sabato 26 aprile 2014

L'angelo Azzurro - Josef Von Sternberg


Non sono moltissimi i film che possano vantare delle scene entrate nell’immaginario collettivo anche per i non appassionati di cinema. Spesso queste scene sono più legate all’immagine della star ripresa che al valore artistico dell’opera. Quando però i due casi si incontrano ecco che rivedersi, di tanto in tanto, un vecchio film diventa un godimento sia per gli occhi che per il cervello.
L’angelo azzurro, capolavoro tedesco del 1930, è uno di quei film che non mi stanco mai di rivedere. I motivi che di volta in volta mi possono spingere a rimettere la pellicola sono sempre diversi, inutile negare che il fascino di Marlene Dietrich non sia quasi sempre l’impulso principale. Quando con la sua splendida voce inizia a cantare Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt (o Falling in love again nella versione in lingua inglese) tocchi con mano il miracolo con cui il grande cinema riesce a strapparti da qualsiasi pensiero per accompagnarti in una dimensione perfetta. Allo stesso modo la voce di Lola Lola si eleva da quel malfamato locale di una Berlino che sta per piombare nei suoi anni più bui per arrivare a toccare le corde del cuore del professor Rath, serioso insegnante del prestigioso ginnasio cittadino. L’interpretazione che Emil Jannings (in assoluto uno dei più grandi attori della storia del cinema) da di questo personaggio è assolutamente grandiosa. Jannings riesce a mettersi sulle spalle l’intera metamorfosi di un mondo che sta rapidamente disintegrandosi. Il decadimento della vecchia borghesia sta per lasciare spazio alla frenesia folle del nazismo e il professor Rath rovinato dall’amore per l’affascinante Lola Lola riesce a spiegarci come un libro di storia quello che stava per avvenire in Europa in quegli anni.
E’ probabilmente uno degli ultimi grandi momenti del cinema tedesco prima della diaspora iniziata con l’avvento del terzo Reich (ci sarà ancora quel immenso capolavoro di M di Fritz Lang). Una delle cinematografie più importanti e più innovative del mondo stava per scomparire per non mischiarsi a uno dei governi più malati che l’uomo ricordi. Gli artisti che con l’espressionismo ci avevano donato (non solo nel cinema ma anche nel teatro, nella letteratura, nella musica e nella pittura) quasi una riproposizione di quello che fu il Rinascimento in Italia, stavano per preparare le valigie in tutta furia. Così fece sia il regista Von Sternberg che la divina Marlene trasferitasi ad Hollywood per diventare uno dei miti del cinema mondiale. Ma tutto partiva da quella canzone cantata al Der Blaue Angel vero canto d’addio della Repubblica di Weimar e di un intero sistema di valori.

A quella voce e a quel corpo, pochi potevano resistere. Hitler provò disperatamente a convincere la Dietrich a rientrare in patria per diventare la regina del nuovo cinema tedesco (che ovviamente non nacque mai), ma lei si rifiutò sempre energicamente; amava dire a proposito delle insistenze del dittatore tedesco “quel poveretto non si è più ripreso dalla scena della giarrettiera…”. La Dietrich oltre ad essere una star divenne una delle più famose oppositrici del regime nazista e i suoi viaggi, durante il conflitto, all’interno delle prime linee alleate furono leggendarie. Molti reduci raccontarono che grazie alle sue canzoni riuscivano a trovare nuovo entusiasmo e voglia di vivere da spendere nei giorni decisivi della battaglia. Erano altri tempi, più feroci certo ma anche più carichi di sogni rispetto ad oggi e allora il cinema riusciva davvero a entrare nella vita, e a cambiarla.

Sergio



martedì 22 aprile 2014

La parte degli angeli - Ken Loach



Quando vai a vedere un film di Ken Loach sembra quasi di prepararsi per andare a trovare dei vecchi amici. Quelli con cui sei cresciuto, che conoscono tutto di te e non ti fanno stare a disagio anche se comunichi loro le tue debolezze più grandi.
Se il fatto di sapere già prima cosa aspettarti è un limite per molti autori cinematografici, per altri (ben pochi per la verità) diventa un motivo di vanto. La differenza tra l’essere ripetitivo e l’essere coerente con la propria idea di cinema (e di società) è quella che passa tra i grandi autori e i mestieranti dalle emozioni a un tanto al chilo.
Registi come Ken Loach e, per rimanere tra i contemporanei, David Cronenberg e Aki Kaurismaki fanno della fedeltà ai loro valori di vita un punto di partenza imprescindibile per i loro soggetti cinematografici. Guardi le loro opere e ti accorgi che ogni volta aggiungono un capitolo a un libro che messo assieme forma la loro personalissima recherche proustiana.
Con La parte degli angeli Loach ci regala una nuova grande opera ambientata nelle sue adorate periferie urbane (questa volta siamo a Glasgow) e popolata ovviamente da anti eroi, da personaggi che con la vita hanno solo fatto a pugni e con i quali la società non sa bene come comportarsi (bellissima la scena iniziale con la sequenza velocissima di processi al tribunale). Per Robbie, il protagonista del film, però è un periodo speciale, sta per nascere il suo primo figlio e la forza che da solo non riesce a trovare, la scopre in dosi straordinarie in un piccolo essere umano, l’unico che sembra dargli ancora un po’ di fiducia  e regalargli quella seconda possibilità di cui ha bisogno. Ma questa nuova possibilità Robbie deve costruirsela da solo e per farlo ha bisogno di un nuovo colpo. Ma non un colpo pericoloso, una di quelle azioni per cui inizieresti ad odiare il protagonista. Un colpo quasi poetico nel suo essere surreale, riuscire ad estrarre qualche bottiglia di whisky da una botte quotata a prezzi folli per poterle poi rivendere a ricchi collezionisti. La parte degli angeli corrisponde alla percentuale di evaporazione nel processo di maturazione del whisky (circa il 2% del totale), all’incirca quella che Robbie e i suoi amici tenteranno di estrarre dalla botte.

Nelle storie di Loach, anche quelle più drammatiche, non ci si dimentica mai di sorridere. Se sai che la rinascita può avvenire solo da una presa di coscienza seria del reale e che ribellarsi contro una società sbagliata diventa l’unico modo per ritornare ad essere vivo, la solidarietà degli amici la trovi sempre. E l’amicizia per Loach è qualcosa di straordinariamente importante perché anche grazie a loro riesci a trovare il tempo per sorridere alla vita. Dei film di Loach scopro sempre di averne un bisogno quasi fisiologico, anche quando non sono perfetti. Nella vita probabilmente nulla lo è, però le sue storie sono vere, sincere e ti danno quella forza che ti serve ad andare ancora un altro poco avanti, fino al prossimo film, alla prossima uscita con gli amici o al prossimo sorriso del tuo bambino.

Sergio

martedì 1 aprile 2014

La vita di Adele - Abdellatif Kechiche


Dalla visione di un film che ha vinto la palma d’oro a Cannes ci si aspetta sempre tanto. Anche se hai sempre pensato che il regista, il franco tunisino Abdellatif Kechiche, sia sempre stato sopravvalutato rispetto alle sue capacità.
Con La vita di Adele ritengo si arrivi a un punto di non ritorno. Cercare di comprendere il perché quest’opera abbia riscosso un entusiasmo così elevato mi riesce francamente complicato. Il trattare in maniera visivamente forte il tema di un amore omosessuale mi sembra (per fortuna) ormai superato nel nostro presente così come le numerose scene di nudo che tanto scandalo hanno fatto alla presentazione del film e che sono state abilmente pubblicizzate per logiche commerciali.
Per quasi tre ore assistiamo alla formazione sentimentale della protagonista Adele (peraltro una bravissima e ancora poco nota attrice: Adele Exarchopoulos) che insoddisfatta dalle esperienze eterosessuali scopre di essere attratta dalle donne; la sua storia d’amore con Emma diventa il centro del film facendoci assistere alla presa di coscienza, fisica e mentale, di una ragazza alle prese con la conoscenza di sé. Nel film non succede niente di straordinario, nulla che non succeda quotidianamente a ogni essere umano adolescente nella formazione della propria identità e che lo porterà a scelte importanti per la propria crescita. E allora perché quello che succede ad Adele dovrebbe colpirmi in modo così profondo? Non sono capace di provare empatia o esiste qualcos’altro?
Più passa il tempo e più la penso come il maestro Hitchcock quando affermava che il cinema non è una fetta di vita ma una fetta di torta. Con ciò non voglio naturalmente affermare che non possa esistere altro modo di fare cinema ma che trasportare nel linguaggio cinematografico ciò che, per sua natura, è di stretta competenza della letteratura, non è operazione facile per chiunque. Nei corsi di sceneggiatura si impiega molto tempo a spiegare come una trama necessiti di un suo climax narrativo e costruire storie in cui gli eventi non progrediscono ha un coefficiente di difficoltà altissimo. Fare un racconto di formazione per immagini senza chiamarsi Eric Rohmer è un’operazione non alla portata di tutti e le, pur discrete, capacità registiche di Kechiche non sono di certo sufficienti a tale impresa.

Termini il film avendo l’impressione che questa storia non ti abbia dato niente di più rispetto a ciò che non conoscessi già sull'argomento. Basta aver vissuto e avere fatto buone letture per sapere che la vita di Adele non ha nulla di originale e non ti arricchisce da nessun punto di vista. Al cinema serve qualcosa di più per assolvere alla sua funzione culturale.

Sergio