domenica 8 dicembre 2013

Viaggio in Italia - Roberto Rossellini



Quando nel 1953 il film di Roberto Rossellini Viaggio in Italia fece la sua apparizione, i giudizi furono quasi tutti negativi. Gli unici ad avere compreso che dietro quella pellicola il cinema stava compiendo un passo enorme verso le sue potenzialità massime, furono i ragazzi terribili che lavoravano alla redazione dei Cahiers du cinéma. Giovani critici che ancora non avevano realizzato film ma dopo qualche anno avrebbero dato vita ad una nuova rinascita dell’arte cinematografica. I suoi nomi sarebbero poi diventati familiari per ogni appassionato di cinema: François Truffaut, Jean Luc Godard, Jacques Rivette. Quest’ultimo ebbe a scrivere “Con l’apparizione di Viaggio in Italia tutti i film sono improvvisamente invecchiati di dieci anni”.
Nel 1953 la breve e intensissima stagione neorealista era ormai conclusa e Rossellini, assieme agli altri autori che resero grande il cinema italiano, continuava il suo percorso artistico da una posizione assolutamente personale che avrebbe definitivamente distanziato il suo cinema da quello di Visconti o De Sica. Già con Stromboli, nel 1949, Rossellini era riuscito a dare alla Bergman un ruolo magnifico esaltando quel dissidio esistente tra la sua figura di donna straniera, algida e moderna, e l’interno di un panorama culturale chiuso e soffocato come era l’isola eoliana. Il magnifico finale del film quando la Bergman si lasciava rotolare lungo il declivio del vulcano implorando un’unione mistica con l’assoluto è una delle immagini più forti che il cinema rosselliniano ci abbia regalato. Viaggio in Italia porta alla perfezione assoluta il discorso iniziato con Stromboli. Una coppia di inglesi, benestanti e non più giovanissimi, si recano a Napoli per risolvere una questione amministrativa. Il loro viaggio segnerà però la messa a nudo del loro rapporto privato. Fuori dalle certezze date dal loro ambiente di provenienza dove il lavoro e lo status sociale servono da corazza all’analisi della propria intimità, l’arrivo in una Napoli distante e incomprensibile, segna l’inizio di un percorso interiore che li porterà alla separazione e poi, forse, ad un nuovo riavvicinamento. La Napoli di Rossellini, come Stromboli di qualche anno prima, rappresenta il legame dell’uomo con la terra, con tutto ciò che essa possiede di ancestrale e che ci lega al nostro io più profondo e misterioso. Per condurci all’interno di questo mondo, Rossellini ci guida attraverso i luoghi maggiormente carichi di tradizione del mondo napoletano, dal cimitero delle Fontanelle all’antro della Sibilla Cumana, dalle rovine di Pompei alle solfatare di Pozzuoli. Attraverso ognuna di queste tappe il personaggio femminile, interpretato ancora una volta da un Ingrid Bergman inarrivabile per bellezza e bravura, avverte sempre più l’angoscia data dall’avvicinamento a quel mondo atavico mai conosciuto prima. Un grado nuovo di conoscenza, quasi una scoperta antropologica quella nella quale Rossellini ci immerge. Alla fine di questo viaggio, e proprio nel mezzo di una processione popolare, i protagonisti non saranno più gli stessi di prima.
Il cinema come viaggio dentro l’anima dell’uomo per scoprire quanto forte e devastante sia stato per l’essere umano il distacco dalla terra, sia pure misteriosa e inconoscibile, per affidarsi alla sola fredda ragione. Rossellini ci da i brividi che solo la grande arte riesce a comunicarci quando ci mette di fronte all’infinito. Pensare che dopo qualche tempo dalla realizzazione di questo film lo stesso autore partì per un lungo viaggio verso l’India per un viaggio alle origini dell’uomo, ci fa comprendere ancora di più quanto sincero fosse il percorso dell’autore italiano che ritornò da quel viaggio trasformato sia dal punto di vista privato che artistico.

Il giorno che film come questi saranno proiettati regolarmente nelle scuole, o alla televisione, potremmo avere qualche speranza che il cinema italiano possa ritornare ad essere grande e a regalarci nuovi brividi (e non solo quelli d’orrore che troppo spesso ci dona nel presente).

Sergio





venerdì 6 dicembre 2013

Il caso Kerenes - Calin Peter Netzer



Non si contano più le lezioni di cinema che arrivano negli ultimi anni dalla Romania. Possiamo affermare che, dopo la grande novità del cinema iraniano e di quello coreano negli ultimi decenni del secolo scorso, sia ormai la Romania il paese che è riuscito a tradurre il reale contemporaneo in opere cinematografiche di grandissimo spessore come probabilmente nessuna altra scuola mondiale attualmente realizza.
 Un altro grande film, orso d’oro a Berlino 2013, quello di Calin Peter Netzer “Il caso Kerenes”. Riuscire a coniugare in un’opera cinematografica il piano privato a quello pubblico non è mai impresa facile. Riuscire a farlo parlando di un paese pieno di contraddizioni e di ancora fresca nascita “democratica” come la Romania è, probabilmente, ancora più complicato.
Calin Netzer racconta una storia semplice pur se calata in una dimensione dolorosa. Una famiglia dell’alta borghesia romena, vive la quotidianità in maniera non molto dissimile da quell’occidente europeo per anni desiderato. Tra infedeltà coniugali più o meno velate, intrallazzi politico economici che sono vissuti come la norma e feste dove trionfa il kitsch, si fatica a credere che la Romania (o almeno una sua parte) sia riuscita ad integrare in così pochi anni, il peggio della sotto cultura che noi italiani siamo riusciti ad esportare. Probabilmente non è neanche un caso che la musica che i personaggi del film ascoltano è sempre italiana a riprova di una colonizzazione dell’immaginario che ha dato i suoi tristi risultati. In mezzo a questa amena quotidianità deflagra un giorno la tragedia; un ragazzino di quattordici anni viene investito ed ucciso dal figlio di una delle protagoniste del film. Inizia allora lo squallore dei tentativi della famiglia per evitare la condanna del figlio, testimonianze finte, tentativi di corruzione verso i poliziotti che si occupano del caso e discesa in campo di tutte le possibili amicizie influenti. In un trionfo di cinismo non rimane più un briciolo di umanità in personaggi che si muovono come robot. Ma il dolore è un sentimento troppo forte per essere nascosto a lungo. La tragedia del povero ragazzo entra gradualmente nelle vite di plastica dei protagonisti fino a costringerli a fare i conti con dei sentimenti nuovi. Il dovere delle scuse alla famiglia vittima della tragedia, da fastidioso impegno necessario a preservare da pericolose denunce, diventa il confronto tra due culture del paese, quella rimasta ancorata a valori semplici ma inattaccabili come la dignità e l’onestà e quella che invece ha perso la propria anima nella rincorsa a quei valori posticci riflessi da un occidente malato attraverso (probabilmente) gli schermi televisivi.

Netzer riesce a fare grande cinema senza usare grandi mezzi produttivi. Un cinema fatto di idee, di poesia, di sensibilità. Pieno di tutti quegli ingredienti di cui il cinema italiano era ricco fino a qualche decennio fa. Il cinema rumeno ci da una lezione morale, quasi rosselliniana nella sua intransigenza. A noi non resta che guardarlo con ammirazione e sperare che possa portare i suoi frutti anche in una cinematografia nostrana insopportabilmente piena di grandi tecnici e pochissimi narratori.

Sergio

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