Anche se Martin Scorsese non girasse più film avrebbe già
guadagnato il suo posto di rilievo all’interno della storia del cinema. Pochi
come lui hanno saputo raccontare la vita della metropoli americana moderna. Ci
sono registi che vengono subito in mente se si pensa a un particolare stato d’animo.
Pensiamo a Bergman quando riflettiamo sui tormenti dell’anima o ci viene in
mente Fellini tutte le volte che parliamo dei sogni. Ci sono poi altri registi
legati indissolubilmente a una città, la Parigi di Truffaut o la New York di
Woody Allen ma anche quella di Scorsese. Non una New York da piani alti ma
quella di strada, abitata non da alienazioni e nevrosi come nel cinema alleniano
ma da sofferenze e disagi molto più fisici. Da questa New York da marciapiede
nascono grandi capolavori come Mean
Streets, Taxi driver o Toro scatenato. Scorsese fino alla metà
degli anni Novanta ci ha regalato grandissime opere cinematografiche ma, così
come è successo per l’altro grande regista newyorchese, ad un certo punto
sembra avere smarrito la lucidità dei momenti migliori iniziando un processo
involutivo che solo a sprazzi ci ha permesso di godere della sua bravura. Così
ogni volta che guardo un nuovo Scorsese mi concentro con la speranza che il
vecchio zio Marty riesca ancora a colpirmi duro con la sua arte.
Avevo grandi aspettative con The wolf of wall street, molta critica entusiasta, un Leonardo Di
Caprio a detta di tutti in stato di grazia ma, ancora una volta (purtroppo),
termino la visione con un bel po’ di amaro in bocca. Scorsese continua a girare
in maniera impeccabile, il ritmo delle sue sceneggiature è di altissima scuola
ma manca qualcosa di importante, probabilmente la più importante nel mio
giudizio di un’opera, il suo essere necessaria.
Molti hanno amato questa pellicola e in effetti il racconto che Scorsese fa
della capitale mondiale della finanza con i suoi operatori senza scrupoli, è di
pregevolissima fattura. Scorsese gira con un cinismo estremo, i personaggi sono
tutti senza speranza di redenzione ma quando crei un’opera non provando empatia
per nessuno dei tuoi personaggi giungi inevitabilmente a un livello di distacco
troppo estremo per farla diventare sincera (e quindi necessaria). Flaubert
diceva che madame Bovary era lui e probabilmente dietro lo sguardo allucinato
di Travis Bickle in Taxi Driver c’era
tanto del suo autore. Ma dietro la maschera feroce di Jordan Belfort,
interpretato a onor del vero da un Di Caprio strepitoso, nessun raffronto è
possibile. Non che per fare un film sul nazismo bisogna sentirsi un po’ Hitler
ma se in una narrazione cinematografica
è totalmente assente la parte empatica arriva facilmente il sospetto che l’opera
sia stata scritta a tavolino con esigenze più di nature commerciali che non
poetiche.
Un abisso tecnico distanzia lo Scorsese di The wolf of Wall Street da quello ancora
acerbo stilisticamente di Mean Streets
ma quanta voglia in più in quel film. Voglia di raccontare il tuo ambiente, le
tue radici, la tua educazione. Questo manca nell’ultimo Scorsese, voglia di
raccontarci il suo mondo, con le sue contraddizioni e le sue paure. Senza paura
di raccontare storie in qualche modo simili, perché i grandissimi registi non possono
temere di parlare di loro stessi, dietro la loro vita e la capacità che hanno
di filtrarla attraverso l’arte nascono i capolavori.
Sergio
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