venerdì 3 giugno 2011

Pippo Delbono - "La Menzogna"


Si è aperta il 21 Ottobre negli spazi delle ex fonderie Limone di Moncalieri la nuova stagione del Teatro Stabile di Torino, con uno spettacolo che proprio da un evento legato ad una fabbrica muove i suoi primi passi: l'incendio divampato quasi un anno fa alla Thyssen Krupp, che fu causa della morte di sette operai.
Pippo Delbono ci presenta la fabbrica come un luogo in cui non ci si incontra più: vi sfilano in silenzio gli operai percorrendone gli ambienti spogli e squallidi. Indossano le loro tute con la lentezza di un rito che separa nettamente il tempo del lavoro da quello della vita. Nei gesti di Pepe Robledo, che ripone la sua tuta per vestire con cura un abito pregiato solo in occasione della propria morte, c'è forse tutta la follia umana, la follia dei nostri tempi, del lavorare per potersi permettere di morire. Da qui parte Delbono per guidarci nella ricerca di un senso del dolore e del vivere.

Cos'è che proviamo davanti allo spettacolo delle morti sconosciute? Quale la differenza tra le morti su cui i media puntano i riflettori e quelle tante invece in ombra, di cui non sappiamo nulla? La nostra incapacità di provare dolore ci mette a disagio e la pena che invece ostentiamo racchiude forse la nostra paura dell'ignoto, di ciò che non possiamo controllare, capire. "La separazione è tutto ciò che ci basta sapere dell'inferno" citava già Delbono in un altro suo spettacolo, Questo buio feroce. Con la stessa forza ora il regista scende di nuovo nelle viscere dell'umanità per mostrarne con lucido sguardo il suo volto spietato, ferino, grottesco. In quello che sembra un carosello degli orrori si muovono tutti i personaggi della nostra società a cui Delbono toglie ogni patina di menzogna, mostrandoceli in tutta la loro reale mostruosità. Latrano, ringhiano e abbaiano come cani famelici, sono pedine di una partita già persa, personaggi di un mondo senza speranza, malato alle radici. Anche la bellezza, quando c'è, quando compare all'improvviso come un'epifania, nella danza di Gianluca vestito di perle, è spesso fraintesa, svilita, guardata con cinismo, con ghigno stupido e trasformata in crudele siparietto da varietà.

E' l'altro lato della medaglia e fa paura, anche nella finzione del teatro. Fa scorrere un brivido lungo le schiene degli spettatori la risata atroce di Delbono dietro la grata metallica, così come la violenza che si prepara e il senso di solitudine e di smarrimento che la segue.

Una netta frattura c'è anche tra la realtà e la sua immagine, soprattutto quella confezionata dai media: agghiacciante e stridente il contrasto tra lo spot della Thyssen, girato con quella strategia del sorriso di cui tanta politica è intrisa, e la testimonianza video di padre Alex Zanotelli sulla camorra. La camorra è diventata nel gergo nalpoletano "'o sistema", a testimonianza di quanto il crimine si sia innalzato a regola, sia diventato appunto un sistema che, in quanto tale, è pervasivo, capillare, dai vertici al basso tutto ne è contaminato.

Intanto cresce, si gonfia enormemente una violenza sotterranea e repressa, che ha perso di vista la sua vera origine e che ci fa incendiare alla prima, sia pur piccola, miccia. Quella miccia che all'inizio dello spettacolo era quella dell'incendio in una fabbrica, si è rivelata solo la punta di un iceberg immenso, di cui si sconoscono i confini e in cui ci si sente persi.

La menzogna della Thyssen, quella della società intera e, infine, quella più pesante e più grave di tutte: quella che ci portiamo da sempre dentro.
Per fortuna alla fine arriva Bobò, col peso di cinquant'anni vissuti in manicomio portati con la disinvoltura, ma anche la lucidità, di chi adesso è libero. Con i suoi gesti, i suoi sguardi, la sua presenza magica, sembra raccontarci di un mondo altro da questo, più pulito, sincero, non per questo meno reale o esente dal dolore. Delbono si lascia prendere per mano da Bobò per compiere i primi passi che possono rendere forse questo cambiamento possibile, spogliandosi dell'intima menzogna e manifestando la sua vitale volontà di andare oltre.

Un lunghissimo e partecipato applauso ha accolto la prima assoluta di questo nuovo spettacolo, che da Torino si sposterà poi a Roma, Lisbona, Bucarest, confermando la grandezza di Pippo Delbono, che continua a fare del teatro un mezzo per affermare con forza la sua necessità di agire nella vita. E' un teatro che si riallaccia fortemente all'essenza e agli obiettivi del living theatre e a Brecht, che vuole trovare un'alternativa di linguaggio, nell'intento di riallacciarsi a una realtà da cui tanto teatro si è invece allontanato, chiudendosi in salotti borghesi riservati a pochi addetti ai lavori. Si potrebbe obiettare dicendo che anche quello di Delbono è un teatro difficile, anch'esso lontano da quella dimensione popolare che si prefiggeva Brecht, per la sua struttura poco narrativa dietro la quale sembrano nascondersi tanti simboli da decodificare, tante citazioni da rintracciare. Ma, al di là di questo, c'è prorompente la forza di uno spettacolo vivo, che punta con mezzi nuovi a coinvolgere lo spettatore emotivamente, toccando delle corde molto più profonde di quelle rintracciabili da un'attenta analisi della forma e dei contenuti. Le immagini, così come i gesti, le parole, i tempi scanditi con quella precisione che ne fa dei segni importanti, si imprimono con forza tale da non richiedere nemmeno un immediato sforzo di comprensione, di decodifica del significato. Come la pittura di Bacon, l'arte grandissima di Delbono colpisce direttamente allo stomaco, si fa sberleffo di tanta arte che dorme cullata dalla sua stessa autoreferenzialità e spezza quella linea di frattura che c'è tra attori e pubblico e graffia e punge e fa piangere, ridere, urlare, e toglie il fiato ancora prima di riuscire a spiegarsi il perché.
Gabry (23/10/2009)

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