mercoledì 7 maggio 2014

Oh boy, un caffè a Berlino - Jan Ole Gerster



E’ una bella sorpresa vedere un’opera prima di un regista tedesco e trovarsi catapultato in piena atmosfera nouvelle vague anni Sessanta. Oh Boy – Un caffè a Berlino di Jan Ole Gerster del 2012 è  uno di quei film che, pur non facendoti gridare al capolavoro, riesce a dimostrare come si possa fare cinema intelligente anche con un budget ridotto a patto di avere delle idee di sceneggiatura di buon livello.
Una giornata nella vita di un ragazzo all’interno di una Berlino non turistica tra incontri casuali e momenti di crescita. Niko è un ragazzo di poco più di vent’anni, confuso sulle cose da fare come spesso solo a quell’età riesci ad essere. Ha lasciato gli studi ma senza confessarlo al padre (che continua a versargli l’assegno mensile), non riesce ad avere una vita sentimentale seria e a chi gli chiede se ha un po’ di tempo risponde di avere mille cose da fare. In realtà l’unica cosa che cerca di fare è prendere un caffè ma qualcosa si mette sempre di traverso impedendogli il soddisfacimento dell’unico desiderio reale che ha. I personaggi che Niko incontra sono a volte drammatici a volte divertenti ma sembrano avere tutti un punto in comune: sono troppo presi dalle loro esistenze per confrontarsi con lui che, di contro, non ha tanta voglia di aprirsi con qualcuno. Ogni vita scivola via tra vecchi ricordi diventati ossessioni, momenti di riflessione che non hanno mai fine e gesti importanti che si rimandano sempre. Tutto è narrato con una leggerezza davvero difficile trovare in un regista all’inizio (solitamente i giovani autori fanno a gara nel rendere le loro storie pesantissime elucubrazioni sui destini dell’umanità). Gerster segue la giornata di Niko con discrezione mentre il ragazzo si lascia trasportare da un quartiere all’altro, ritrovando antiche compagne di scuola o facendo amicizia con la nonna di uno spacciatore di droga. Ma anche quando si scontrerà con il padre, che scopre l’abbandono degli studi da parte del figlio,  il tono narrativo non cambia. Si parla di temi (anche) importanti con leggerezza e con un sottofondo jazz che accompagna gradevolmente tutto il film.

Niko rispecchia una stagione della vita molto spessa carica di incertezze, di dubbi, di pensieri un po’ folli ma con la certezza che tanto ci sarà del tempo per ritornare sui propri passi. Il racconto di una libertà data dalla non assunzione di responsabilità, anche questo è il fascino dei vent’anni. E’ la libertà narrativa dell’autore diventa la diretta conseguenza dei primi film dei registi della nouvelle vague, Niko è il fratello minore dell’Antoine Doinel truffautiano ma anche del protagonista del Segno del leone di Rohmer o del Belmondo godardiano di Fino all’ultimo respiro. Un bell’esordio che speriamo non rimanga un caso isolato.

Sergio 

Trailer:

venerdì 2 maggio 2014

L'intrepido - Gianni Amelio


I film di Gianni Amelio sono stati importanti nella mia formazione giovanile soprattutto per consolidare l’idea di un cinema di forte impegno morale. Un cinema che non si tirava mai indietro nel raccontare temi importanti come nel bellissimo Porte aperte, tratto dal romanzo di Sciascia, del 1990 (con una delle ultime e più grandi interpretazioni di Gian Maria Volontè). E poi film come Il ladro di bambini o Lamerica, opere dove la lettura del presente avveniva in maniera coinvolgente e con una partecipazione emotiva altissima. Il suo cinema era (ed è) però lontanissimo parente di quel cinema impegnato alla Ken Loach che si è abituati a usare come metro di paragone. Amelio ha sempre privilegiato l’aspetto intimo, poetico per raccontare la società. Quasi mai dalle sue opere esce fuori un grido di rabbia piuttosto si è portati a una sorta di riflessione morale sulla natura dell’uomo. Poca analisi sociale o studio sui meccanismi del potere ma grande attenzione agli aspetti personali dell’essere umano.
Pur apprezzando i suoi film non ne sono però mai stato interamente coinvolto, sentivo quasi sempre un di più di paternalismo retorico che rendeva le storie inutilmente più ampie di quello che avrebbero dovuto essere. Preferivo di gran lunga i suoi documentari dove la grande capacità di Amelio di osservare in profondità l’animo umano conosceva un limite preciso che gli proibiva di illustrare in maniera didattica il suo punto di vista. La terra è fatta così un suo lavoro del 2000 che racconta tramite semplicissime sequenze di interviste, i ricordi dei sopravvissuti al terremoto dell’Irpinia del 1980, è una di quelle opere che non mi stancherei mai di guardare (e di consigliare).
Purtroppo con l’età succede che certe tendenze si accentuino e diventino ancora più ingombranti rispetto al passato. Guardando il suo ultimo film L’intrepido ho avuto conferma di ciò. Nel cercare di raccontare il disastro sociale ed economico del nostro paese degli ultimi anni Amelio sceglie una via quasi fiabesca. Il protagonista, Antonio, è un uomo di mezza età che non trova niente di meglio da fare per andare avanti che fare il rimpiazzo. Sostituendo per qualche ora o per qualche giorno qualcuno che non può presentarsi a lavoro, Antonio passa tra i mestieri più disparati e la sua figura è praticamente quella di un lavoratore invisibile. Il grado più alto della precarietà e dello sfruttamento professionale. Ma Antonio, un Albanese non molto convincente, vive tutto questo con una serenità e una positività che nelle intenzioni dell’autore vorrebbe probabilmente essere un omaggio a una umanità che non si abbatte ma si risolve invece in una superficialissima rappresentazione di un presente che meriterebbe ben altri strumenti narrativi per essere narrato. La vita del protagonista scorre tra lavori casuali e rapporti interpersonali (con il figlio e con una donna conosciuta lavorando) senza mai decollare. A cosa dovrebbe portare questa positiva predisposizione d’animo se non a una, ancora più feroce, tendenza allo sfruttamento da parte di un mercato del lavoro sempre più schiavista?

Dopo avere visto il film leggo una intervista di Amelio in cui afferma che voleva raccontare il mondo del lavoro come fece Chaplin. Il cerchio si chiude. La chaplinizzazione dell’umanità è servita solo ad arricchire il creatore di questa straordinaria beffa artistica e a fare stare ingenuamente meglio chi aveva poco tempo per andare a fondo nello studio dei caratteri umani accontentandosi della consolante immagine dell’uomo buono. Non credo che di illusioni buoniste abbia bisogno l’Italia di oggi quanto piuttosto di sonore incazzature e prese di coscienza ma purtroppo nel nostro paese i Ken Loach sono merce rara.

Sergio