venerdì 30 settembre 2011

Quentin Tarantino - Bastardi senza gloria

Quando ti metti a parlare di un film di Quentin Tarantino sai già che scontenterai qualcuno. Sempre giudizi netti su di lui, chi lo adora e chi lo odia, chi pensa che sia uno degli autori più importanti degli ultimi anni e chi lo rifugge come la peste. In effetti il suo cinema non è mai stato conciliante e il termine carino (con cui spesso ci togliamo il pensiero per giudicare un’opera che non ci ha fatto né caldo né freddo), difficilmente possiamo usarlo per le sue opere. Detto questo devo dire che cominciano ad essere troppi i film di Tarantino che mi appresto a vedere con grandi aspettative e che, alla fine, mi lasciano con l’amaro in bocca. Bastardi senza gloria è solo l’ultimo capitolo che da Kill Bill 1 e 2 (posso definirli carini?) all’inguardabile Grindhouse mi fa rimpiangere l’autore che prima con Le iene, poi con Pulp Fiction e dopo con il grandissimo (e secondo me sottovalutato) Jackie Brown aveva scritto delle pagine di grande cinema a 360 gradi (intendendo con questo anche uno splendido lavoro di sceneggiatura).
Come una fastidiosa sensazione di talento sprecato mentre guardavo questo suo ultimo film ambientato durante l’ultimo conflitto mondiale: gli inglorius basterds (non bastards per una questione di diritti d’autore sul titolo) del titolo sono un gruppo di soldati statunitensi che danno la caccia ai nazisti con i soliti metodi pulp che Tarantino ci ha già fatto conoscere nel passato. Ma tra dialoghi, come sempre sostenutissimi (e spesso geniali) e movimenti di macchina sempre più perfetti, risentivo una sorta di gioco fine a se stesso. Come quando vedevo Grindhouse avvertivo che Tarantino si stesse divertendo come un bambino a girare ma dimenticandosi (o forse non importandosene più) del fatto che il cinema può essere anche dialogo, confronto, crescita con lo spettatore (e non uso certo questi termini in funzione scolastica…). Quella tensione etica che avvertivo in interi passaggi (sia pur divertentissimi e sanguinolenti di Pulp Fiction) lascia spazio ad uccisioni continue abbastanza ripetitive (troppo facile e scontato il cliché del nazista da sterminare). E poi, cosa che non riesco a giustificare al nostro Quentin, alcuni buchi nella costruzione della sceneggiatura che da uno scrittore bravo come lui non mi sarei mai aspettato. Uno per tutti, come fa l’ultimo bastardo sopravvissuto a trovarsi sul pullman assieme al tenente Raine (un bravissimo Brad Pitt) mentre, accompagnati dal colonnello Landa, si dirigono verso le linee americane? Spero che qualcuno possa dirmi che mi è sfuggito qualcosa…
Continuerò a vedere i film di Tarantino e a prendere alcuni suoi dialoghi come esempi perfetti di scrittura cinematografica ma vorrei tanto che in futuro il nostro Quentin la smettesse di rimirarsi compiaciuto con la macchina da presa. Non mi aspetto da lui problematiche kieslowskiane ma personaggi di spessore come Jackie Brown o come il grande Jules Winnfield (interpretato magistralmente da Samuel L. Jackson) di Pulp fiction penso ancora di poterli chiedere.
Sergio

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lunedì 26 settembre 2011

Chris Vermocken - Io sono Anna Magnani


Non mi capita spesso di prendere spunto da un film, un documentario in questo caso, per parlare di un’attrice. Ma se quest’attrice si chiama Anna Magnani allora tutto passa in secondo piano di fronte a quel volto che, forse come nessun’altro, ha raccontato il nostro paese.
Oggi è il 26 settembre ed è stato proprio il 26 settembre del 1973 che Anna Magnani ci ha lasciato. Troppo presto per tutto quello che avrebbe ancora potuto darci ma, mai come nel suo caso, non è retorico dire che lei non ci ha lasciato mai col suo modo di guardarci dentro come cantava Pino Daniele in una bellissima canzone che le dedicò qualche anno fa.
Il film di Chris Vermocken “Io sono Anna Magnani” , non è un semplice documentario ma è un atto di amore assoluto per la Magnani. Mescolando pubblico e privato si ripercorre la sua vita e, attraverso la sua vita, la vita del nostro paese dal dopoguerra fino agli inizi degli anni Settanta. E’ sicuramente vero che la Magnani sia stata più amata all’estero che da noi, il suo essere specchio di un paese aveva forse bisogno di distanza per essere apprezzato in pieno e purtroppo negli ultimi anni della sua vita non fu utilizzata per come avrebbe meritato. Diventata un monumento in vita, credo che suscitasse un timore fortissimo in autori che avrebbero potuto consegnarle delle parti alla sua altezza. Ripenso con tenerezza alla sua ultima immagine, quella che le dedicò Federico Fellini nel suo film documentario Roma quando la spia per strada mentre ritorna a casa e in quelle poche battute che si scambiano c’è tutto il rispetto che, anche un autore come lui, aveva per Nannarella. Oppure ripenso all’amore che aveva per lei un altro mostro sacro come Eduardo De Filippo che per lei provava una vera e propria venerazione. Perché Anna Magnani non era solo un’attrice (probabilmente la più grande che abbia avuto il nostro paese), ma riusciva a incarnare tutto l’immaginario dell’universo femminile che appartiene alla nostra cultura. Era la mamma di tutti, ma anche la moglie, l’amante, l’amica. Riusciva a essere credibile qualsiasi ruolo interpretasse forse perché non aveva bisogno di fingere. Quando la rivedo in Mamma Roma di Pasolini, in Bellissima di Visconti, nell’episodio L'Amore di Rossellini o nella sua scena più famosa di Roma città aperta dove, come dice Ascanio Celestini, "lei muore praticamente prima di toccare terra mentre sta volando, leggera ed elegante, spinta da una forza quasi inarrestabile, ad afferrare in volo la mano del suo uomo per trarlo via, unico e solo, da quella massa di derelitti", non conta più che conosci a memoria quei film, conta solo lei, il suo sguardo, la sua voce, ancora una volta quel suo modo di guardarci dentro. E forse per questo ci manca ancora Nannarella. Per chi la ricorda in vita, per chi l’ha conosciuta attraverso i suoi film o per chi la conosce solo attraverso qualche sua immagine è bello pensare che sia ancora qui con noi, incontrarla mentre passeggia uno dei tanti cani che raccoglieva per strada regalando loro quello che di più prezioso un essere vivente può dare. Il proprio amore.
Sergio


martedì 20 settembre 2011

Juan Josè Campanella - Il segreto dei suoi occhi

Il cinema argentino non arriva spesso da noi ma quando questo avviene capita frequentemente che ci regali delle belle sorprese. Così avviene che, accanto ai lavori del maestro Fernando Solanas, negli ultimi anni abbiamo potuto apprezzare opere come quelle di Lucrecia Martel (La cienaga) o di Pablo Trapero (Mondo grua) senza contare i film dell’italo argentino Marco Bechis (Garage Olimpo e Figli su tutti).
La storia dell’Argentina degli ultimi trent’anni è talmente piena di avvenimenti, per lo più drammatici (la dittatura militare prima e la spaventosa recessione economica poi), da avere inevitabilmente influenzato gli autori che si apprestavano a raccontare delle storie nazionali. Quando l’anno scorso l’opera di Juan Josè Campanella “Il segreto dei suoi occhi”, ha vinto il premio oscar come miglior film straniero ho avuto la speranza di entrare in contatto con un altro autore di rilievo. La visione del film non mi ha deluso.
Il racconto del film si snoda attraverso venticinque anni, tra la metà degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta. La figura del protagonista è quella di un funzionario di tribunale che, andato in pensione, decide di scrivere un romanzo su uno dei casi che più lo segnarono durante la sua carriera. Quello di una giovane sposa stuprata e uccisa da un vecchio amico di infanzia. Attraverso questo fatto di sangue si ripercorrono storie private e pubbliche di un intero paese che era sull’orlo del precipizio. Precipizio nel quale da lì a poco cadde con una delle dittature militari più odiose degli ultimi decenni. Il film ha una scrittura poderosa che non lascia niente al caso, abbraccia diversi linguaggi cinematografici senza diventare mai di genere.
Tra i diversi meriti del film sicuramente da rimarcare il modo in cui riesce a suggerire in modo quasi impercettibile la discesa di un paese nel baratro della dittatura. Lo si scopre quando assassini che stavano in galera vengono liberati per entrare a fare parte delle squadre della morte, quando tutti quelli che non si allineano cominciano a essere spediti dove non possono più nuocere (il caso del protagonista). L’Argentina continua a fare i conti con il suo passato e  anche attraverso questo film ci restituisce in pieno l’atmosfera di un periodo storico.
Ma il film è anche una bellissima storia d’amore, di un amore strappato (quello del marito della vittima che non potrà più mettersi alle spalle la tragedia), di un amore mai dichiarato (quello del protagonista verso la collega giudice). Continui sussulti del cuore dietro storie perdute e storie mai nate, tra strani scherzi del destino che ricordano le atmosfere kieslowskiane (credo che la scena iniziale sul treno sia proprio un omaggio a Destino cieco del grande autore polacco).
Un film da vedere e da consigliare anche a chi non è cinefilo perché ha un linguaggio semplice e non si perde mai dietro a intellettualismi arditi.  Un film bello, verrebbe da dire come si facevano una volta…
Sergio

Film - Scena della stazione

sabato 17 settembre 2011

Ari Folman - Valzer con Bashir


Riflettevo in questi giorni sul perché molte persone si scambiassero domande su ciò che facevano dieci anni fa mentre l’undici settembre portava con sé, assieme alla tragedia, uno dei più grandi caroselli mediatici che la storia della comunicazione ricordi. Sono onestamente infastidito da tutte le tavole rotonde sul cambiamento percettivo che l’undici settembre ha provocato nel sistema globale; la letteratura dopo l’undici settembre, il cinema dopo l’undici settembre, la politica dopo l’undici settembre… il tutto mi puzza di speculazione a basso costo fatta da chi ritiene che il potere dei media debba “naturalmente” essere più potente dell’evento stesso. Meditando su tutto ciò mi accorgo che il calendario segna il 17 settembre e nessuno mi chiede cosa facessi nel 1982 mentre si consumava un altro degli eccidi più agghiaccianti del secolo, quello del campo profughi di Sabra e Chatila, quando i miliziani cristiano libanesi uccisero, tra il 16 e il 18 settembre, un numero imprecisato di arabi palestinesi (il numero non si è mai saputo con certezza, si oscilla tra gli 800 e le 3000 vittime). Questo mentre le forze israeliane controllavano fuori dal campo che tutto andasse velocemente e la comunità internazionale levava solo qualche flebile voce di protesta ma non troppo forte perché la diretta televisiva non si poteva fare. E allora ecco che di Sabra e Chatila si occupano gli storici e quelli che vogliono capire perché eventi del genere possano ancora capitare nell’epoca contemporanea (e chi si impegna un po’ sicuramente non affermerà più che l’undici settembre rappresenta uno spartiacque storico ma, al massimo, una tragica consequenza).
Ogni tanto qualche voce per fortuna ci ricorda quell’evento e prova a farci capire un po’ di più. E’ il caso del bellissimo film di animazione di Ari Folman, regista israeliano che con il suo Valzer con Bashir ci consegna una delle più struggenti testimonianze di quello che furono quei tre giorni di settembre dell’82. La storia del film narra di un uomo che partecipò, dentro le fila dell’esercito israeliano, a quegli eventi ma, stranamente, di non serbarne più memoria. Si mette quindi alla ricerca di suoi vecchi commilitoni che erano con lui in quel tempo e, dal frammento che ognuno di essi riporta a galla, si delinea quello che successe veramente in quel luogo. Mai film d’animazione aveva rappresentato in maniera talmente forte un episodio così devastante e forse viene da pensare che realtà simili, per riprodurle, puoi soltanto trasfigurarle visivamente. Alla fine del film,quando il disegno lascia spazio ai filmati d’archivio girati dai primi soccorritori riusciti ad entrare nel campo la mattina del 19 settembre, ti rendi conto di quanto tutta l’opera sia pervasa da una rabbia mista ad impotenza. Un violento pugno nello stomaco che ci colpisce tramortendoci e spiegandoci come l’amnesia sia un’utile rimedio che l’uomo provoca su se stesso per superare ciò che non fa bene ricordare. Come tutti noi che non ricordiamo cosa facevamo in quei tre giorni di settembre o non ne sapevamo neanche l’esistenza…
Sergio

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Samurai Rebellion - Masaki Kobayashi



Leggere il nome di Toshiro Mifune nel cast di un film è ormai una garanzia. Mai, finora, ne sono stato deluso. Stavolta non diretto dal più abile Kurosawa, Mifune veste i panni del samurai ribelle, sotto la guida di Masaki Kobayashi, già specializzato in film sui samurai e sul Giappone antico, come Harakiri e Kwaidan, entrambi premiati a Cannes.
Il regista ci mostra un samurai molto più umano di quello del nostro immaginario collettivo. Un samurai che arriva addirittura a ribellarsi al proprio Daimyō (alta carica feudale a cui i samurai erano sottoposti) anteponendo i propri sentimenti e il proprio senso di giustizia al rigidissimo codice comportamentale a cui è votato.


La storia è quella della famiglia Sasahara, che vede Toshiro Mifune nel ruolo di Isaburo, padre capofamiglia, intrappolato in un matrimonio senz’amore, che vive esclusivamente per l’amore verso il figlio Yogoro. A seguito di una pesante angheria del Daimyō, che si approfitta del suo rango per ordinare alla famiglia Sasahara di restituirgli Ichi, moglie di Yogoro, Isaburo decide di ribellarsi per difendere l’amore di suo figlio e della nuora.
Quest’evento sarà motore di catastrofi sociali: secondo il codice comportamentale del Giappone antico, un samurai che disobbedisce a un ordine del daimyō ha l’obbligo di fare seppuku (suicidio rituale simile al più noto harakiri), ma Isaburo si rifiuta, mettendosi contro tutti i samurai della sua terra, perfino quelli che gli erano più amici.
Straordinario è il confronto tra Isaburo e Tatewaki, suo stretto amico, anch’egli samurai, costretto a schierarsi contro di lui per adempiere ai propri doveri.


Nonostante qualche tratto eccessivamente fumettistico, mi riferisco a scene “alla Batman” in cui il protagonista combatte contro una cinquantina di guerrieri insieme uscendone vincente e pressocchè illeso, il film riesce a risultare credibile all’occhio dello spettatore, che non può fare a meno di sentirsi coinvolto in una storia dove prevale inizialmente un senso di impotenza, poi sostituito, grazie anche ai furenti sguardi di Toshiro Mifune, da un dirompente spirito rivoluzionario.


E’ sorprendente come ci si riesce a immedesimare in storie così lontane da noi e in modi di pensare così diversi. E’ strano come un occidentale possa accettare una scena di due cari amici che duellano fino alla morte mantenendo alta e solida la loro amicizia. E mi riferisco a uno solo dei tanti esempi possibili.
 Ho trovato bellissimo, inoltre, perdermi nei dettagli un po’ meno significanti del film, quelli che fanno riferimento ai costumi e alle tradizioni della cultura medievale giapponese. L’architettura delle case, i giardini zen, il modo di aprire le porte scorrevoli, l’abitudine di inginocchiarsi prima di dire o fare qualcosa di importante, il samurai che porta sempre con sé due spade, una lunga e una corta.. e tante altre piccole cose, insignificanti dal punto di vista della storia, ma interessantissime per scoprire una cultura che conosco così poco.
Un saluto a tutti


Arigato! :-)
Robin 



venerdì 16 settembre 2011

Hayao Miyazaki - Il mio vicino Totoro


Come già era successo per Porco rosso anche per Il mio vicino Totoro abbiamo dovuto aspettare tanti anni in Italia prima di avere la possibilità di ammirarlo (il film è del 1988). Ma per fortuna i capolavori non invecchiano e allora poco importa se fai la conoscenza di Totoro quando già in tutto il mondo la sua figura è estremamente familiare. Totoro è il simbolo della casa di produzione di Miyazaki (la leggendaria Studio Ghibli) e addirittura il suo nome è diventato anche quello di un asteroide scoperto nel 1994.
Come un film e un personaggio riescano a diventare talmente familiari nell’immaginario collettivo ci porterebbe a discorsi complicati sul potenza del cinema e sulla sua capacità di farti diventare ciò che guardi. Della magia nello scoprire che ti emozioni quando una bambina di tre anni che ti sta accanto, vedendoti con in mano un’immagine del film,  esclama tutta contenta: “ma questo è Totoro!”, e allora io, vecchio cinefilo (probabilmente anche un po’ noioso), risento spuntare l’entusiasmo di condividere le mie passioni e di imparare ancora, anche attraverso gli occhi di quella bambina, quello che il cinema non mi ha ancora detto.
Il film è la storia di Satsuki e Mei, due sorelline di quattro e undici anni, che vanno a vivere in una casa di campagna assieme al padre per avere la possibilità di stare più vicini alla clinica dove la madre è ricoverata. In questa casa e nei campi circostanti le piccole faranno la conoscenza con un universo magico, una realtà che agli adulti non è permesso vedere; gli spiriti della fuliggine (che torneranno nella Città incantata), il Gattobus e naturalmente Totoro, uno spirito buono della natura con la forma un po’ di orso e un po’ di talpa. E’ Totoro che guiderà Satsuki e Mei nella scoperta di un mondo nuovo e le proteggerà da eventi che ancora stentano a comprendere. Tutto Miyazaki è probabilmente in questo film magico con dei disegni che sono dei capolavori di arte grafica. Forse un giorno riuscirò ad andare a Tokyo e allora sono sicuro che dopo avere reso omaggio a Yasujiro Ozu mi perderò all’interno del museo Ghibli per ricordarmi di tutto quello che da bambino sapevo già ma che poi l’età mi ha fatto scordare.  
Sergio

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giovedì 15 settembre 2011

Ascanio Celestini - La pecora nera

Rimarrei per delle ore ad ascoltare Ascanio Celestini raccontarmi delle storie. La sua voce ha la rara capacità di proiettarti immediatamente nel mondo che evoca. Nei suoi spettacoli teatrali non vi è alcun bisogno di scenografia, basta lui per creare tutte le atmosfere utili. Se a questo aggiungiamo la sincerità della sua arte e la sua voglia di raccontare sempre storie dalla parte dei vinti, si comprende perché i suoi lavori sono da ritenersi preziosi.
A parte due documentari, Ascanio non si era ancora misurato con il cinema inteso come fiction narrativa, lo fa per la prima volta con La pecora nera, presentato lo scorso anno al festival di Venezia. Il film, tratto da un suo libro del 2006 e trasposto anche a teatro, racconta la storia di Nicola (interpretato dallo stesso Celestini), che da trent’anni vive in un ospedale psichiatrico diventandone ormai un abitante normale: esce per fare la spesa assieme alla suora, collabora per le piccole attività quotidiane. Ma la storia di Nicola non è una storia comune, passare quasi tutta la vita in una clinica psichiatrica non può renderti normale. E così la storia ci parla del nostro paese degli ultimi trent’anni ma attraverso gli occhi di chi quel paese lo vedeva dalla televisione o dai personaggi che si incontrano al supermercato. Anche se il tema non è leggero Celestini lo tratta con leggerezza (ma non superficialità), ogni tanto ti scopri a sorridere mentre lo guardi ma quello che ti cresce dentro è un disagio tipico di quando si guarda qualcosa che non vorresti fosse reale ma che sai che esiste. Forse il Celestini del cinema non è dirompente come quello del teatro, avverti che alcuni snodi narrativi diventano forzati quando li filmi invece che evocarli con le parole. Paradossalmente i momenti migliori sono quelli nei quali ascolti la voce fuori campo di Ascanio dimenticando che la voce fuori campo è una delle scelte più anti cinematografiche che esistano. Ma Ascanio Celestini è così, quando lo senti parlare non esiste più niente al di fuori del suo racconto, e allora passi sopra a qualche piccolo difetto che si presenta di tanto in tanto. Perché in fondo averne film italiani così sinceri, così reali in mezzo a tanta rozza e inutile fiction che ci viene propinata quotidianamente.
Sergio

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martedì 13 settembre 2011

Into Paradiso - Paola Randi



E’ sempre piacevole constatare come il cinema italiano, da troppi anni etichettato come vecchio, polveroso e, addirittura, morto, sia ancora in grado di sfornare opere bisognose di raccontare storie ed emozioni profondamente radicate alla nostra realtà quotidiana; ed è ancora più confortante notare come tutto questo sia frutto di un’opera prima, partorita da una giovane aspirante regista dalle idee chiare e con la precisa volontà di rischiare e superare quella fitta rete di banalità e mediocrità in cui buona parte del cinema nostrano è rimasto intrappolato.  
Così Paola Randi ci regala una deliziosa fiaba sociale multietnica, piccola a livello di budget e risorse tecniche, ma grande nelle premesse e negli obiettivi.


La storia è quella di Alfonso, un timido ed impacciato precario ricercatore universitario, rimasto senza lavoro e costretto a rivolgersi ad un vecchio amico d’infanzia, un politico in ascesa legato alla mafia locale, per mandare avanti la propria vita. Coinvolto in una resa dei conti tra camorristi si troverà costretto a rifugiarsi nel terrazzo di una grande comunità srilankese nel cuore di Napoli, scontrandosi così con una realtà atipica e particolare che gli cambierà l’esistenza.
Un isolamento forzato all’interno di un piccolo “paradiso” simbolo di una realtà ancestrale ed atavica, ancora non contaminata dal bisogno incessante di potere e dalla volontà di migliorare a tutti i costi la propria condizione sociale; un’oasi retta da una collettività operosa per il bene comune, aperta al prossimo e al diverso che poco ha a che vedere con quella realtà ghettizzante che ci circonda e ci soffoca. Così  la terrazza in cui Alfonso si trova intrappolato rappresenta una vera propria boccata d’aria, un tuffo in un mare di solidarietà e rispetto che non conosce limiti.
Parallelamente si sviluppa il tema della criminalità organizzata, tema a noi caro e costantemente affrontato, scardinato e mostrato in tutte le salse, qui presentato in chiave nuova, in bilico tra il comico e il grottesco; un mondo imbarazzante e sopra le righe, inserito all’interno di una realtà asettica e fredda, come quella del reparto surgelati di un supermercato che si vede già sconfitto di fronte all’accogliente e cordiale microcosmo skrilankese.
Due diverse realtà a confronto rese ancora più lontane dalle scelte cromatiche (colori freddi e opachi per il mondo criminale e caldi ed accesi per la piccola comunità straniera) e dei luoghi che nelle loro architetture e conformazioni hanno tanto da raccontare.


L’intreccio tra commedia degli equivoci e commedia social sentimentale, la scelta di una narrazione sospesa tra il fiabesco e il reale e di accorgimenti stilistici che si distanziano dal contemporaneo panorama cinematografico italiano ci regalano un’opera unica nel suo genere, che sfrutta le potenzialità del mezzo per raccontare una storia universale nei personaggi e nelle emozioni.

Il cinema è denuncia, è riflessione, è racconto, è emozione, ma la Randi ci ricorda che il cinema è capace anche di farci sognare, di creare mondi possibili per dirla alla Leibniz, di modellare universi apparentemente distanti dalla nostra realtà, ma capaci di smuoverci e spingerci al cambiamento e alla rivoluzione delle coscienze.
Quello che la giovane regista intende fare è proprio rivoluzionare il modo di narrare, correndo il rischio di sperimentare (realtà quasi sconosciuta nel nostro paese) non demolendo l’anima della settima arte.
E come erano soliti fare i grandi maestri della commedia italiana, a volte è necessario nascondere la degradazione e l’abiezione dietro un’apparente sorriso, dietro una risata che ha radici ben più profonde e tragiche; un lieto fine che non dia serenità ed appagamento, ma che porti maggior consapevolezza e spinga alla riflessione, all’indignazione e al conseguente miglioramento.


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Valeria

lunedì 12 settembre 2011

Aleksandr Sokurov

Pur amando i festival del cinema, non sono particolarmente attento al momento dei premi e riconoscimenti, troppe sono le variabili che portano ad assegnare leoni o palme d’oro a un autore piuttosto che ad un altro. Ma quando, come qualche giorno fa, un regista come Aleksandr Sokurov riesce ad aggiudicarsi il leone d’oro a Venezia, sono felice soprattutto per un motivo: sapere che il suo film riuscirà ad ottenere una distribuzione (sia pur minima…) nel nostro paese.
Sokurov è uno dei massimi esponenti del cinema contemporaneo . Iniziò a girare in Unione Sovietica negli anni Settanta, intimo amico di Andrej Tarkovskij condivise con lui le censure del potere che mal sopportava tutti quegli autori inclini a una predisposizione intimistica nel linguaggio cinematografico. La sua filmografia è imponente e non comprende soltanto lungometraggi ma anche numerosi documentari. La sua collezione di Elegie (omaggi a personaggi e luoghi della sua terra, tra le quali una struggente Elegia moscovita (1987) dedicata proprio a Tarkovskij),  lo colloca tra gli autori più importanti del cinema dell’est europeo. In Italia fu soltanto nel 1997 che conobbe la sua prima distribuzione con il lungometraggio Madre e figlio. Con questo capolavoro assolutamente magico nelle atmosfere e nel linguaggio (ispirato ai dipinti di Caspar Friedrich), Sokurov rielabora il rapporto tra madre e figlio in un’ottica onirica ma con un grado di emotività talmente profonda da non potere lasciare indifferente. A partire da quel film Sokurov conobbe o giudizi esaltanti o stroncature durissime. Naturalmente faccio parte di coloro che amano il suo cinema pur nella consapevolezza che in alcuni suoi lavori l’eccessivo carico di poesia porta a una complicata lettura dell’opera rendendola troppo criptica (un po’ come il Tarkovskij di Nostalghia o Il sacrificio). Ma quando il suo stile non si lascia andare a virtuosismi (sia tecnici che linguistici) troppo arditi, ecco che i suoi film ti entrano dentro con una delicatezza e una forza che solo la poesia riesce a fare. E’ il caso di  Alexandra (2007), o dei suoi film che precedono quest’ultimo Faust vincitore a Venezia. Moloch (1999) Toro (2001) e Il sole (2005), che sono i primi tre capitoli della tetralogia (conclusasi appunto con Faust) che indagano sulla natura del potere su tre personaggi diversissimi (Hitler, Lenin e l’imperatore giapponese Hirohito) ma accomunati dal fatto di essere delle personalità fuori dal comune.
Per guardare Sokurov non è necessario essere degli esperti del linguaggio cinematografico ma bisogna essere predisposti ad accogliere e rielaborare le sue immagini come quando, da lettori, ci troviamo di fronte a una poesia di Montale. Soltanto allo spettatore pigro sarà interdetto l’ingresso in un universo poetico straordinario. Per tutti gli altri rimarrà la soddisfazione di entrare in simbiosi con un artista che speriamo possa in futuro (anche grazie a questo Leone d’oro) raccogliere il successo che merita.

Sergio

Da "Madre e figlio" (1997)

venerdì 9 settembre 2011

L'Idiota - Akira Kurosawa

“Adoro Dostoevskij, ma non filmerò mai L’Idiota dopo Kurosawa.”     
                                                                                                       
 [Andrej Arsen’evič Tarkovskij]




Dopo il capolavoro di Rashomon, Kurosawa era diventato un regista tenuto sott’occhio dal pubblico e dalla critica di tutto il mondo. Aggiudicatosi un posto di rilievo nella storia del Cinema, mette a punto quello che lui stesso definirà: “il mio più grande capolavoro”.
Dostoevskij è indubbiamente un pozzo senza fondo dal quale attingere ispirazione. Kurosawa cambia l’ambientazione, i costumi e i tratti più superficiali dei personaggi. Si passa da un’aristocrazia imperiale pietroburghese di fine ‘800 a un Giappone postbellico, i nomi dei personaggi cambiano, cambiano le loro storie, ma l’anima, la filosofia e le emozioni rimangono le stesse.
     Poco importa che il protagonista sia il giovane Kameda o il principe Myškin, l’ingenuità e la pura umanità di questo personaggio tocca nel profondo e commuove in entrambe le opere.
Un triangolo amoroso con ai vertici i due lati opposti della follia umana, quello feroce e incontrollato e quello buono e mansueto. Un uomo che dopo aver visto la morte da molto vicino, ha cominciato ad apprezzare la vita fino ai più piccoli dettagli, fino al punto di amare ogni cosa ed essere addirittura privato della capacità di odiare. Non riuscendo a provare odio, non riuscendo nemmeno  a pensare male di qualcuno, viene presto scambiato per malato mentale, o più semplicemente, per un idiota.
Nessuno riesce a volergli male, sarebbe come voler male a un bambino o a un cucciolo, ma nessuno lo rispetta veramente. Anche se qualcuno lo ama davvero.
L’amore della bellissima Taeko e l’amicizia dell’amico/nemico Akama sono gli elementi portanti del film, affidati a Setsuko Hara e Toshiro Mifune (attore prediletto di Kurosawa) che riescono in modo sorprendente a commuovere con pochi sguardi e ad impersonare con alta maestria la profonda complessità e dualità dei loro ruoli.
     Con “L’Idiota”, Dostoevskij e Kurosawa fanno una denuncia. Non una denuncia contro l’alta società pietroburghese o contro il Giappone post-bellico, ma una denuncia contro la gente. Contro la natura di tutta la gente, di ogni epoca e di ogni provenienza geografica. Denunciano la sconfinata difficoltà che ha l’uomo  nel confrontarsi con ciò che è diverso da se stessi, con ciò che inconsciamente ci fa più paura anche se non lo ammettiamo mai: essere “nudi”, puri, totalmente sinceri e, quindi, totalmente vulnerabili.
     Nella società che dipinge Dostoevskij nel racconto, e Kurosawa nel film, vediamo un uomo che è idiota perché troppo diverso dagli altri.  La gente non può accettarlo perché la sua purezza e il suo candore mettono in luce tutto ciò che non va in loro. Qualunque persona adulta e sana di mente si guarderebbe bene dal mostrarsi pura e candida. Equivarrebbe a mostrarsi indifesi.
La nostra società non lascia spazio ai puri e ai candidi. Chi lo è, viene inevitabilmente bollato con l’etichetta di Idiota.
     Tutti noi se incontrassimo un principe Myškin o un Kameda nella realtà, poco esiteremmo a definirlo idiota, o se non idiota magari “disagiato”, “ritardato”, insomma, uno con dei problemi. Ma in questa storia, leggendola su delle pagine o vedendola su di uno schermo, ci nasce una profondissima empatia dovuta al fatto che Kurosawa riesce a portare allo scoperto il lato puro di ognuno di noi e a porcelo davanti. Ci mette a confronto con una parte estremamente intima di noi stessi, senza farci sentire a disagio. 
     Ed è con questa parte di noi allo scoperto che sorge automatica la riflessione: ma chi è veramente l’idiota?

Robin




giovedì 8 settembre 2011

Kim Ki Duk - Arirang


Se negli ultimi vent’anni dobbiamo al cinema della Corea del Sud il merito di avere portato una ventata di freschezza e originalità al linguaggio cinematografico, gran parte di questo merito va a uno dei suoi cineasti di punta: Kim Ki Duk. Quando nel 2000 il festival di Venezia lo fece conoscere a noi occidentali con L’isola si comprese immediatamente che Kim era un regista dal quale aspettarsi parecchio. La (ri)scoperta dei suoi film precedenti (Crocodile, Birdcage Inn) e la meraviglia di quelli successivi (Indirizzo sconosciuto, Primavera, estate autunno, inverno… e La samaritana per citare i più belli) confermavano il fatto che Kim era uno dei registi più importanti del decennio. Non capitava da tempo di vedere al cinema delle storie con una così grande forza espressiva, dove violenza e tenerezza diventavano inscindibili, cardini di storie che non ti scivolavano via ma ti rimanevano dentro costringendoti a ripensare ad aspetti che l’uomo spesso è portato a rimuovere. La crudeltà dei rapporti umani ma anche la loro necessità, l’essere nello stesso tempo capaci di gesti violenti e di atti di amore infiniti. Tutto questo è presente in quei film di Kim e ogni suo titolo diventava un appuntamento obbligato. Poi succede quello che meno ti aspetti. Dopo La samaritana (che si conclude con i dieci minuti tra i più intensi della storia del cinema) comincia un lento declino. I film successivi di Kim diventano sempre più finti, estetizzanti e improbabili, girati velocemente e come fatti su commissione, con lo scopo di piacere a un pubblico occidentale di poche pretese: L’arco, Time, Soffio… come poteva il Kim che avevamo amato avere girato anche queste inutili storie? Il fatto di essere diventato un regista di culto lo aveva probabilmente portato a considerarsi capace di creare opere anche girando con la mano sinistra e gli occhi chiusi… Ma un’altra sorpresa stava arrivando. Nel 2008, durante le riprese di Dream, una sua attrice rischia di morire impiccata durante una scena, Kim riesce a salvarla appena in tempo ma esce devastato da questo episodio. Una persona stava per morire per girare una scena che lui aveva inventato. Kim manda tutto all’aria e va a vivere in una capanna in montagna, isolato da tutto e tutti. Per tre anni non si hanno più sue notizie, chi lo dava per malato chi per impazzito fino a quest’anno quando arriva di nuovo la sua voce con Arirang. Non è un film, non è un documentario ma piuttosto una testimonianza lancinante di Kim Ki Duk  della sua vita negli ultimi tre anni. Con l’aiuto di una piccola telecamera Kim si riprende e si racconta, su ciò che gli è successo, su ciò che non riesce più a fare e su quello che vorrebbe tornare a essere: un regista cinematografico. Arirang (come i grandi film di Kim) ti entra dentro come solo la vita riesce a fare quando è vera, attraverso la esperienze di Kim fai i conti anche con te stesso e con le tue paure. Come reagiremmo davanti a un trauma? Come saremmo in grado di risalire dopo una caduta? Impossibile dare giudizi estetici su un’opera come Arirang, usare i metri della classica critica cinematografica, siamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso. Naturalmente non siamo così ingenui da non sapere che anche in un’opera simile non ci sia un’abile costruzione (Céline diceva che nonostante tutto l’uomo sta sempre in posa e anche Kim scherza su questo quando in una scena afferma ironicamente “probabilmente prima piangevo per drammatizzare un po’…”) ma alla fine quello che rimane è uno straordinario documento che fa luce sul percorso umano di uno degli autori più importanti del cinema contemporaneo. Speriamo che sia anche il momento della rinascita di Kim Ki Duk e di quel suo cinema che nel passato è riuscito ad emozionarci come pochi.
Sergio