi interpretazioni di Gian Maria Volontè). E poi film come Il ladro di bambini o Lamerica, opere dove la lettura del
presente avveniva in maniera coinvolgente e con una partecipazione emotiva
altissima. Il suo cinema era (ed è) però lontanissimo parente di quel cinema
impegnato alla Ken Loach che si è abituati a usare come metro di paragone.
Amelio ha sempre privilegiato l’aspetto intimo, poetico per raccontare la
società. Quasi mai dalle sue opere esce fuori un grido di rabbia piuttosto si è
portati a una sorta di riflessione morale sulla natura dell’uomo. Poca analisi
sociale o studio sui meccanismi del potere ma grande attenzione agli aspetti personali
dell’essere umano.
Pur apprezzando i suoi film non ne sono però mai stato
interamente coinvolto, sentivo quasi sempre un di più di paternalismo retorico
che rendeva le storie inutilmente più ampie di quello che avrebbero dovuto
essere. Preferivo di gran lunga i suoi documentari dove la grande capacità di
Amelio di osservare in profondità l’animo umano conosceva un limite preciso che
gli proibiva di illustrare in maniera didattica il suo punto di vista. La terra è fatta così un
suo lavoro del 2000 che racconta tramite semplicissime sequenze di interviste,
i ricordi dei sopravvissuti al terremoto dell’Irpinia del 1980, è una di quelle
opere che non mi stancherei mai di guardare (e di consigliare).
Purtroppo con l’età succede che certe tendenze si
accentuino e diventino ancora più ingombranti rispetto al passato. Guardando il
suo ultimo film L’intrepido ho avuto
conferma di ciò. Nel cercare di raccontare il disastro sociale ed economico del
nostro paese degli ultimi anni Amelio sceglie una via quasi fiabesca. Il protagonista,
Antonio, è un uomo di mezza età che non trova niente di meglio da fare per
andare avanti che fare il rimpiazzo. Sostituendo per qualche ora o per qualche
giorno qualcuno che non può presentarsi a lavoro, Antonio passa tra i mestieri
più disparati e la sua figura è praticamente quella di un lavoratore invisibile.
Il grado più alto della precarietà e dello sfruttamento professionale. Ma
Antonio, un Albanese non molto convincente, vive tutto questo con una serenità
e una positività che nelle intenzioni dell’autore vorrebbe probabilmente essere
un omaggio a una umanità che non si abbatte ma si risolve invece in una
superficialissima rappresentazione di un presente che meriterebbe ben altri
strumenti narrativi per essere narrato. La vita del protagonista scorre tra
lavori casuali e rapporti interpersonali (con il figlio e con una donna
conosciuta lavorando) senza mai decollare. A cosa dovrebbe portare questa
positiva predisposizione d’animo se non a una, ancora più feroce, tendenza allo
sfruttamento da parte di un mercato del lavoro sempre più schiavista?
Dopo avere visto il film leggo una intervista di Amelio
in cui afferma che voleva raccontare il mondo del lavoro come fece Chaplin. Il
cerchio si chiude. La chaplinizzazione dell’umanità è servita solo ad
arricchire il creatore di questa straordinaria beffa artistica e a fare stare
ingenuamente meglio chi aveva poco tempo per andare a fondo nello studio dei caratteri
umani accontentandosi della consolante immagine dell’uomo buono. Non credo che
di illusioni buoniste abbia bisogno l’Italia di oggi quanto piuttosto di sonore
incazzature e prese di coscienza ma purtroppo nel nostro paese i Ken Loach sono
merce rara.
Sergio
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