lunedì 15 ottobre 2012

Jules Dassin - La città nuda




Sarebbe possibile fare due storie del cinema, accanto a quella ufficiale composta da tutti i film arrivati in sala e più o meno apprezzati da pubblico e critica, ci potrebbe essere quella di tutti i film che avremmo dovuto vedere ma che interventi successivi realizzati da censori e produttori insoddisfatti non ci hanno permesso di farlo.
I casi sono talmente tanti che si può realmente parlare di una storia del cinema parallela; delle volte, a distanza di anni, torna in luce la versione originaria prima delle mutilazioni selvagge. E’ il caso per esempio del capolavoro di Jean Luc Godard “Il disprezzo” che nella versione imposta dal produttore Carlo Ponti è un film abbastanza insulso mentre nella versione originale del regista (comunemente detta director’s cut) è un vero e proprio capolavoro. Purtroppo molte altre volte non saremo mai in grado di ammirare la versione originale semplicemente perché non esiste (più).
Guardando “La città nuda” di Jules Dassin tocchi con mano la frustrazione di essere vicini a un capolavoro che per colpa di un produttore cieco non si potrà mai vedere. Dassin è uno di quei registi statunitensi che ha conosciuto una delle peggiori stagioni del cinema statunitensi, quella della cosiddetta “caccia alle streghe” voluta dal senatore repubblicano Mc Carthy contro tutti i lavoratori del mondo del cinema sospettati di essere simpatizzanti comunisti. Gli anni Cinquanta videro spegnersi decine di carriera nel mondo del cinema, famosi registi e attori condannati all’espatrio o al silenzio forzato solo perché erano o erano stati (magari in giovinezza) simpatizzanti di sinistra o perché qualcuno aveva fatto una testimonianza a tuo sfavore. Un periodo terribile che meriterebbe sicuramente un’analisi approfondita.
La città nuda uscì in sala nel 1948 ma al produttore Mark Hellinger non andava del tutto bene il lavoro fatto da Dassin ragion per cui pensò di rimontarlo sottraendo all’opera una parte consistente di fascino solo per cercare di rendere il film più commerciabile, in questo senso l’uso della voce fuori campo per commentare la trama è una delle scelte più deleterie che si potessero fare. La grandiosità del film, che rientra nel filone dorato dei noir americani, sta nell’ambientazione che (tra le prime volte) era totalmente en plen air, niente studi solo la città di New York ripresa in maniera magistrale dall’operatore William Daniels  (quello di Rapacità di Von Stroheim). La macchina da presa che vaga tra le vie e i grattacieli della città sono un vero e proprio monumento poetico mentre la perfetta struttura della trama, il misterioso omicidio di una modella, contribuisce al fascino dell’opera. Della lezione di ripresa urbana si ricorderà, qualche anno dopo, Stanley Kubrick quando girerà Killer’s kiss.
Con La città nuda New York ha l’equivalente di ciò che Berlino ebbe con il film di Ruttman del 1929 Berlino, sinfonia di una grande città. Bisognerà attendere un bel po’ prima di rivedere una New York così vera al cinema… ci penserà Cassavetes nel 1959 con Shadows e poi Scorsese e Allen negli anni Settanta con i loro capolavori Taxi driver e Manhattan. Da consigliare, oltre a che agli amanti del buon cinema, a tutti gli studiosi di architettura urbana.

Sergio


domenica 30 settembre 2012

Romanzo di una strage - Marco Tullio Giordana



Quando si parla di cinema politico in Italia ci si riferisce quasi sempre alla stagione d’oro degli anni Sessanta e Settanta con i riferimenti alle opere (sicuramente imprescindibili) di Francesco Rosi e Elio Petri. Negli ultimi anni è sicuramente arduo trovare i corrispettivi ad autori simili ma pensare che la stagione del cinema civile sia relegata soltanto al passato non credo sia vero. La visione di Romanzo di una strage di MarcoTullio Giordana conforta ancora più questo mio pensiero. Giordana non è nuovo a riletture di momenti molto importanti della storia italiana, dal delitto di Pasolini in “Pasolini, un delitto italiano” del 1995 alla storia di Peppino Impastato nel (giustamente) celebre “I cento passi” del 2000. Con Romanzo di una strage i fatti di Piazza Fontana vengono finalmente fissati in una pellicola di alto valore. Si parla della strage milanese del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura che fece 14 vittime e che molti mettono come momento iniziale di quella strategia della tensione che portò l’Italia in un incubo mai del tutto finito (anche perché non si è mai arrivati a conclusioni giudiziarie che abbiano fatto piena luce sugli eventi). Giordana ricostruisce il clima di quegli anni con una passione e una lucidità rari nel nostro cinema, un paese in bilico tra rivendicazioni operaie e tentativi autoritari, tra tentativi utopistici per una società migliore e lucidissime strategie per mantenere lo status quo e piuttosto cercare di peggiorarlo. Sappiamo purtroppo cosa ci hanno lasciato in eredità quegli anni, centinaia di morti senza giustizia e la consapevolezza (tristissima) che strutture organiche allo Stato in perfetta simbiosi con gli ambienti di estrema destra hanno concorso a far sì che il nostro Paese restasse ancorato a strutture di sfruttamento ancora oggi pienamente visibili e anzi sempre più duri in periodi di recessione come questo.
Siamo purtroppo i figli di Piazza Fontana, di una strage  per ampi versi perfettamente spiegabile da parte di chi abbia voglia di studiarla e anche per questo Giordana ha un grande merito, quello di permetterci uno sguardo d’insieme che abbraccia il nostro paese dalla fine degli anni Sessanta a quello che siamo diventati oggi. Mentre vedevo questo film mi è capitato di ripensare a un’altra importante opera cinematografica: Segreti di stato di Paolo Benvenuti del 2003, ricostruzione magistrale della, probabilmente, prima strage di stato, quella di Portella della Ginestra. L’Italia repubblicana è stata sin dall’inizio attraversata da scoppi di bombe che miravano a bloccare il cambiamento. Il cinema italiano ha sempre avuto tantissimi elementi sui quali lavorare e non sempre lo ha fatto nella maniera dovuta ma film come Romanzo di una strage ci permettono perlomeno di non dimenticare, “prima di non accorgerci più di niente” come diceva Peppino Impastato.
Nel film di Giordana è inoltre importante segnalare una straordinaria prova d’attore di Pierfrancesco Favino che interpreta in maniera magistrale il ruolo di Pinelli, l’anarchico fatto suicidare qualche giorno dopo la strage negli uffici della polizia di Milano dopo tre giorni di interrogatori.

Mi piacerebbe un giorno realizzare una rassegna di cinema italiano che parli della nostra storia degli ultimi settant’anni, che parta da Roma città aperta, quello che mi piace pensare come il primo film politico italiano e attraverso Le mani sulla città di Rosi, Todo Modo di Petri, Segreti di stato di Benvenuti giunga fino a questo Romanzo di una strage. Il giorno che anche nelle nostre scuole si faranno vedere questi film forse ci potremmo permettere di crescere una generazione un po’ più attenta alla nostra storia e quindi capace di diradare meglio il continuo fumo (più o meno consapevole) che ci arriva  quotidianamente davanti agli occhi.

Sergio


sabato 15 settembre 2012

Aki Kaurismaki -Miracolo a Le Havre



Guardare il cinema di Aki Kaurismaki è sempre stato per me un ottimo antidoto contro il cinismo e lo scoramento crescente che inesorabilmente con l’età aumenta. Il regista finlandese è uno dei pochissimi autori viventi a conservare una coerenza etica mai mutata nel corso degli anni diventando piuttosto con il trascorrere del tempo sempre più pura e intransigente.
I personaggi dei suoi film sono sempre gli ultimi della società, emarginati dal mondo che prende le decisioni anche per loro. Il male raramente si materializza come una figura umana (Kaurismaki raramente filma personaggi negativi), il male è la società, la sua struttura economica. Contro questo stato di cose possiamo contrapporre solo la profonda umanità degli ultimi, di quei personaggi fiabeschi che nascono dallo sguardo della sua magica macchina da presa.
Il suo ultimo film “Miracolo a Le Havre” è l’ennesima galleria di personaggi “fuori” dal mondo. Un lustracarpe ambulante (quanti ne esistono ancora in giro?), un ragazzino africano clandestino e senza documenti che sbarca per caso nella cittadina francese con la speranza di raggiungere Londra per ricongiungersi con la madre, un cane Laika che non fa nulla di speciale (non come quelli hollywoodiani…) ma è presente per fare compagnia quando c’è bisogno. A parte qualche brevissimo primo piano di un cattivissimo Jean Pierre Leaud (che emozione per tutti i truffautiani come me ogni volta che vedo il suo volto…), i personaggi negativi non si vedono mai. A volte si sentono ma sempre fuori campo. Kaurismaki  invece non abbandona mai i suoi protagonisti, li segue continuamente con una tenerezza e un rispetto altissimo. Mai nessuna scena patetica nei suoi film, sempre una dignità totale da parte di ognuno dei suoi personaggi. “Hai pianto?” chiede ad un certo punto il lustrascarpe Marcel al ragazzino africano che ha rischiato di essere trovato dalla polizia, “No” risponde Idrissa. “Hai fatto bene,non sarebbe servito a niente” ribatte Marcel. In questo breve scambio troviamo il Kaurismaki più profondo quello che ci insegna ad andare sempre avanti in ogni situazione e sempre con la forza della dignità. Solo così possiamo realizzare i miracoli, magari non sempre, più probabilmente molto raramente, ma sempre con la consapevolezza del nostro essere profondamente umani. Capaci di emozionarci sempre ma senza lacrime come ci ricorda lo sguardo del cagnolino Laika ogni volta che la storia prende una brutta china.
Del cinema di Kaurismaki abbiamo un enorme bisogno, non avrà purtroppo mai un grande seguito con le sue storie minime e i suoi personaggi ai margini ma è una delle ultime barriere etiche e culturali che possediamo e che dobbiamo tenerci stretto.

Sergio


giovedì 6 settembre 2012

Rafi Pitts - The hunter




L’evoluzione del cinema iraniano degli ultimi anni ricorda molto il percorso fatto dal cinema cinese tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Allora furono registi come Zhang Yimou e Chen Kaige ad aprire gli occhi a noi occidentali su di un paese e una società pochissimo conosciuta. Capolavori come “Lanterne rosse”, “Terra gialla” o “Vivere” diedero il via a una straordinaria fioritura cinematografica di un paese fino ad allora praticamente sconosciuto dal punto di vista artistico. Dopo qualche anno successe quello che pochi si aspettavano; i due registi che erano stati gli apripista di un nuovo linguaggio cinematografico, sfidando in maniera durissima le restrizioni censorie di quel paese, diventano autori accademici senza più voglia (o capacità) di rinnovarsi. Chen Kaige finisce ad Hollywood a girare film di poco spessore, Zhang Yimou diventa il regista simbolo del paese orientale allineandosi spesso e volentieri con quell’establishment politico che tanto aveva sfidato qualche decennio prima. Ma la loro antica lezione aveva per fortuna dato il via a una nuova consapevolezza del mezzo cinematografico e decine di nuovi e interessantissimi autori iniziavano la loro carriera a partire dagli anni Novanta.
In Iran si ripercorre pressappoco la stessa storia (pur se con tempi più dilatati). Si inizia a metà degli anni Settanta con maestri come Kiarostami e Makhmalbaf  che, fino alla prima metà degli anni Novanta realizzano opere fondamentali per la storia del cinema e per la conoscenza di un paese complicatissimo ma, a partire da un certo momento, cominciano ad aggrovigliarsi in esercizi di stile sempre più risibili perdendosi dietro a produzioni internazionali che lasciano spesso attoniti. Ma la loro eredità ha creato, come in Cina, un’altissima scuola cinematografica. Questo ha permesso a tanti registi iraniani di farsi conoscere negli ultimi anni nonostante una situazione politica sempre delicatissima (l’esempio di Jafar Panahi, probabilmente il maggiore autore iraniano del momento, rinchiuso in carcere a causa dei suoi film ne è un esempio lampante).
The hunter” di Rafi Pitts girato nel 2009 grazie a una produzione tedesca è un altro interessante tassello di quello che i nuovi autori iraniani riescono a regalarci in mezzo a un mare di difficoltà e tensioni elevatissime. Girato qualche mese prima dell’ultima elezione che ha purtroppo portato Ahmadinejad alla guida del paese mi ha inizialmente colpito per una caratteristica non comune del cinema iraniano. Lunghissimi silenzi laddove i grandi maestri ci avevano abituato a dialoghi quasi estenuanti, una ricerca precisa nel non fare apparire Teheran come una realtà geografica precisa ma come luogo universale di una precisa condizione dell’umana modernità. Ne viene fuori un film pienissimo di significati pur in una struttura narrativa abbastanza semplice. Si parla di un uomo dal passato difficile che lavora in una fabbrica sempre nel turno di notte. Raramente riesce a passare del tempo con la moglie e la figlia, unici personaggi positivi del suo orizzonte umano, il resto è solo rumore, città, diffidenza e una voce alla radio che preannuncia grandi novità dopo le elezioni. Un giorno la moglie e la figlia scompaiono inghiottite dalle manifestazioni che pian piano fanno di Teheran un teatro sanguinosissimo di eventi tragici. A quel punto inizierà per il protagonista un personale viaggio nella vendetta contro una società drammaticamente inumana e resa ancora più tragica dalla sua indefinibilità (le strade, gli uffici e i posti di polizia vengono raffigurati quasi come luoghi kafkiani dell’assurdo).
Rafi Pitts ci presenta una Teheran insopportabilmente lontana da quella che una società accogliente dovrebbe essere ma lo fa senza nominarla mai e rendendola drammaticamente universale. La trasforma in un’agghiacciante metafora della città moderna in cui anche noi occidentali non stentiamo a riconoscerci. Una città “implosa dall’interno” in cui i rapporti umani sono scomparsi per lasciare solo spazio a rumori, tensioni e inquietudini sempre più forti. Una Teheran drammaticamente vicina anche per noi.

Sergio


mercoledì 4 luglio 2012

Aleksandr Sokurov - Arca Russa


Il 23 dicembre del 2001 il museo russo dell’Ermitage, una tempo residenza principale degli zar, resta chiuso al pubblico per le riprese di Arca Russa. Quattro anni di preparativi per un solo giorno di riprese. Un unico piano sequenza, più di 90 minuti senza neanche uno stacco di montaggio. 867 attori e più di mille addetti ai lavori, di cui ben 22 assistenti alla regia. Una steady-cam di nuova generazione fatta costruire apposta per quest’esperienza.
Sebbene tutto ciò possa sembrare un vezzo virtuosistico da ricerca del guinness dei primati piuttosto che una scelta stilistica, questa difficile sfida cinematografica non è fine a se stessa ma è assolutamente subordinata a un’esigenza narrativa.
Una ripresa morbida, delicata e continua ci suggerisce lo scorrere del tempo conducendoci in un viaggio onirico attraverso trecento anni di storia russa.
Fulcro di tutto il film è il confronto tra i due protagonisti: “il Russo”, occhi e anima dell’inquadratura, di cui sentiamo solo la voce, e “l’Europeo”, rappresentato da un diplomatico francese del XIX secolo catapultato nella visione di Sokurov.
Metafora di Russia ed Europa, del loro contorto rapporto di amore/odio, il loro diverso modo di percepire gli eventi a cui assistono lascia lo spazio a numerose riflessioni e a pesanti critiche verso la società russa odierna.
Insieme, quasi come fantasmi, il Russo e l’Europeo assistono a momenti di privata brutalità di Pietro il Grande, a uno spettacolo adibito per Caterina II, alle pubbliche scuse dell’ambasciatore di Persia per l’attentato in cui restò ucciso Griboedov, a momenti della vita familiare di Nicola II etc.
Una straordinaria lezione di storia che funge da sostegno a un inno alla poesia,  all’arte e alla bellezza.
Il compito di chiudere il film è lasciato alla suggestiva scena del ballo di corte sulle note di Mikhail Glinka; la macchina da presa balla insieme alle centinaia di comparse in una delle scene visivamente più belle che abbia mai visto.
I dialoghi sono pochi, corti e asciutti. Concetti semplici espressi con semplici parole. Il compito di evocare un vasto spettro di emozioni è riservato alla profonda meraviglia delle immagini che danzano su una musica altrettanto meravigliosa.

Mi lascia sbalordito pensare alla mostruosa organizzazione necessaria per realizzare un simile lavoro. Una coordinazione di circa duemila persone, più di ottocento attori truccati e in costume pronti ai loro posti molto prima del loro turno. Un solo errore, anche nei secondi finali, ed è tutto da ricominciare.
Un’esperienza straordinaria che ha avuto il merito di regalare questa piccola perla alla Storia del Cinema.
Sono convinto che tra cent’anni, si studierà questo film come oggi si studiano le pellicole di Ejzenshtejn.
A proposito di questo, non riesco a non sorridere pensando che nella stessa scalinata dell’Ermitage in cui si chiude il film, poco meno di cent’anni prima, Ejzenshtejn girava le sequenze finali di Ottobre, film altrettanto sperimentale, con dei tagli di montaggio estremamente serrati per l’epoca. In pratica, con un progetto diametralmente opposto, ma altrettanto geniale per i suoi tempi!   :-)

Robin



martedì 5 giugno 2012

Hayao Miyazaki - Laputa, il castello nel cielo



Pensare che anche per questo capolavoro di Miyazaki si è dovuto aspettare 26 anni prima di vederlo arrivare al cinema ci da la misura della lungimiranza di gran parte dei distributori nazionali. Per fortuna che la lucky red ha acquistato i diritti per tutte le opere della Studio Ghibli e pian piano ci da la possibilità di goderne.
Non so ancora come abbia fatto il regista giapponese ad aver realizzato un così alto numero di opere mantenendosi sempre su un  livello così elevato. Probabilmente la risposta più semplice, e anche più vicina alla realtà, è che Hayao Miyazaki è un genio. Uno dei pochi geni del  mondo del cinema ancora in attività e capace, ad ogni sua opera, di regalarti un numero di emozioni così alto da farti compagnia per tanto tempo e farle diventare un ulteriore piccolo mattone  per la tua formazione, anche quando pensi che l’età della formazione sia finita già da un pezzo…
Laputa, il castello nel cielo diretto nel 1986, è probabilmente il film che consacra definitivamente Miyazaki come un grande autore di animazione con una sua poetica ben definita. Nella storia della piccola Sheeta che deve fuggire da ripetuti tentativi di sequestro da parte di pirati dell’aria e oscuri corpi militari ci sono tutti i temi abituali del Miyazaki contemporaneo. Il suo pessimismo sull’uomo ma anche il suo grande amore per tutte le volte che egli riesce ad entrare in sintonia con il mondo della natura. La passione per il volo (che ritornerà sia in Porco rosso che nel Castello errante di Howl) e per tutto ciò che esso rappresenta.
Contestualizzando il film all’anno in cui è stato scritto si può sicuramente affermare come Laputa sia il film dell’ingresso nella maturità artistica di Miyazaki. Vi ritroviamo ancora un forte collegamento con il creatore di Lupin (le figure divertentissime dei pirati dell’aria richiamano in maniera precisa il mondo di Lupin con i suoi folli inseguimenti a bordo della leggendaria 500 gialla) ma, per la prima volta, entrano in scena i temi elencati prima e che rappresenteranno un chiarissimo marchio di fabbrica del mondo del creatore di Totoro.
Laputa è una città che sta nel cielo,come un’Atlantide di stanza sopra le nuvole invece che negli abissi marini, essa racchiude in sé tutto ciò che di buono (ma per contrasto anche di malvagio)  che la natura umana può rappresentare. La piccola Sheeta è l’unica persona che può raggiungerla grazie alla sua nobile discendenza e al possesso della magica gravipietra. Proprio per questo sulle tracce di Sheeta lotteranno pirati e governi minacciosi. Con una maestria propria dei grandi Miyazaki traccia in maniera straordinaria i caratteri dei personaggi del film. Tutti concorrono a completare l’ennesimo grande affresco miyazakiano. E’ sempre difficile descrivere le emozioni ma forse serve raccontare della grande serenità che si impadronisce di te alla fine della visione ringraziando ancora una volta Miyazaki per ciò che mi ha donato. Per come mi ha insegnato a guardare la natura (supportato in questo dalle lezioni della mia cagnolina…) e per come riesce a farmi avere ancora un po’ di fiducia nel mondo.

Sergio


martedì 22 maggio 2012

Pane e Fiore - Mohsen Makhmalbaf

Il mio personale viaggio attraverso il cinema iraniano di oggi e di ieri non conosce tregua, dopo Kiarostami, Panahi e Fahradi (su cui non ho ancora scritto nulla) adesso tocca al maestro Makhmalbaf. Il soggetto della pellicola è un avvenimento autobiografico: l’aggressione a una guardia imperiale da parte dello stesso regista all’età di 17 anni; la vicenda è però un pretesto per raccontare qualcosa di più profondo e importante, la potenza e il potenziale del mezzo cinematografico. Ecco perché Pane e Fiore è forse la pellicola che più si avvicina al Kiarostami di Close up.
Il perfetto intreccio tra finzione cinematografica e racconto reale rende la vicenda sospesa, in bilico tra il virtuale e l’autentico; la mediazione della macchina da presa dona all’intero evento colori nuovi e sfumature differenti, e allo stesso tempo dà alla pellicola un ampio respiro internazionale.
Insomma una storia senza tempo e senza confini capace di trasformare uno specifico evento in qualcosa di più grande.
La trasformazione del fatto reale in immagine cinematografica permette a Makhmalbaf di dare vita a una vicenda completamente nuova, di modificare la propria giovinezza e quella della guardia, e veicolare un nuovo messaggio. La potenza del cinema e dei suoi collaboratori riesce così a ricreare un avvenimento ex novo e a dare agli attori in scena nuove motivazioni e nuovi pretesti grazie ai quali muoversi e agire. Makhmalbaf è un demiurgo perfetto e plasma i suoi “attori” con estrema delicatezza ondeggiando egregiamente tra finzione e realtà, e creando allo stesso tempo confusione e straniamento in chi guarda e si appassiona alla vicenda.
Il regista iraniano tenta di riscattarsi dall’errore giovanile donando all’intera vicenda un nuovo significato; probabilmente la presenza della guardia all’interno del film basta da sola a comprendere le reali intenzioni di Makhmalbaf. E in tal modo la scena finale, che andrà inevitabilmente a sostituire l’evento reale, rappresenta la seconda chance del cineasta persiano, il cinema gli consente di redimere sé stesso e iniziare da capo.
Quello di Makhmalbaf è allo stesso tempo un perfetto saggio sul cinema, così come lo era il Close up di Kiarostami, una viaggio nella finzione spettacolare attraverso il simbolo della finzione, ovvero la macchina da presa. Una messinscena che è però qualcosa di più profondo, un mezzo di redenzione, uno strumento di educazione cinematografica, una realtà parallela in grado di dare un senso all’esistenza, nonché una dichiarazione d’amore. Sì, quelle di Mahkmalbalf e Kiarostami sono certamente due intense lettere d’amore al cinema, alla sua forza e al suo potenziale. La macchina da presa e lo schermo ricreano ex novo e quindi permettono di rievocare o riprodurre  qualsiasi evento.
In tal modo il regista iraniano rivive una seconda giovinezza, questa volta in maniera differente, con maggior consapevolezza e un animo diverso.
E' il caso di dire che Mahkmalbaf ha trovato il modo di salvare l’umanità.
Valeria

mercoledì 9 maggio 2012

Paolo Sorrentino - This must be the place


Non so più se la colpa è mia che ad ogni nuovo film di Sorrentino ripenso sempre a quel capolavoro de L’uomo in più ma ogni volta rimango sempre un po’ più deluso.

Se con Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia ero ancora abbastanza fiducioso nelle capacità dell’autore italiano, la visione del Divo e adesso di This must be the place mi preoccupano non poco. Sorrentino conferma (ed estremizza) ancora di più la sua tendenza a fare cinema elegante nella forma ma di contro approfondisce poco lo spessore dei personaggi (almeno per uno con le sue potenzialità…). Tra continue carrellate su campi lunghi e battute troppo precise per essere sincere, provo quella strano fastidio che si avverte quando senti privilegiare la forma rispetto alla sostanza.

In questa storia di una rockstar di mezza età che si muove (e parla) in maniera catatonica e che non canta più divorata da vecchi sensi di colpa, sembra tutto programmaticamente scritto a tavolino. Per citare il protagonista Cheyenne (Sean Penn come al solito bravissimo),  “qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato…”. La notizia della morte del padre, con cui non ha più rapporti da trent’anni, e il viaggio che Cheyenne intraprende alla ricerca delle sue radici non è propriamente qualcosa di mai visto al cinema. Manca quello scarto in più che solo ti può dare la completa adesione sentimentale a un personaggio. Non ti affezioni (e probabilmente neanche il regista lo fa) a nessuno in particolare e ti rimane dentro solo la scena in cui un ragazzino chiede a Cheyenne di riprendere in mano la chitarra per accompagnarlo nell’esecuzione del vecchio pezzo dei Talking heads che da il titolo al film. Unico momento di poesia in un film che per il resto scorre via elegante ma con poca anima.

Da Sorrentino spero ancora di potermi attendere di più… 

Sergio

venerdì 4 maggio 2012

Gus Van Sant - Restless (L'amore che resta)



Gus Van Sant è un regista discontinuo. Nel corso della sua carriera è riuscito ad alternare titoli di alto livello (Malanoche, Elephant) ad altri trascurabili (Cowgirl o Da morire), ma non si può certo dire che non sia un autore da tenere d’occhio. Vedo regolarmente i suoi film e spesso prima di iniziare la visione non so niente della trama (non mi succede con molti autori). Ho iniziato a guardare senza nessuna aspettativa particolare il suo ultimo titolo Restless (L’amore che resta nell’orrenda traduzione italiana) e devo dire che è stato meglio così perché probabilmente la lettura della sinossi mi avrebbe fatto essere prevenuto nei confronti dell’opera. Un film che parla di amore, di morte,di malattie… il rischio di cadere nel patetico era così alto che sicuramente avrei spostato la visione a chissà quale anno. Invece termina il film e ti senti con la voglia immediata di far conoscere agli altri questa piccola perla.

Presentato allo scorso festival di Cannes (nella sezione probabilmente più artistica, quella de Un certain regard) e accolto da un’ottima critica, Restless ha avuto pochissima visibilità nelle nostre sale. La storia è quella di due giovani adolescenti (età molto cara al regista), Enoch e Annabel che si conoscono e si amano in un contesto non propriamente riconducibile all’immaginario che siamo abituati a collegare ai sedicenni. Lui passa il tempo a imbucarsi ai funerali, lei vive un presente carico di inquietudine a causa di un brutto male. Restless in inglese sta per inquieto e l’inquietudine in questo film entra nella vita di questi ragazzi che però decidono di affrontarla con la leggerezza che purtroppo solo pochi riescono ad avere nei confronti dell’esistenza. Come in una poesia di Keats, il rapporto tra i due ragazzi scorre leggero come una piuma e la loro delicatezza ci insegna a vivere pienamente il nostro presente qualunque siano le condizioni esterne. Gus Van Sant riesce a non cadere mai nel patetico, rifuggendo tutte le situazioni da ricatto emotivo che si presentano e lasciando spazio soltanto a una sottaciuta malinconia. Ma non a quella malinconia che ti fa venir voglia di dimenticare il mondo ma di quella che ti porta a maledire il tempo che passa perché non ti da modo di dire tutto quello che hai dentro. Come dice Hiroshi, l’anima di un kamikaze giapponese unico amico e compagno di confidenze di Enoch “abbiamo così poco tempo per dire le cose che vogliamo dire, abbiamo così poco tempo per tutto…”

Tra gli altri meriti del film una colonna sonora straordinaria: titoli di testa sull’immensa Two of us dei Beatles e poi la scoperta di un gruppo (Bon Iver) e un musicista (Sufjan Stevens) che credo mi daranno parecchio da ascoltare nei prossimi giorni…

Sergio

martedì 24 aprile 2012

Woody Allen - Midnight in paris


E’ diventata ormai un’abitudine da parte mia guardare l’ultimo film di Woody Allen quando al cinema è già in programmazione quello nuovo. Sono lontani i tempi in cui assistevo alla prima proiezione che davano in città del suo ultimo film alle quattro del pomeriggio (insieme a pochi altri fanatici); il numero di delusioni che mi ha dato nell’ultimo decennio è così alto da non farmi accorrere ogni volta che vedo spuntare il suo nome in cartellone. Mi rifaccio periodicamente con i suoi vecchi titoli, medicina sicura contro l’atrofizzarsi del pensiero e antidoto contro le delusioni dei moderni Allen. Ed è così che iniziando a vedere Midnight in Paris, nulla in più mi aspettavo rispetto alle sue ultime produzioni. Ma evidentemente con Woody non bisogna mai dare nulla per scontato, con mia grande sorpresa ecco scoprire che qualcosa del suo antico genio ritorna magicamente in questa pellicola. Non ci avrei scommesso un euro, ma per un’ora e mezza mi sono divertito come non mi capitava con un suo film almeno da Harry a pezzi (anno di grazia 1997…). Sarà stata la magica atmosfera parigina, saranno stati i personaggi leggendari di cui è popolata la pellicola ma quello che viene fuori alla fine, se non proprio un film all’altezza di capolavori come Crimini e misfatti o Zelig, è un film di alto livello con una sceneggiatura talmente azzeccata da fare ben sperare per il futuro (anche se le voci sulla sua ultima opera mi sembrano abbastanza negative…).
Nella Parigi contemporanea uno scrittore americano in cerca di ispirazione per completare il suo romanzo, accompagnato da fidanzata, suoceri e amici invadenti sogna di fuggire da quell’atmosfera insopportabile per poter vivere nel mondo dei suoi desideri che si rispecchia con la Parigi d’oro degli anni Venti. Quella dove a ogni bistrot potevi incontrare Hemingway, Picasso e Luis Bunuel e magari andare a cercare conforto a casa di Gertrude Stein. Probabilmente la città, e il momento storico, in cui ogni intellettuale vorrebbe avere la possibilità di vivere almeno per un po’… e allora Allen, con una semplicità che solo i grandi posseggono, ecco che fa arrivare, ovviamente allo scoccare della mezzanotte, una macchina d’epoca che prende il protagonista per accompagnarlo in un’altra Parigi, quella dei suoi sogni. Inutile dire che gli incontri che Gil (il nostro scrittore) farà saranno tutti di altissimo livello, da Scott Fitzgerald, a Hemingway, da Man Ray a Dalì, nessuno manca all’appello in quell’incredibile palcoscenico di grandi menti che fu la capitale francese di quegli anni. Pur giocando sulla superficie e sul risaputo attorno ad ogni personaggio (ma naturalmente sempre di commedia si tratta), le situazioni che crea Allen sono irresistibili. Quando Gil suggerisce a un giovane e dubbioso Bunuel il soggetto de L’angelo sterminatore ho riso come da tempo non mi capitava. Oppure l’arrivo di Dalì (interpretato in maniera magistrale da Adrien Brody) e quello di Man Ray che, al tentativo di Gil di raccontargli la sua strana situazione di viaggiatore del tempo, non trova niente di strano nel dirgli che è tutto normale… Lampi di genialità del vecchio Allen che, oltre alla leggerezza con cui ci accompagna, riesce a farci riflettere su come ognuno di noi abbia dentro di sé un luogo del cuore nel quale voler fuggire tutte le volte che il presente diventa troppo stretto. Salvo poi farci capire (ma senza essere didattico), che la vera magia è vivere il presente con il massimo delle proprie potenzialità, senza rimpianti e compromessi.
E’ stato bello vedere questo film, mi ha divertito pensare come anche per me Parigi sia la città del cuore e che, dal punto di vista temporale, mi sarebbe piaciuto spostarmi una decina d’anni più avanti, magari tra il 1932 e il 1936, quando avrei potuto andare a fare una chiacchierata con Jean Renoir, Jacques Prévert o Jean Gabin in mezzo all’atmosfera di grande fermento del Fronte Popolare. Oppure andare a trovare Louis Ferdinand Céline mentre scriveva quei capolavori immensi come il Viaggio al termine della notte e Morte a credito.
Che rabbia pensare che uno come Allen negli ultimi dieci anni non sia stato sempre a questi livelli…
Sergio

Trailer


Gil incontra Salvador Dalì

venerdì 20 aprile 2012

Aurélia Georges - "L'uomo che cammina" (L'homme qui marche)


Guardare un’opera prima ti mette addosso una curiosità particolare. Speri sempre di scoprire un autore finalmente originale che abbia delle ottime storie da raccontare. Spesso rimani deluso dalla presunzione di registi che, solo perché riescono a far fare dei giri particolari alla macchina da presa rimanendo in equilibrio su una sola gamba, credono di far parte tra i grandi del cinema.
Per fortuna non è stato il caso di questo piccolo gioiello cinematografico della giovane regista francese Aurélia Georges “L’uomo che cammina” (L’homme qui marche). Da subito capisci che la pellicola ha una sua originalità, una messa in scena minimalista che non tende all’accumulo ma mostra solo il necessario con atmosfere che fanno ricordare i soggetti di Kaurismaki; dei personaggi che ti mettono addosso un’istintiva curiosità nel voler comprendere da dove provengano, come il protagonista di questo film che sembra uscire direttamente da una delle opere migliori di Giacometti (L'uomo che cammina appunto...). La storia del film narra di un evento reale, la storia di un esule russo a Parigi, Vladimir Slepian, scrittore per istinto ma che riuscì a fare pubblicare solo un suo testo negli anni Settanta (e dalla breve lettura che se ne fa nel film sembra anche molto interessante…) per poi scomparire in un lento oblio che lo portò letteralmente a morire di fame, nel 1998, proprio in mezzo a uno dei quartieri più famosi di Parigi: Saint Germain des Prés.
La macchina da presa della regista francese non si stacca praticamente mai dalla figura del protagonista (un bravissimo César Sarachu), ma lo fa con una discrezione rara, quasi pudore rispettoso per un uomo singolare che sembra provenire da un altro pianeta. Fino alla fine speri di potere entrare dentro il mondo di questa figura così singolare ma chissà se in fondo quest’uomo non provenga proprio dalla luna e il suo passaggio sulla terra sia stata soltanto un incidente. Attorno a lui la Parigi dagli anni Settanta agli anni Novanta, tra caffè letterari (Les deux magots su tutti), lezioni di Lacan e intellettuali del quartiere latino; in mezzo a loro passa Sleipan (nella pellicola con il nome di Viktor Atemian) come un lord inglese in mezzo a una curva di ultrà, impossibile non accorgersene ma alla fine non gli si da troppa retta…
Rimane la lettura di un brano di Fils de chien pubblicato in una rivista letteraria nel 1974 (accanto a testi di Beckett e Robbe-Grillet) che lascia intuire come dietro quest’uomo così particolare si nascondesse probabilmente qualcuno che aveva ancora tanto da dire ma che un mondo troppo abituato ad urlare non poteva perdere tempo ad ascoltare.
Sergio

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Su Vladimir Slepian

giovedì 19 aprile 2012

Cronenberg terza puntata... LA ZONA MORTA


Oggi voglio scrivere di quel che si dice “il peggior Cronenberg”, ovvero la trasposizione cinematografica del fortunato libro di Stephen King “La zona morta”. Credo che il nome di King giochi parecchio a favore di questo giudizio, eppure qualcosa di interessante deve pur esserci in lui se le pagine dei suoi libri sono fra le più sfruttate in campo cinematografico… certo, per la maggior parte delle volte si è trattato di film per battere cassa… però io oggi lo voglio “difendere” da chi lo etichetta solo come scrittore di best seller. Credo però anche che non ci sia occasione migliore di questa per vedere la differenza tra un bravo scrittore che padroneggia il suo strumento e un genio visionario…
Ancora una volta Cronenberg indaga sulla possibilità dell’uomo di andare oltre i limiti fisici del suo corpo e assumere dei poteri mass-mediali che gli permettono spesso di sintetizzare le categorie spazio – temporali. Della narrazione il regista ne fa un contorno al centro del quale emergono ancora una volta le ossessioni centrali della sua poetica. Quello che in King era infatti un innato potere di predire il futuro, in Cronenberg diventa capacità illimitata di Johnny di estendere i suoi organi di senso, attraverso una dimensione spazio temporale elastica, che lo fa saltare di continuo attraverso vari livelli di realtà, passati, presenti e futuri. Inoltre, se appunto questa facoltà si delineava attraverso la penna di King come innata e solo acuita dal lungo stato di coma, per Cronenberg l’incidente stradale (altro topos ricorrente nella sua ricerca) ne è la causa scatenante.
Ancora una volta lo “scontro” con la tecnologia è causa di un’alterazione che conduce il protagonista verso la superumanità. Ma se in Scanners il mad doctor era una persona fisicamente identificabile, ne La zona morta è un perenne fuoricampo, forse si tratta del caso, o forse di un dio di cui Johnny è uno degli esperimenti malriusciti.
Ad accomunare i due film è l’estrema solitudine dei protagonisti, che non trovano posto nella società a causa della loro diversità. Pur avendo sembianze normali infatti, sanno di non esserlo, e questo è per loro causa di una ontologica tristezza che non trova soluzione se non forse nel sacrificio finale.
Johnny, da individuo assolutamente ordinario, si ritrova letteralmente catapultato in una diversità che non sa gestire. Perde il lavoro, la donna che ama e ogni cosa che per lui avesse un senso nella “vita passata”; la società lo coinvolge solo per sfruttare le sue doti di chiaroveggenza, ma per il resto lo guarda come un mostro. Quello che sembrerebbe un dono risulta invece essere un handicap; Johnny non ne ha il controllo, non lo usa a sua discrezione ma ne è aggredito (come gli scanners, perseguitati dalle voci mentali) e quindi vittima. La sua mano si è trasformata in un organo di percezione sovrumano, gli permette di avere una visone panottica del tempo; inoltre la “zona morta” che era per King una percentuale di imprecisione trascurabile, è per Cronenberg nelle visioni di Johnny una sfumatura, una percentuale di indeterminatezza che permette a Johnny di intervenire sul corso degli eventi, creando futuri alternativi. Ma questa illimitata capacità di conoscere e “vedere oltre” è controbilanciata da un inesorabile consumo delle sue energie vitali che lo conduce quindi inevitabilmente alla morte.
Si ripresenta quindi un raccordo mancato, forse tra un inizio di mutazione e la mancanza di tutti i presupposti necessari.
Che dire infine di Christopher Walken? Superlativo.
Alla prossima Cronenberg-puntata…

Gabri
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mercoledì 18 aprile 2012

Diaz - Don't clean up this blood - Daniele Vicari

Un incubo a occhi aperti dal quale non ci siamo svegliati e dal quale probabilmente non ci sveglieremo mai. Il film di Vicari è una lama in pieno petto, un lancinante pugno allo stomaco che spiazza perché non dà nessuna verità assoluta ma martella il nostro cervello di domande: qual è il ruolo della polizia in uno Stato democratico? Come deve essere garantito l’ordine pubblico? Perché nessuno dopo 11 anni ha ancora pagato? Perché nessuno ha chiesto scusa? E perché in Italia non esiste il reato di tortura? Potrei andare avanti all’infinito.
Quel vortice di violenza che la notte del 21 luglio 2001 si è abbattuto sulla Diaz è una ferita ancora aperta e Vicari questo lo sa bene; per tale motivo ha avuto l’esigenza di raccontare e documentare, non denunciare. Dare una testimonianza audio-visiva della “macelleria messicana”, così definita dal vicequestore Michelangelo Fournier, che ha colpito il nostro paese, e non solo, lasciando a chi guarda le conclusioni, anche se si tratta per lo più di dubbi e domande. Diaz è una tappa essenziale nella costruzione di una memoria collettiva, un passo fondamentale e necessario per non dimenticare e chiederci in quale direzione stiamo andando. E così Vicari ci apre la strada dell’orrore.
Il regista italiano procede parallelamente mostrandoci le falle, le debolezze, la disorganizzazione e le paure dei due gruppi contrapposti, Forze dell’ordine e Genoa Social Forum, preparando il terreno per lo scontro finale e accrescendo quel clima di tensione e aggressività che durante il G8 ha colpito l’intera città di Genova. Tutto questo inserito in un vuoto istituzionale (la politica e le istituzioni sono distanti o, addirittura, assenti) che incrementa quel senso di disfacimento e orrore probabilmente ancora presente in questo paese. Anche qui un turbinio di domande tartassa le nostre teste. Vicari non ci lascia mai tranquilli, ma ci pungola costantemente costruendo attorno ai fatti della Diaz personaggi e storie propedeutici allo scontro finale.
Dall’irruzione nella scuola fino alle vergognose torture avvenute nella caserma di Bolzaneto, il film di Vicari è un vortice di irrazionalità senza fine. Lo hanno definito film di guerra o addirittura film dell’orrore, e in effetti Diaz è tutto questo: la guerriglia civile e le sequenze orrorifiche di cui siamo spettatori sono potenti e difficili da dimenticare perché reali. Per questo motivo a Vicari va il merito non solo di averci regalato un documento fondamentale su uno degli avvenimenti più vergognosi e oscuri del nostro paese, ma anche quello di aver creato un’opera cinematografica di grande valore. Autonoma e universale perché intende andare oltre e raccontare qualcosa di più profondo e necessario: fino a che punto può arrivare la violenza umana quando questa è legittimata e autorizzata dalle istituzioni? Il manganello e il casco dati in dotazione all’uomo sotto la divisa che significato hanno? L’ordine pubblico si garantisce solo attraverso le armi?
Per questo il film di Vicari guarda al futuro, documenta e racconta il passato obbligandoci a riflettere contemporaneamente sul nostro presente e sulla nostra vita futura. Quel sangue non va pulito perché ha macchiato, macchia e continuerà a macchiare la nostre vite e il nostro rapporto con le istituzioni, obbligandoci a rimanere svegli e vigili.
Se Vicari ha dato vita a un’opera cinematografica e a un documento di estrema importanza e valore è perché in lui è forte il bisogno di dare ai suoi spettatori un terreno comune sul quale camminare e crescere; un regista non è un giudice o un accusatore e il cinema non è un tribunale, come ha affermato il regista italiano in numerose interviste, ma entrambi devono essere accomunati dall’esigenza di documentare e testimoniare per poi andare oltre. E se guerra e orrore si fondono nel film di Vicari è perché da quella notte il sangue ha iniziato a macchiare questo paese e non si è più fermato, ma soprattutto perché la violenza e la sua irrazionalità sono state, e saranno ancora, una componente imprescindibile della nostra esistenza Il regista italiano ci incita e ci aiuta a guardare all’attualità e al domani senza dimenticare quello che è successo ieri, ed è come se nei titoli di coda fosse scritto: Adesso tocca a voi!

Vi lascio con queste parole.
Il discorso di difesa di Panahi al suo processo:

Durante la mia carriera ho sottolineato che sono un regista socialmente impegnato e non politicamente. Il mio principale interesse sono le questioni sociali; pertanto i miei film sono drammi sociali, non dichiarazioni politiche. Io non ho mai voluto agire come un giudice o un accusatore. Io non sono un regista che giudica ma uno che invita gli altri a vedere. Io non mi metto a decidere per altri o a scrivere alcun tipo di manuale per nessuno; permettetemi di ripetere la mia pretesa di porre il mio cinema aldilà del bene e del male.


Valeria

martedì 10 aprile 2012

Arrietty - Hiromasa Yonebayashi e Hayao Miyazaki


Come sempre succede quando mi preparo a vedere un film dove c’è la mano di Hayao Miyazaki, le aspettative sono altissime e la paura di rimanere un po’ deluso è naturale. Alla fine della proiezione mi accorgo che l’emozione che ancora una volta riesce a regalarmi supera ogni desiderio. E’ stato così anche per “Arrietty - il mondo segreto sotto il pavimento”. Scritto dal maestro giapponese e diretto dal suo allievo Hiromasa Yonebayashi (che aveva già curato l’animazione de La città incantata e Ponyo sulla scogliera), il film riprende i racconti fantasy della scrittrice inglese Mary Norton. La storia di due mondi che si incontrano, quello degli umani e quello dei prendimprestito piccoli gnomi che vivono sotto il pavimento di una grande casa di campagna e risalgono nelle case degli umani solo per prendere in prestito qualche genere di prima necessità, una zolletta di zucchero o una fazzolettino di carta.
L’incontro tra mondi diversi non è certo una novità, soprattutto nell’universo delle fiabe di animazione ma quello che rende Arrietty l’ennesimo capolavoro uscito fuori da quella straordinaria macchina di sogni che è la Studio Ghibli, è la sua incredibile capacità di rendere poetica ogni singola inquadratura, la maestria nel riuscire ad incantare allo stesso modo spettatori adulti e bambini. I temi cari a Miyazaki ci sono tutti, la critica del consumismo visto attraverso il magico riutilizzo che la famiglia di Arrietty fa di oggetti ritenuti inutili dagli umani, l’accettazione del diverso come possibilità di arricchimento reciproco: l’amicizia tra la piccola Arrietty e il ragazzino umano Shō è l’ennesima lezione di alta scuola che Miyazaki ci regala riuscendo ad annullare, come solo i grandi artisti sanno fare, le distanze che esistono tra la cultura giapponese e quella occidentale facendoci sentire tutti parte di una sola famiglia.
I disegni sono di una bellezza da lasciare senza parole, l’arredamento della stanza di Arrietty è una delle scenografie più belle che ho visto in un film d’animazione così come le musiche composte dalla musicista bretone Cécile Corbel mi hanno fatto scoprire un’altra grandissima artista (così come successe per le musiche di Tokiko Kato in Porco rosso).
Vorrei che Miyazaki non smettesse mai di scrivere e disegnare storie, vorrei potere invecchiare riuscendo ad emozionarmi ancora con i suoi film e farli scoprire un giorno ai miei figli e ai miei nipoti,vorrei che Miyazaki riuscisse a trasmettere la sua arte al maggior numero di persone possibili (così come sembra stia facendo con Yonebayashi). Vorrei che possa sempre esistere qualcuno che ci ricordi, con il linguaggio del cinema e quello dei sogni, che l’equilibrio del mondo dipende soltanto dalla nostra voglia di rendere straordinario ogni singolo gesto della nostra quotidianità e di essere rispettosi di tutte le vite che ci vivono accanto.
Sergio

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martedì 3 aprile 2012

Offside - Jafar Panahi








Fa rabbia e amarezza sapere che un regista come Jafar Panahi non potrà più regalarci(almeno per i prossimi 20 anni) gioielli preziosi e inimitabili come il suo Offside; lo sguardo, l'attenzione e il rispetto con i quali raffigura le figure femminili, in un paese che rigetta e oltraggia con ogni mezzo a disposizione il cosiddetto "gentil sesso", sono modelli da emulare e conservare gelosamente. La pellicola di Panahi non ha niente a che vedere con il "sesso debole" che l'Iran vorrebbe plasmare e inibire quotidianamente, ma dipinge con cura donne risolute e tenaci; in primo luogo essere umani, e non oggetti vuoti e incosistenti riposti nelle mani di mezzi uomini e signori del potere. Panahi riempie meticolosamente l'animo femminile di mille sfaccettature e ridona alle donne la dignità e il rispetto perduto.
In Offside le donne diventano agguerrite e appassionate tifose di calcio, pronte a difendere con forza e perseveranza il loro diritto all'uguaglianza, così come il diritto di guardare una semplice partita di pallone, di urlare, di tifare e di sedere accanto a quegli uomini venerati e adulati da una società misogena e maschilista. Donne che sembrano uomini e uomini che sembrano donne; sta lì la filosofia di Panahi, nel rovesciare perfettamente i ruoli imposti dai piani alti e nel deridere quei progetti di sottomissione. La celebrazione dell'uguaglianza, quì senza retorica e furberie varie, è presentata attraverso un sorriso che nasconde(poco, a dire la verità) il dito puntato alle autorità governative e religiose, nonchè ai caproni che seguono letteralmente i dogmi degli esponenti al potere, colpevoli di uccidere e deridere la dignità femminile.
Un'esplosione di gioia e divertimento che è tutta dedicata alle donne, oltre che ai 7 iraniani morti durante la partita Iran-Giappone del 2005, in cui le donne sono le uniche mattatrici e le principali protagoniste; da quì la sparizione del burqa e strumenti analoghi a favore di donne determinate e indipendenti. Il sottotesto(anche se ben visibile) è semplice e diretto: l'autonomia e la libertà che spetta a ogni uomo non deve essere condizionata dalle differenze sessuali.
Sì, potrà apparire banale, ma dopo anni di lotte e battaglie la situazione è addirittura peggiorata.
E poichè sono una donna, sicuramente più fortunata di chi  invece è costretta a vivere all'ombra di un "padrone" meschino e irrispettoso, l'amore e il rispetto che Panahi dona al'universo femminile non può assolutamente lasciarmi indifferente; il regista iraniano riscopre la solidarietà femminile, spesso dimenticata e calpestata, e ci rende tutte più vicine. Potrà sembrare un moderno femminismo, ma fortunatamente non è così: è una semplice lotta a favore della dignità umana, che poi Panahi si "serva" delle donne per proteggerla e celebrarla è un semplice espediente, seppur calzante e significativo. La sua è una lotta per l'uomo e con l'uomo. Quella che anche lui combatte personalmente giorno dopo giorno contro le autorità islamiche. E allora il regista iraniano ci ricorda che siamo tutti un pò Panahi.

Esistono particolari, dettagli che innascano una provocazione da cui nasce un ragionamento e - per me- un film. (J. Panahi)
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Valeria

sabato 10 marzo 2012

Jean Luc Godard - Une femme est une femme



"E' una tragedia o una commedia?" 
"Con le donne non si sa mai.."

"Non so se questa è una tragedia o una commedia, però è un capolavoro”


Non è passato troppo tempo dalla prima volta che vidi un film di Godard. Non ricordo nemmeno quale fosse, ricordo solo che non ci capii assolutamente niente!

Poi, una persona con una conoscenza cinematografica abbastanza superiore alla mia mi suggerì  di accostarmi ai film di Godard in maniera particolare: non come se stessi guardando un film ma come se dovessi “gustare un buon sigaro”.
Dimenticato il primo film, (che se non sbaglio dovrebbe essere Detective, ma non ci giurerei) decisi di guardare, anzi, di gustare, Fino all’ultimo respiro, seguendo stavolta il consiglio suddetto.
Mi lasciai trasportare, ed ebbi un’esperienza cinematografica assolutamente nuova, che ho riprovato solo con altri film di Godard. 
Il suo linguaggio è assolutamente unico e originale, a volte apparentemente sconnesso, e, se glielo consentiamo, ci trasporta nel suo mondo con una veracità e una capacità d'illusione che solo lui riesce a darci.

Il titolo, ispirato dal gioco di parole in francese “infame – une femme” già parla da sé.
Il film narra le vicende che si svolgono tra Angela, giovane spogliarellista di Parigi con una smodata voglia di avere un bambino, Emile, suo compagno, che al contrario non vuole saperne di affrontare la paternità, e Alfred, amico di Emile ed aspirante amante di Angela.
La storia, apparentemente banale e frivola, diventa pura poesia sotto l'abile mano del cineasta francese, che, attraverso situazioni al limite del surreale, gioca con i protagonisti e con la storia, regalando alla storia del cinema degli attimi indimenticabili.
Già nei primi fotogrammi, così come in tutto il film, Godard sfrutta la devastante sensualità del personaggio della Karina per stregare lo spettatore e porlo in una posizione di non oggettività.
Angela personifica quella leggerezza, delicatezza e femminilità che fanno perdere la testa a qualsiasi uomo, o, perlomeno, a me.
Risulta molto difficile, almeno per un pubblico maschile, rimanere imparziali di fronte a un personaggio dotato di una carica erotica di questo tipo.
Mi piacerebbe sapere come una spettatrice donna, che nel sensuale fascino di Anna Karina vede più qualcosa in cui immedesimarsi piuttosto che qualcosa da cui essere attratti, possa vivere l'intero film.
Personalmente, quest'attrazione ha influenzato la mia visione in maniera irrevocabile, portandomi ad interpretare qualsiasi scena dal punto di vista di uno innamorato di lei. Magari può essere considerato eccessivo, però penso che se dobbiamo lasciarci andare, con Godard dobbiamo farlo seriamente!
Pochi hanno la sua maestria nel riuscire a giocare coi sentimenti dello spettatore, facendo sorridere e lanciando qua e là spunti di riflessione.
Ai titoli di coda di un film di Godard ci si sente pieni e soddisfatti, col cervello che va a mille come sotto effetto di una droga piacevolmente stimolante.
Viva Godard e Viva la Nouvelle Vague!




P.S.  Straordinario l'omaggio al collega Truffaut, dove Jean-Paul Belmondo, al bancone di un bar, si avvicina a una donna e le dice
“Lei? Come va con Jules e Jim?”
“Moderato.” risponde Jeanne Moreau.
MERAVIGLIOSO
Apprezzabile anche l'autocitazione dove Belmondo dice “Stasera in tv danno Fino all'ultimo respiro.” (che bello pensare che un tempo davano film del genere in televisione!)


Robin

giovedì 23 febbraio 2012

La Talpa (Tinker, Tailor, Soldier, Spy) - Tomas Alfredson



Ma sei un buon osservatore, eh? Noi solitari lo siamo sempre.”


All’apparenza “La Talpa” potrebbe sembrare una semplice spy story, scritta, diretta e interpretata magistralmente, ma la grandezza di questa pellicola risiede proprio nel non detto; al di là della rappresentazione pulita, ordinata e lineare,  questo film è una pentola in continua ebollizione e racconta attraverso sguardi, silenzi e taciti gesti il vissuto interiore dei protagonisti.


In piena guerra fredda l’ex agente in pensione George Smiley(uno straordinario Gary Oldman) viene incaricato di stanare una spia sovietica infiltratasi a capo dei servizi segreti britannici, potente organizzazione di cui lo stesso Smiley faceva parte prima di essere sollevato dall’incarico; ha inizio così una lunga e sconvolgente indagine capace di scardinare qualunque equilibrio. In questa continua ed estenuante corsa per la salvaguardia individuale, sono soprattutto gli equilibri interni ad essere minati e scossi e ad Alfredson poco importa degli avvenimenti storici e politici di quegli anni, perché la sua attenzione si focalizza sulla complessità dei rapporti umani. Ciò che interessa al regista svedese è l’uomo e non l’agente, le contraddizioni e gli sbandamenti di un individuo al quale viene sempre richiesto di non fallire, di rimanere attento e vigile e di subordinare le emozioni e i sentimenti al dovere. E in questo senso il trio Oldman-Strong-Firth è estremamente emblematico: il dualismo interiore logora giorno dopo giorno e corrode chi ne è colpito.
Quella che abbiamo davanti agli occhi è innanzitutto una storia di amore e amicizia, di lealtà e tradimento, che non fa né vincitori né vinti; la spy story mostra quindi le dinamiche di rapporti umani corrosi e indeboliti dal potere e dai potenti, in cui l’elemento umano cede il passo all’utile personale.
Bisogna essere dei silenziosi osservatori, come l’ex agente Jim Prideaux, per comprendere che la profondità di questo film sta oltre le parole e le indagini e si annida nei silenzi, negli sguardi e nel non detto. Non a caso Alfredson veste i panni dello scrutatore silenzioso senza mai essere patetico e sentimentale e ci trascina in un vortice di autodistruzione che lascia senza fiato. La ferocia con cui ogni rapporto umano viene demolito e smantellato lede interiormente e con lentezza chi ne osserva le dinamiche, portando ogni uomo a fare i conti con i propri scheletri e i propri mostri più nascosti. Ciò che ne deriva è un senso di sradicamento e fragilità lancinante che ci obbliga a far i conti con noi stessi.
Alfredson, una bellissima sorpresa all’interno del panorama cinematografico contemporaneo, dimostra di avere una spiccata capacità nel raccontare la fragilità e l’instabilità dei rapporti umani, mostrando l’individuo nella sua nudità.
Quelle complessità e quelle contraddizioni interne che le parole non possono spiegare, il regista svedese le espone sullo schermo sottoforma di altro. E scusate se è poco.


C’è da dire che tutto questo non sarebbe stato possibile senza un cast di altissimo livello. Spicca su tutti la figura di Gary Oldman, il quale dimostra(per l’ennesima volta) si essere un attore straordinario e di possedere un’abilità e una sensibilità uniche. Lo so, lo so…quando si parla di Oldman sono sempre poco obiettiva, ma sfido chiunque a dire il contrario.
Insomma, l’attore britannico continua a non perdere colpi(almeno lui!) e invecchia proprio bene.   

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Valeria

venerdì 17 febbraio 2012

Hugo Cabret - Martin Scorsese



Probabilmente se questo film fosse stato girato da un altro regista lo avrei apprezzato di più, ma da Scorsese, che seguo e amo da sempre, non posso accettare un lavoro che non osa e che non sa che strada prendere. Va benissimo l’omaggio alla nascita del cinema e alla figura di Méliès, ma quando questo elogio si limita alla scopiazzatura delle pellicole dell’illusionista francese senza l’inserimento di un minimo di inventiva e senza mettere sé stessi nel proprio lavoro, possiamo davvero parlare di omaggio?
Non si riesce mai a capire quanto questo dono a Méliès e al suo cinema sia realmente sentito o sia buttato lì per far contenti gli addetti ai lavori e gli spettatori più pigri, quelli che si accontentano e si esaltano vedendo citazioni fini e sé stesse copiate minuziosamente dall’originale.
A questo Scorsese manca la vena emotiva, non riesce (o non vuole?) sporcarsi le mani come invece ha sempre fatto nei suoi precedenti lavori, con l'eccezione di Shutter Island; sembra nascosto dietro le pellicole di Méliès e pare si diletti(?) a ricreare quel mondo credendo di omaggiare il grande maestro. Mi dispiace dirlo, ma in questa pseudo riscrittura non riesce mai a far capire quali siano le sue vere intenzioni. E’ come se la dichiarazione d’amore al regista francese restasse a metà, sospesa tra il detto e il non detto.
E poi c’è un altro fattore fondamentale: l’accostamento di Scorsese a un cinema fatto di magia e illusioni, pregno di sogni e allucinazioni, capace di portarti in un mondo in cui la luna ha un razzo infilato in un occhio e gli scheletri si dissolvono tra il fumo e la nebbia; quanto questo avvicinamento è sentito? Quanto studiato e programmato? E quanto sincero?
Per un regista che ha sempre raccontato la strada, la criminalità, il degrado quotidiano, le psicosi e le nevrosi dell’uomo contemporaneo com’è possibile accostarsi alla soglia dei 70 anni ad un genere il più delle volte snobbato e considerato poco?!? Come può Scorsese dirci che il cinema è magia, illusione, è un sogno ad occhi aperti?!?
E’ anche vero che questo è un semplice omaggio a uno dei padri della settima arte e i discorsi di stile lasciano il tempo che trovano, ma il film dà sempre l’impressione di rimanere a metà strada, di voler dire di più ma di avere paura di farlo, di volere fare un tributo a Méliès ma di non sapere mai che strada prendere. Ed è così che iniziano le citazione, le scopiazzature e le ricostruzioni.
Scorsese vuole dirci che dopo un secolo la forza del cinema non è cambiata? Che ora come allora quest’arte continua a farci sognare e a illuderci? Che in fondo Mèliès è più attuale di quanto non si pensi? Altri si sono espressi meglio e continuano a raccontare quel mondo in maniera originale e personale non dimenticando mai il loro maestro; forse è meglio che il regista americano continui a parlarci della strada e del degrado cittadino e lasciasse i sogni e le illusioni ad altri. In fondo il buon vecchio Martin è stato sempre un lumèriano convinto e questa sferzata senile, che è comunque degna di rispetto, non sembra intaccare, fortunatamente, il suo passato e la sua meravigliosa filmografia.
Non è un caso le scena più bella e più commuovente del film sia l’ultima, quella in cui si susseguono frammenti di pellicole mélièsiane. Lì non c’è nulla di Scorsese, è puro Méliès.


E’ però giusto ricordare che il soggetto non è assolutamente originale, ma è tratto dal romanzo illustrato “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” del autore americano Selzinick (che non ho né letto né visto).


Gustatevi il vero Méliès(è difficilissimo scegliere):
Il viaggio nella luna
la sirena

Valeria