Un incubo a occhi aperti dal quale non ci siamo svegliati e dal quale probabilmente non ci sveglieremo mai. Il film di Vicari è una lama in pieno petto, un lancinante pugno allo stomaco che spiazza perché non dà nessuna verità assoluta ma martella il nostro cervello di domande: qual è il ruolo della polizia in uno Stato democratico? Come deve essere garantito l’ordine pubblico? Perché nessuno dopo 11 anni ha ancora pagato? Perché nessuno ha chiesto scusa? E perché in Italia non esiste il reato di tortura? Potrei andare avanti all’infinito.
Quel vortice di violenza che la notte del 21 luglio 2001 si è abbattuto sulla Diaz è una ferita ancora aperta e Vicari questo lo sa bene; per tale motivo ha avuto l’esigenza di raccontare e documentare, non denunciare. Dare una testimonianza audio-visiva della “macelleria messicana”, così definita dal vicequestore Michelangelo Fournier, che ha colpito il nostro paese, e non solo, lasciando a chi guarda le conclusioni, anche se si tratta per lo più di dubbi e domande. Diaz è una tappa essenziale nella costruzione di una memoria collettiva, un passo fondamentale e necessario per non dimenticare e chiederci in quale direzione stiamo andando. E così Vicari ci apre la strada dell’orrore.
Il regista italiano procede parallelamente mostrandoci le falle, le debolezze, la disorganizzazione e le paure dei due gruppi contrapposti, Forze dell’ordine e Genoa Social Forum, preparando il terreno per lo scontro finale e accrescendo quel clima di tensione e aggressività che durante il G8 ha colpito l’intera città di Genova. Tutto questo inserito in un vuoto istituzionale (la politica e le istituzioni sono distanti o, addirittura, assenti) che incrementa quel senso di disfacimento e orrore probabilmente ancora presente in questo paese. Anche qui un turbinio di domande tartassa le nostre teste. Vicari non ci lascia mai tranquilli, ma ci pungola costantemente costruendo attorno ai fatti della Diaz personaggi e storie propedeutici allo scontro finale.
Dall’irruzione nella scuola fino alle vergognose torture avvenute nella caserma di Bolzaneto, il film di Vicari è un vortice di irrazionalità senza fine. Lo hanno definito film di guerra o addirittura film dell’orrore, e in effetti Diaz è tutto questo: la guerriglia civile e le sequenze orrorifiche di cui siamo spettatori sono potenti e difficili da dimenticare perché reali. Per questo motivo a Vicari va il merito non solo di averci regalato un documento fondamentale su uno degli avvenimenti più vergognosi e oscuri del nostro paese, ma anche quello di aver creato un’opera cinematografica di grande valore. Autonoma e universale perché intende andare oltre e raccontare qualcosa di più profondo e necessario: fino a che punto può arrivare la violenza umana quando questa è legittimata e autorizzata dalle istituzioni? Il manganello e il casco dati in dotazione all’uomo sotto la divisa che significato hanno? L’ordine pubblico si garantisce solo attraverso le armi?
Per questo il film di Vicari guarda al futuro, documenta e racconta il passato obbligandoci a riflettere contemporaneamente sul nostro presente e sulla nostra vita futura. Quel sangue non va pulito perché ha macchiato, macchia e continuerà a macchiare la nostre vite e il nostro rapporto con le istituzioni, obbligandoci a rimanere svegli e vigili.
Se Vicari ha dato vita a un’opera cinematografica e a un documento di estrema importanza e valore è perché in lui è forte il bisogno di dare ai suoi spettatori un terreno comune sul quale camminare e crescere; un regista non è un giudice o un accusatore e il cinema non è un tribunale, come ha affermato il regista italiano in numerose interviste, ma entrambi devono essere accomunati dall’esigenza di documentare e testimoniare per poi andare oltre. E se guerra e orrore si fondono nel film di Vicari è perché da quella notte il sangue ha iniziato a macchiare questo paese e non si è più fermato, ma soprattutto perché la violenza e la sua irrazionalità sono state, e saranno ancora, una componente imprescindibile della nostra esistenza Il regista italiano ci incita e ci aiuta a guardare all’attualità e al domani senza dimenticare quello che è successo ieri, ed è come se nei titoli di coda fosse scritto: Adesso tocca a voi!
Vi lascio con queste parole.
Il discorso di difesa di Panahi al suo processo:
Durante la mia carriera ho sottolineato che sono un regista socialmente impegnato e non politicamente. Il mio principale interesse sono le questioni sociali; pertanto i miei film sono drammi sociali, non dichiarazioni politiche. Io non ho mai voluto agire come un giudice o un accusatore. Io non sono un regista che giudica ma uno che invita gli altri a vedere. Io non mi metto a decidere per altri o a scrivere alcun tipo di manuale per nessuno; permettetemi di ripetere la mia pretesa di porre il mio cinema aldilà del bene e del male.
Valeria
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