Sono perfettamente cosciente di intraprendere un percorso irto di ostacoli perché parlare di Godard e del suo personalissimo cinema non è cosa facile, soprattutto quando, come nel mio caso, si ama incondizionatamente questo straordinario maestro.
Nel suo quarto lungometraggio, che narra la storia di Nanà, giovane commessa di un negozio di dischi divenuta per una seria di vicissitudini e scelte una professionista del marciapiede, Godard abbandona le regole della narrazione convenzionale, segmentando la storia in 12 quadri, ognuno dei quali caratterizzato da un registro specifico (da quello filosofico a quello letterario, da quello giornalistico e sociologico a quello delle arti figurative), tutti funzionali alle riflessioni a cui ci obbliga il maestro francese. Inoltre, in perfetto stile Nouvelle Vague ed in linea con la sua idea di cinema, opta per una serie di scelte tecniche che hanno come scopo quello di provocare straniamento nello spettatore, e spingerlo così ad una acuta e attenta riflessione sui temi trattati e le immagini mostrate, e di distanziarsi quanto più possibile dal modello di cinema americano che stava espandendosi a macchia d’olio.
“c’è una sorta di ascesi che ti impedisce di parlare bene finché non si guarda la vita con distacco”
E’ questa la lezione di Godard. E’ necessario guardare con distacco ciò che ci circonda, solo così saremo in grado di riflettere, di analizzare la realtà circostante e trarre le nostre conclusioni; perché, che ci piaccia o no, il cinema di Godard non è per menti pigre, non è semplice intrattenimento, piacevole svago, è vita in tutte le sue sfaccettature.
Ci invita (o meglio ci obbliga, attraverso le sue scelte tecnico-narrative) a guardare la vita con la giusta dose di coinvolgimento e distacco, così da renderci sempre più lucidi ed attivi.
“La mia originalità, e il mio fardello, sta nel credere che il cinema sia fatto più per pensare che per raccontare storie.”
Ogni immagine, costruita per essere quanto più vicina alla vita reale, diventa portatrice di un’ideologia. La profondità semantica di ogni fotogramma colpisce direttamente lo spettatore, senza bisogno di nessuna mediazione.
In particolare, in Vivre sa vie (Questa è la mia vita) Godard ammette che ognuno di noi è libero di vivere la propria vita, a patto che sia consapevole delle responsabilità che questo vivere comporta.
"Credo invece che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E siamo liberi. Alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Fumo una sigaretta, sono responsabile."
Un elogio al libero arbitrio, insomma, senza nessun insegnamento morale.
Scegliere è Vivere e Vivere è Scegliere. Le conseguenze, poi, sono inevitabili.
“Voler evadere è un'illusione. In fondo le cose sono come sono e nient'altro. Un volto è un volto. Dei piatti sono dei piatti. Gli uomini sono gli uomini. E la vita è la vita.”
Valeria
Sono proprio contento che anche Godard sia entrato a fare parte dei nostri autori trattati... quante ore a lottare con amici cinefili sul valore delle sue opere, i godardiani e gli anti godardiani, chi ama il primo godard e non capisce quello successivo... è forse il regista che lascia più spazio a discussioni. Ma con me (come potrai immaginare) vai sul sicuro, e poi vivre sa vie, assieme a fino all'ultimo respiro e band à part sono tra i miei titoli preferiti. Sono sicuro ci sarà modo di riparlarne, nel frattempo (manco a farlo apposta) sono rientrato da poco dalla feltrinelli dove ho acquistato il cofanetto delle sue histoires du cinéma...
RispondiEliminaA presto!