Da vecchio innamorato dei film di Kieslowski, ho sempre dato grande importanza ai piccoli gesti, alle strane coincidenze del fato che a volte sembra quasi ti voglia mettere alla prova facendoti scoprire o riscoprire frammenti del passato che pensavi ormai pieni di polvere. Quando pochi giorni fa ho scritto di Bela Tarr, partivo da una considerazione iniziale che si basava su una sensazione di disarmonia che notavo attorno a me, da lì arrivavo a riflettere su Werckmeister e sui suoi codici armonici, su Bela Tarr e la sua magia visiva. Non mi è sembrato strano, a seguito di ciò, scoprire qualche ora fa, l’uscita in cofanetto di due dvd di Godfrey Reggio: Koyaanisqatsi e Powaqqatsi.
Sono due film che alla fine degli anni Ottanta, contribuirono non poco a farmi capire come da uno spettacolo cinematografico si possa cambiare profondamente il proprio modo di vedere le cose. Queste due parole sono espressione della lingua indiana hopi e significano, la prima, una vita senza equilibrio (ecco che ritorna la disarmonia, la perdita di purezza) e la seconda la vita in trasformazione. Definire queste opere non è un lavoro molto semplice, non sono dei veri e propri film ma non sono neanche dei documentari. Opere visive senza dubbio ma anche straordinari capolavori sonori creati da un grandissimo Philip Glass. Per il regista Reggio e il musicista Glass era centrale l’idea di rappresentare lo stato di squilibrio in cui era arrivato il pianeta nel corso del proprio sviluppo, il decadimento folle e schizofrenico di un progresso senza più logica. Non è un caso che Koyaanisqatsi si apra con le immagini di graffiti primitivi e si chiuda con l’esplosione, qualche minuto dopo la partenza, della navetta spaziale Shuttle nel 1983, simbolo di rincorsa frenetica dell’uomo a spingersi sempre oltre anche quando gli strumenti a tua disposizione sono ancora limitati.
Questo film, al suo apparire fu considerato un meraviglioso affresco ecologista ma in realtà dietro alla, sia pur importante, constatazione di tragica sconfitta dell’uomo nei confronti del suo essere parte integrante e non esclusivo del mondo, ci sta un’ambizione ancora maggiore che è quella di provare a cambiare la percezione sensoriale che si ha dell’ambiente circostante. L’esperienza quasi onirica che si prova assistendo a quest’opera si sviluppa a livello inconscio in maniera così duratura che ancora adesso, a distanza di molto tempo riesco a ricordare le emozioni che provai alla prima visione. In questi ultimi vent’anni il progresso tecnologico è andato sempre più veloce e alcune associazioni visive all’interno della pellicola possono sembrare datate, ma la sublime bellezza di quest’opera rende ininfluenti certi inevitabili anacronismi. Guardando Koyaanisqatsi sembra di provare le emozioni del viaggio psichedelico kubrickiano in 2001, anche lì ci si perde in un turbinio di colori e dimentichiamo immediatamente che il film è del 1968. Perché quando un’opera non si ferma a livello della superficie ma si infila sottopelle non è più importante l’aspetto tecnico ma conta solo quello emozionale.
Koyaanisqatsi è un’esperienza prima di essere un film.
Sono due film che alla fine degli anni Ottanta, contribuirono non poco a farmi capire come da uno spettacolo cinematografico si possa cambiare profondamente il proprio modo di vedere le cose. Queste due parole sono espressione della lingua indiana hopi e significano, la prima, una vita senza equilibrio (ecco che ritorna la disarmonia, la perdita di purezza) e la seconda la vita in trasformazione. Definire queste opere non è un lavoro molto semplice, non sono dei veri e propri film ma non sono neanche dei documentari. Opere visive senza dubbio ma anche straordinari capolavori sonori creati da un grandissimo Philip Glass. Per il regista Reggio e il musicista Glass era centrale l’idea di rappresentare lo stato di squilibrio in cui era arrivato il pianeta nel corso del proprio sviluppo, il decadimento folle e schizofrenico di un progresso senza più logica. Non è un caso che Koyaanisqatsi si apra con le immagini di graffiti primitivi e si chiuda con l’esplosione, qualche minuto dopo la partenza, della navetta spaziale Shuttle nel 1983, simbolo di rincorsa frenetica dell’uomo a spingersi sempre oltre anche quando gli strumenti a tua disposizione sono ancora limitati.
Questo film, al suo apparire fu considerato un meraviglioso affresco ecologista ma in realtà dietro alla, sia pur importante, constatazione di tragica sconfitta dell’uomo nei confronti del suo essere parte integrante e non esclusivo del mondo, ci sta un’ambizione ancora maggiore che è quella di provare a cambiare la percezione sensoriale che si ha dell’ambiente circostante. L’esperienza quasi onirica che si prova assistendo a quest’opera si sviluppa a livello inconscio in maniera così duratura che ancora adesso, a distanza di molto tempo riesco a ricordare le emozioni che provai alla prima visione. In questi ultimi vent’anni il progresso tecnologico è andato sempre più veloce e alcune associazioni visive all’interno della pellicola possono sembrare datate, ma la sublime bellezza di quest’opera rende ininfluenti certi inevitabili anacronismi. Guardando Koyaanisqatsi sembra di provare le emozioni del viaggio psichedelico kubrickiano in 2001, anche lì ci si perde in un turbinio di colori e dimentichiamo immediatamente che il film è del 1968. Perché quando un’opera non si ferma a livello della superficie ma si infila sottopelle non è più importante l’aspetto tecnico ma conta solo quello emozionale.
Koyaanisqatsi è un’esperienza prima di essere un film.
Sergio
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