lunedì 22 settembre 2014

The wolf of Wall Street - Martin Scorsese



Anche se Martin Scorsese non girasse più film avrebbe già guadagnato il suo posto di rilievo all’interno della storia del cinema. Pochi come lui hanno saputo raccontare la vita della metropoli americana moderna. Ci sono registi che vengono subito in mente se si pensa a un particolare stato d’animo. Pensiamo a Bergman quando riflettiamo sui tormenti dell’anima o ci viene in mente Fellini tutte le volte che parliamo dei sogni. Ci sono poi altri registi legati indissolubilmente a una città, la Parigi di Truffaut o la New York di Woody Allen ma anche quella di Scorsese. Non una New York da piani alti ma quella di strada, abitata non da alienazioni e nevrosi come nel cinema alleniano ma da sofferenze e disagi molto più fisici. Da questa New York da marciapiede nascono grandi capolavori come Mean Streets, Taxi driver o Toro scatenato. Scorsese fino alla metà degli anni Novanta ci ha regalato grandissime opere cinematografiche ma, così come è successo per l’altro grande regista newyorchese, ad un certo punto sembra avere smarrito la lucidità dei momenti migliori iniziando un processo involutivo che solo a sprazzi ci ha permesso di godere della sua bravura. Così ogni volta che guardo un nuovo Scorsese mi concentro con la speranza che il vecchio zio Marty riesca ancora a colpirmi duro con la sua arte.
Avevo grandi aspettative con The wolf of wall street, molta critica entusiasta, un Leonardo Di Caprio a detta di tutti in stato di grazia ma, ancora una volta (purtroppo), termino la visione con un bel po’ di amaro in bocca. Scorsese continua a girare in maniera impeccabile, il ritmo delle sue sceneggiature è di altissima scuola ma manca qualcosa di importante, probabilmente la più importante nel mio giudizio di un’opera, il suo essere necessaria. Molti hanno amato questa pellicola e in effetti il racconto che Scorsese fa della capitale mondiale della finanza con i suoi operatori senza scrupoli, è di pregevolissima fattura. Scorsese gira con un cinismo estremo, i personaggi sono tutti senza speranza di redenzione ma quando crei un’opera non provando empatia per nessuno dei tuoi personaggi giungi inevitabilmente a un livello di distacco troppo estremo per farla diventare sincera (e quindi necessaria). Flaubert diceva che madame Bovary era lui e probabilmente dietro lo sguardo allucinato di Travis Bickle in Taxi Driver c’era tanto del suo autore. Ma dietro la maschera feroce di Jordan Belfort, interpretato a onor del vero da un Di Caprio strepitoso, nessun raffronto è possibile. Non che per fare un film sul nazismo bisogna sentirsi un po’ Hitler ma se in  una narrazione cinematografica è totalmente assente la parte empatica arriva facilmente il sospetto che l’opera sia stata scritta a tavolino con esigenze più di nature commerciali che non poetiche.

Un abisso tecnico distanzia lo Scorsese di The wolf of Wall Street da quello ancora acerbo stilisticamente di Mean Streets ma quanta voglia in più in quel film. Voglia di raccontare il tuo ambiente, le tue radici, la tua educazione. Questo manca nell’ultimo Scorsese, voglia di raccontarci il suo mondo, con le sue contraddizioni e le sue paure. Senza paura di raccontare storie in qualche modo simili, perché i grandissimi registi non possono temere di parlare di loro stessi, dietro la loro vita e la capacità che hanno di filtrarla attraverso l’arte nascono i capolavori.

Sergio

Trailer:


Nessun commento:

Posta un commento