mercoledì 29 giugno 2011

Casablanca - Michael Curtiz



Non ricordo più la prima volta che ho visto Casablanca. Non è stato molto tempo fa, ma non è stata quella volta a segnarmi.
E’ difficile anche per la persona meno sensibile non commuoversi con Casablanca, se poi si conta che un film possa portare ricordi personali molto forti, posso dire che è impossibile per me vedere questo film e non versare qualche lacrima in certe scene.
E’ bello quando un film non porta con se soltanto il suo valore intrinseco, il suo significato, le sue immagini, la cura della sceneggiatura etc..
Casablanca è per me uno di quei film che manda una quantità sconfinata di emozioni, legate non solo alla storia, ma soprattutto a particolari momenti e a particolari persone.

E’ talmente conosciuto che non serve che scriva qualcosa per suscitare la curiosità di chi ancora non ha pianto su questo film. Chi non ha avuto ancora questa fortuna, comunque ne avrà già sentito parlare a sufficienza per farsi destare un minimo di interesse.
Quello di cui vorrei parlare è invece la forza con cui il cinema avvicina la gente, e suscita emozioni assolutamente esclusive, con sfumature diverse da persona a persona.
Certe opere assumono un valore speciale perché condivise con qualcuno, e spesso queste opere rappresentano un punto di contatto, e riescono a rendere magici dei momenti che altrimenti potrebbero essere solo belli.
Questo è spesso il motivo per cui siamo legati a film visti nell’infanzia, per quanto alcuni possano raggiungere livelli di banalità che se li vedessimo oggi per la prima volta penseremmo che solo un idiota potrebbe stare a guardare certa roba. Eppure suscitano sempre un sorriso quando li rivediamo, non possiamo fare a meno di ricordare, guardando quelle immagini, di come il nonno preparasse la videocassetta mentre la nonna preparava i panini, e si ripetevano a memoria le battute del film insieme alla sorella o ai cugini o ai compagnetti di classe. E scatta sempre un piacevole senso di complicità quando incontri qualcuno che ti dice “Oh, anch’io da piccolo/piccola lo adoravo questo!”
E quante volte i gusti cinematografici, o musicali o letterari fanno avvicinare le persone, talvolta accendono anche la scintilla per amori fortissimi e duraturi.
“ -Come vi siete conosciuti?
-       Entrambi amavamo Pessoa ed eravamo affascinati dalle foto di Cartier-Bresson”
“E così anche tu ami il Maestro e Margherita..”
“-Quale preferisci della trilogia dei colori?
  -Il rosso
  -Anche io,  ma il Bianco lo amo pure.
 - (Sorriso)
 - (Sorriso)”
Accade anche l’opposto, forse con esagerazioni:
“-Ti piacciono i Led Zeppelin?
-       Chi?
-       Dimenticami!”
Forse può essere considerato un eccesso, ma entro certi limiti credo sia normale; d’altra parte, statisticamente, non mi sono mai trovato a mio agio con qualcuno che leggesse Moccia o fosse un patito dei cinepanettoni. Diventa una questione non più solo di gusti, ma di tipologia di sensibilità.
E’ ovvio che non si può conoscere tutto, ma tra due persone che hanno uno stesso tipo di sensibilità scatta anche il piacere di far scoprire all’altro/a qualcosa che ami.
A una persona molto importante una volta, feci conoscere Jules et Jim. Già io amavo questo film con ogni fibra del mio corpo, mi trasmetteva emozioni fortissime.
Visto il film, lei aspettò la sera e mi chiamò, e mi disse: “Questo film ha un po’ cambiato la mia vita”. E’ stato un momento bellissimo.
Per una serata abbiamo parlato di Jules et Jim, di Truffaut, di quello che il film aveva significato per lei e di quello che aveva significato per me. Alla fine della serata, Jules et Jim aveva acquisito un altro valore, legato anche a quella conversazione, e anche adesso, quando riguardo il capolavoro di Truffaut, non posso fare a meno di sorridere ripensandoci.
Trovo bellissimo tutto ciò.

Ho scelto Casablanca come pretesto per affrontare questo discorso perché ho notato che statisticamente ha questo potere più di altri film. Da tante persone ho sentito dire “Ah.. quanti ricordi con Casablanca..”
Non so se è stato solo un caso che io abbia incontrato persone le quali hanno vissuto qualcosa in particolare con Casablanca, o è Casablanca in sé che ha la forza di rendere speciale e magico il momento della sua visione.
Mi piace credere a questa seconda ipotesi.
Le atmosfere di nostalgia per Parigi, dei bei tempi andati con Ilsa alla Bella Aurora, l’angoscia dei fatti più grandi e poco gestibili del presente, la necessità di una nuova separazione, sono tutti elementi fortissimi, che forse un po’ tutti possiamo collegare a fatti personali. Chi, d’altra parte, non ha mai avuto nostalgia di qualcosa o non ha mai dovuto affrontare decisioni dure?
 “Se lui parte e tu rimani un giorno sarai presa dal rimorso, non oggi e forse neanche domani. Ma presto o tardi, e per tutta la vita.”
Fin troppo facile immedesimarsi in situazioni del genere: lasciare qualcosa che si ama per qualcosa di più importante. Piangendo sì, avendo nostalgia, tenendosi dentro tutte le belle cose del passato e sapere che nessuno potrà mai togliercele
“avremo sempre Parigi..”
Ma anche guardando sempre in avanti, tenersi sempre aperti alle nuove esperienze, pensare sempre che una nuova conoscenza può essere “l’inizio di una meravigliosa amicizia”

Ogni tanto sento il bisogno di rivedere Casablanca, ha l’effetto benefico di esorcizzarmi paure e nostalgie e lasciarmi con la speranza. Il tutto al basso prezzo di qualche lacrima.

Robin

Suonala Sam

Le avventure acquatiche di Steve Zissou - Wes Anderson



Da buona e fedele “andersiana”, quale mi definisco, trovo doveroso dedicare qualche riga a uno dei registi più interessanti dell’attuale panorama cinematografico. So già di rendere felice chi, come me, apprezza ed ama questo singolare regista, ma so anche di far adirare quanti,invece, poco lo sopportano, perché il cinema di Anderson, così perfettamente riconoscibile e particolare, non ammette mezze misure; o lo si ama o lo si odia.

Ho scelto quello che forse è il film che, a parer mio, meglio raccoglie temi, motivi e personaggi del singolare e surreale universo andersiano e il marchio di fabbrica,ovviamente, non cambia:
inquadrature piatte, geometriche, pittoriche, grande cura per ogni singolo particolare e minuziosa scelta delle musiche, essenziali per il risultato finale.
Anderson mette in scena personaggi sopra le righe, apparentemente lontani da noi, ma in realtà più vicini di quanto pensiamo; uomini e donne in bilico tra il bisogno di autoaffermazione individuale, bisogno di realizzare sogni e aspirazioni e la necessità di approvazione sociale.
E di questo Steve Zissou è un caso esemplare, diviso tra la volontà di creare una figura leggendaria attraverso la registrazione di documentari acquatici e il bisogno di realizzarsi nel privato.
Al centro dell’universo andersiano troviamo sempre famiglie disfunzionali, allargate ed atipiche (che siano gruppi di marinai o famiglie super allargate o gruppi di amici), i cui membri sono chiamati a fare i conti con la definizione dei propri rapporti, faticando ed arrancando per armonizzare la propria esistenza e il proprio modo di essere con ciò che li circonda.
Quello che domina il mondo di questi personaggi è il caos, funzionale, però, al loro sopravvivere e necessario nell’affrontare i rapporti familiari e sociali. Un caos che, se in primo momento getta nel panico, confonde e lascia naufragare chi lo abita, a poco a poco accarezza i suoi protagonisti, li culla portandoli a comprendere che i rapporti umani, per quando difficili da decifrare e gestire, sono in realtà necessari.
Una sensibilità artistica, quella di Anderson, capace di dipingere con ironia, leggerezza e un tocco di poesia l’uomo in tutte le sue sfaccettature e tutto quello che lo circonda;  un piccolo gioiello che commuove a fa sorridere. Tuffarsi in quadro per poi muoversi con i suoi protagonisti.

Con la speranza che ognuno di noi possa un giorno trovare il proprio “squalo giaguaro”, perché in fondo la vita è una continua ricerca dell’ignoto in cui siamo tutti dei compagni di viaggio; e Anderson ci mostra quanto sia difficile, durante questo viaggio, salvaguardare se stessi e concedersi agli altri.


Vi lascio con i titoli di coda

Valeria

lunedì 27 giugno 2011

Vincenzo Pirrotta - Quei ragazzi di Regalpetra

Quelle volte che a Catania capita di assistere a delle opere teatrali di un certo spessore (cosa che purtroppo non avviene spesso), diventa un piacevole obbligo il trovarsi un posto in prima fila per saziare quella sete di cultura che la nostra città ha troppe volte tentato di calmare con le solite e vecchie stantie arie di continenti o ripetitive eredità di zii canonici.
Eccoci allora presenti per assistere all’ultimo lavoro di Vincenzo Pirrotta “Quei ragazzi di Regalpetra” che l’artista palermitano ha ridotto dal libro di Gaetano Savatteri assieme allo stesso scrittore. Pirrotta è  uno di quegli uomini di teatro siciliani, che per fortuna abbiamo, il quale continua a ricordarci come il fatto di avere una grande tradizione culturale alle spalle non vuol dire adagiarsi su essa senza avere più desiderio di ricerca ma piuttosto partire da quella tradizione per sperimentare nuovi linguaggi più adeguati al nostro tempo. D’altronde Pirrotta, allievo del grande Mimmo Cuticchio, ben conosce storie e tradizioni della nostra terra ma riesce ogni volta a rielaborarle e renderle vive sul palcoscenico con un lavoro sul linguaggio, sia del testo che del corpo, tale da collocarlo tra gli artisti più importanti che abbiamo oggi in Italia assieme a nomi del calibro di Pippo Delbono o dell’altra siciliana Emma Dante.
Il luogo di Regalpetra prende naturalmente le mosse da un luogo di fantasia che Sciascia creò nel 1955 nel suo “Le parrocchie di Regalpetra”, unendo la sua Racalmuto al libro di Nino Savarese “Fatti di petra”. E’ in questa Regalpetra che Pirrotta ci accompagna, facendoci conoscere luoghi e personaggi di un paese dove all’inizio tutti si affrettano a dire che la mafia non esiste, che è un affare di altri, che qui si vive di lavoro, di estrazione di sale e di zolfo. La mafia è un cancro degli altri e a Regalpetra quando avviene il primo omicidio si dice che sia storia di corna (quanto dolore e quanti ricordi lancinanti risorgono in quei momenti pensando a quello che successe a Catania nel 1984, dopo lo spietato assassinio di Giuseppe Fava con i giornali e le istituzioni che si affrettavano a dire che a Catania la mafia non esisteva e che l’omicidio era di altra natura). Ma “sangu chiama sangu” e pian piano Regalpetra diventa un mattatoio, si uccide per niente e per tutto, la faida scoppia brutale e “l’asfalto non la smette di bere sangue”. Pirrotta pone come spartiacque della storia di Regalpetra l’anno della morte di Leonardo Sciascia, come se la figura del grande scrittore rappresentasse una diga morale contro la barbarie. Il potere della penna contro quello della pistola come Saviano ci ha ricordato qualche mese fa. Ma se scompare la penna le pistole si scatenano. Regalpetra diventa un inferno in terra e Pirrotta ci presenta omicidi, vendette e canti funebri come soltanto un conoscitore della macchina teatro sa fare. Come in una moderna tragedia greca, con il coro che ci accompagna, scorrono davanti a noi storie di tragedie familiari e di patti scellerati. Ma quei ragazzi di Regalpetra non sono solo quelli che si scambiano colpi di pistole a tutte le ore ma anche quelli che, per fortuna, stanno dall’altra parte, quelli che, cresciuti a fianco di Sciascia, stampano un giornale dove cercano di denunciare tutte le violenze alle quali assistono. La faida dura 17 lunghissimi anni a Regalpetra e nel bellissimo momento finale uno di quei ragazzi virtuosi si chiede se avrebbe potuto fare di più per fermare quello scempio… no si dice,tutto sarebbe avvenuto ugualmente… ma questo è “alibi da poco, alibi da niente…”. Alla violenza non ci si abitua e del potere della cultura non possiamo mai fare a meno.
Pirrotta è il solito gigante del palcoscenico, la sua voce e il suo corpo riempiono lo spazio teatrale come pochi, l’opera forse non raggiunge i picchi di “Terra matta” che lo scorso anno riuscì a emozionarci come rare volte capita ma nel complesso è sicuramente un altro grande tassello nella sua produzione teatrale.

Sergio

domenica 26 giugno 2011

Werner Herzog - My son, my son what have ye done


Prepararsi a vedere un film di Werner Herzog prodotto da David Lynch ti mette sin dall’inizio una curiosità e un’attesa particolare. Probabilmente perché si tratta di due autori che ci hanno regalato tra i capolavori più belli e inquietanti della storia del cinema.
My son, my son, what have ye done è uscito in Italia a settembre dello scorso anno e rappresenta sicuramente un piccolo riscatto da parte dell’autore Tedesco dopo l’infelice prova de “Il cattivo tenente, ultima fermata New Orleans” inutile remake del capolavoro di Abel Ferrara. Negli ultimi vent’anni Herzog ci aveva fatto vedere tra i documentari migliori mai visti al cinema (ne riparleremo sicuramente) e aveva un po’ fermato la sua produzione di lungometraggi . Adesso sembra aver ripreso con buona lena anche questo versante narrativo e anche se siamo ancora distanti dalla genialità dei suoi titoli degli anni Settanta (Aguirre, Nosferatu, Woyzeck), chi ama il suo cinema non può non riconoscere la sua mano. My son… inizia quando i fatti sono già accaduti, un omicidio di una donna da parte del figlio, tutto il film è il tentativo di capire i motivi che conducono il ragazzo a questo gesto. Il suo lento scorrere nei meandri della follia attraverso viaggi esotici, richiami mistici e rapporti educativi castranti.
La mano di Lynch si avverte in maniera forte con personaggi che sembrano usciti direttamente dai suoi film (la madre possessiva o il nano onirico) e che, associati ai temi ricorrenti herzoghiani (l’incombenza assoluta e preponderante della natura con la sua forza e i suoi animali curiosi, in questo caso fenicotteri e struzzi…), producono un risultato abbastanza disturbante (ed è ovviamente un punto a favore). Peccato che alcune scelte narrative non siano poi portate fino in fondo come se il girare all’ombra degli studios americani tarpi (in)consapevolmente le ali della fantasia di Herzog facendolo fermare sempre un attimo prima dello scatto verso l’ignoto (in quel terreno che nel passato ha prodotto i suoi capolavori).
Il film è tratto da una storia vera, un omicidio, avvenuto nel 1979, di una donna da parte del proprio figlio successivamente dichiarato non sano di mente; si dice che Herzog incontrò quest’uomo alla fine degli anni Novanta andandolo a trovare nel camper dove viveva e di esserne rimasto molto colpito a causa della sua follia tanto da non volerlo più vedere. Conoscendo un po’ Herzog questo tizio doveva proprio essere particolare…

Sergio

venerdì 24 giugno 2011

Morfij (Morfina) - Aleksej Balabanov


     
Mi sono sempre chiesto come mai dai romanzi di Bulgakov non fossero tratti tonnellate di film. Fatta eccezione per il più noto “Maestro e Margherita”, i suoi racconti si prestano, a mio parere, enormemente a trasposizioni cinematografiche. Già con Cuore di Cane, di Vladimir Bortko questa mia convinzione aveva trovato conferma.
Ieri sera, già entrato in quello che posso definire “tunnel Balabanov”, mi sono imbattuto in quest’altro piccolo capolavoro.
Basato sull’omonima novella autobiografica bulgakoviana, Balabanov riprende egregiamente anche altri racconti contenuti nel libro “Appunti di un giovane medico”, compiendo un lavoro di trasposizione cinematografica a regola d’arte.
Essenziale, conciso, per certi versi spietato, il film ci narra la storia di un giovanissimo medico senza esperienza mandato a dirigere un ospedale in uno sperduto villaggio della Russia, in tempo di guerra civile. Le ansie, il senso di responsabilità, le paure che questo lavoro fanno gravare su di lui, lo trasformeranno in un drogato di morfina.
Senza mai scadere nel banale, Balabanov affronta il tema della droga in maniera egregia, senza ipocriti moralismi ma trascinando lo spettatore sullo stesso piano emotivo del protagonista, vivendo sensazioni di dipendenza, di angoscia, di crisi d’astinenza e di senso di colpa. Un bravissimo Leonid Vichevin, attore alle prime armi, spaventosamente rassomigliante al vero Bulgakov, aiuta notevolmente il regista a raggiungere il proprio scopo.
Sorprendente come si avverte, verso la fine, un senso di nostalgia per quell’ospedale tanto odiato durante tutta il film. Lo stesso senso che si avverte leggendo alcune pagine del libro. Come sia riuscito in questo intento non sono riuscito a comprenderlo, ma forse è un bene che resti ignoto, come il trucco di un bravo prestigiatore.
“Più della meschina verità mi è prezioso l’inganno che mi sublima, e su quest’inganno piangerò tutte le mie lacrime” diceva Pushkin, ma forse sto divagando.
Adoro come questo regista riesce a rendere le atmosfere delle sue storie. Riesce a farci fare un tuffo nel suo mondo, in questo caso nel passato, con dettagli curati sino al minimo e apparentemente più insignificante particolare. Già in Brat si nota questo tocco di classe. Decisamente migliorato con gli anni e con l’esperienza, il suo talento riesce nel medesimo intento anche con un mondo ormai estraneo a chiunque, in primis a egli stesso, per ovvi motivi di età.
Morfij non si limita  a raccontare una storia; trasmette, in maniera essenziale, la vita intera del dr. Poljakov e dell’infermiera Anna Nikolajevna. Il loro freddo, la loro fame, la loro difficoltà nell’affrontare ogni giorno lo stesso inferno, la pace fittizia delle iniezioni di morfina, sono soltanto dettagli per affrontare con cura tutto il loro spettro emotivo, che lo spettatore vive assieme a loro, dall’inizio fino alla fine, una fine a dir poco geniale.
Senza dubbio un maestro nel captare l’essenza di un libro e tradurla in linguaggio cinematografico.

Robin

Tanjechka suona il piano  (non ho trovato trailer sottotitolati, preferisco una scena musicale che accompagni la lettura)

Rebecca Dautremer e Philippe Lechermeier - Il diario segreto di Pollicino


In queste sere mi sono addormentata sulle pagine di un bellissimo libro di cui voglio parlarvi: Il diario segreto di Pollicino scritto da Philippe Lechermeier e magnificamente illustrato da Rebecca Dautremer.
Appena l’ho visto in libreria, sono stata subito attratta da questo libro rosso dal formato insolito (molto più piccolo rispetto allo standard dei libri illustrati). La prima impressione che si ha sfogliandolo è proprio quella di “sbirciare” di soppiatto in un diario, “mettere il naso” in qualcosa di privato, prezioso, proibito ai più. Il modo in cui è scritto non fa che rafforzare queste prime sensazioni… ogni pagina è un mondo a parte tutto da scoprire. Non è solo un libro da leggere, ma un libro in cui immergersi, cercare, rovistare tra i dettagli… anche le note a margine, i disegni sullo sfondo e gli scarabocchi “a penna” riservano piccoli piaceri nonché informazioni importanti per la storia. L’illustrazione si fonde con la parola scritta al punto da non potersene più separare, così come alla vicenda principale si fondono mille digressioni… e il macromondo si fonde con tanti mondi più piccoli al punto da non poter più distinguere la storia principale da quelle di contorno. Il grande e il piccolo sono parti di un complesso e unico insieme… allo stesso modo Pollicino, minuscola creatura, vive da protagonista in un mondo che non è a sua misura.
La triste storia di Pollicino e dei suoi fratelli si colora di elementi grotteschi e divertenti e i disegni di Rebecca Dautremer ne fanno poesia allo stato puro. Stupendo quello del corsetto metallico della matrigna, chiuso da lucchetti, catenacci e chiavistelli per proteggerne i segreti e i tesori.
Il libro saprà ricompensare chi lo guarda con attenzione… innumerevoli chicche si nascondono fra le pagine, una su tutte è un piccolo disegnino che evoca un piccolo foglio strappato da un catalogo “simil ikea” in cui si vedono i vari modelli e i prezzi dei letti per molti fratelli, disponibili nei colori nero, marrone e cacca d’oca...
 Gabri

mercoledì 22 giugno 2011

Vivre sa vie (Questa è la mia vita) - Jean-Luc Godard

Sono perfettamente cosciente di intraprendere un percorso irto di ostacoli perché parlare di Godard e del suo personalissimo cinema non è cosa facile, soprattutto quando, come nel mio caso, si ama incondizionatamente questo straordinario maestro.

Nel suo quarto lungometraggio, che narra la storia di Nanà, giovane commessa di un negozio di dischi divenuta per una seria di vicissitudini e scelte una professionista del marciapiede, Godard abbandona le regole della narrazione convenzionale, segmentando la storia in 12 quadri, ognuno dei quali caratterizzato da un registro specifico (da quello filosofico a quello letterario, da quello giornalistico e sociologico a quello delle arti figurative), tutti funzionali alle riflessioni a cui ci obbliga il maestro francese. Inoltre, in perfetto stile Nouvelle Vague ed in linea con la sua idea di cinema, opta per una serie di scelte tecniche che hanno come scopo quello di provocare straniamento nello spettatore, e spingerlo così ad una acuta e attenta riflessione sui temi trattati e le immagini mostrate, e di distanziarsi quanto più possibile dal modello di cinema americano che stava espandendosi a macchia d’olio.

c’è una sorta di ascesi che ti impedisce di parlare bene finché non si guarda la vita con distacco”

E’ questa la lezione di Godard. E’ necessario guardare con distacco ciò che ci circonda, solo così saremo in grado di riflettere, di analizzare la realtà circostante e trarre le nostre conclusioni; perché, che ci piaccia o no, il cinema di Godard non è per menti pigre, non è semplice intrattenimento, piacevole svago, è vita in tutte le sue sfaccettature.
Ci invita (o meglio ci obbliga, attraverso le sue scelte tecnico-narrative) a guardare la vita con la giusta dose di coinvolgimento e distacco, così da renderci sempre più lucidi ed attivi.
“La mia originalità, e il mio fardello, sta nel credere che il cinema sia fatto più per pensare che per raccontare storie.”


Ogni immagine, costruita per essere quanto più vicina alla vita reale, diventa portatrice di un’ideologia. La profondità semantica di ogni fotogramma colpisce direttamente lo spettatore, senza bisogno di nessuna mediazione.
In particolare, in Vivre sa vie (Questa è la mia vita) Godard ammette che ognuno di noi è libero di vivere la propria vita, a patto che sia consapevole delle responsabilità che questo vivere comporta.
"Credo invece che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E siamo liberi. Alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Fumo una sigaretta, sono responsabile."

Un elogio al libero arbitrio, insomma, senza nessun insegnamento morale.
Scegliere è Vivere e Vivere è Scegliere. Le conseguenze, poi, sono inevitabili.

Voler evadere è un'illusione. In fondo le cose sono come sono e nient'altro. Un volto è un volto. Dei piatti sono dei piatti. Gli uomini sono gli uomini. E la vita è la vita.”

Valeria

martedì 21 giugno 2011

Brat - Aleksej Balabanov



L’Unione Sovietica è da poco caduta. Grandi, profondi e radicali sono i cambiamenti della società russa dei primi anni novanta. In questo periodo di transizione, di confusione sociale, la criminalità organizzata ha trovato il più fertile dei terreni per la sua ascesa al potere.
Questo è il teatro in cui il regista ha deciso di ambientare la storia amara di un giovane russo, amante della musica. In lui, la speranza in un futuro migliore, la profonda voglia di vivere la vita in modo normale, una voglia di divertirsi, di conoscere gente nuova, viene stroncata dagli eventi di forza maggiore. La lealtà verso il fratello in pericolo a causa di un boss lo condurrà passo passo in uno squallido mondo fatto di droga, omicidi, stupri e false amicizie, che lo trasformeranno in un killer spietato. Sarà solo il suo buon cuore e il suo profondo senso di giustizia interiore a muovere le sue azioni in una società corrotta, che muove goffamente i primi passi in un mondo capitalista che non comprende, in cui davvero certi uomini applicavano alla lettera la massima “facciamo un po’ come cazzo ci pare”.
Un bellissimo uso della colonna sonora, studiata per far immedesimare al massimo lo spettatore in Danila, il protagonista (quasi tutti i pezzi sono dei Nautilus Pompilius, gruppo russo estremamente popolare nella cultura giovanile “alternativa” di quegli anni). Splendide le ambientazioni: per suggerire un clima di squallore e decadenza, il regista evita accuratamente le riprese nelle bellissime vie pietroburghesi, dando maggiore attenzione agli spazi interni, quasi tutti decrepiti e lasciati a se stessi, dettaglio che rispecchia l’essenza di molti personaggi del film; e anche quando la scena è all’esterno, è quasi sempre in sporchi e luridi bassifondi di periferia. Solo all’inizio del film, quando Danila arriva pieno di speranze a Leningrado (anzi, a Pietroburgo) si vedono carrellate attorno a quelli che sono gli edifici che rendono Pietroburgo una delle città più famose al mondo per i suoi capolavori architettonici.
Per i suoi temi attualissimi trattati con maestria, il film è presto diventato un cult tra i russi, e ha portato fama al regista anche fuori casa, presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes del ’97.
Un film asciutto e duro, un affresco senza moralismi né retorica sulla società russa di quegli anni, che, per certi aspetti, continua ancora a vivere in quello che è il regno del piccolo zar Putin, asceso al potere proprio in quegli anni (quando si dice “il caso”).
Nel 2000 Balabanov ha girato anche il sequel “Brat 2”, tradotto in Italia col titolo “Il fratello più grande”, di cui spero di poter parlare presto.

Robin

lunedì 20 giugno 2011

Woody Allen - Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni


Mi aspetto da un giorno all’altro che Giacobbo dedichi un’intera puntata di Voyager al mistero della pessima vecchiaia di Woody Allen. Cosa è accaduto? Forse quindici anni fa è stato vittima di un incidente analogo a quello che (secondo alcuni) causò la morte del “vero” Paul Mc Cartney, prontamente sostituito da un perfetto sosia. Ma se (volendo considerare valida questa ipotesi) gli altri 3 fab four e i loro manager ebbero il culo con la C maiuscola di trovare non solo un sosia ma anche il genio musicale che fingendosi Mc Cartney ancora ci regala immensi capolavori, questo Allen, per quanto altrettanto brutto e occhialuto al punto da non destare sospetti, sembra sconoscere non solo il genio a cui eravamo abituati ma persino le regole basilari di un cinema che possa definirsi decente.
Ieri però, dopo aver visto l’ultimo film firmato Woody Allen, mi è balenata in mente un’ipotesi che farà gola allo stesso Giacobbo (no, gli alieni non c’entrano e nemmeno i nazisti ma io credo che gli piacerà ugualmente). E se Woody avesse deciso di prenderci tutti in giro fino alla sua morte? Mi spiego meglio. Non possiamo non considerare il fatto che ogni anno esce un suo film che riesce (sorprendentemente) ad essere peggiore di quello precedente. In questa involuzione io mi rifiuto di vedere la demenza senile, voglio a tutti i costi vederci un piano. Forse sta semplicemente tirando la corda per vedere fino a che punto riesce a fregarci. Io stessa mi sento “fregata” per il fatto di essere rimasta a guardare per intero un film che non merita nemmeno dieci minuti di umana pazienza. La banalità innalzata monumento, cali di ritmo spaventosi, dialoghi che sembrano scritti da Topo Gigio. Tutto questo è troppo brutto per non essere fatto apposta.
Tra i contenuti speciali del dvd c’era il contributo video di un critico che si sprecava in una attenta esegesi del film. Io immagino Woody Allen ridere a crepapelle davanti a questo commento e dire al suo agente di chiamare subito Ruby per farle firmare il contratto per il prossimo film. Un giorno, sul suo testamento troveremo scritto “ve lo siete meritato”.
Gabri

venerdì 17 giugno 2011

Woody Allen - Amore e Guerra (Love and Death)




Pranzo pesante, di quelli che ti si piazzano sullo stomaco come un’incudine. Ho bisogno di un film leggero per bilanciare, che faccia ridere abbastanza anche per farmi dimenticare l’imperante senso di colpa per non stare studiando.
Chi meglio di Woody Allen in questi casi?
Sempre attuale, sempre pungente, sempre divertente.

“ci sono cose peggiori della morte, avete mai passato una serata con un assicuratore?”

Evitando caldamente Harry a pezzi per il nervoso suscitatomi dal quiz di Moretti, ho virato su un titolo degli anni 70, forse la sua epoca migliore.
Ambientato in una Russia ottocentesca impregnata di anacronistici e straordinari riferimenti alla società odierna, il film parla delle avventure di Boris, vigliacco soldato dell’armata zarista (ovviamente interpretato da Woody) e della donna da lui amata, Sonja (Diane Keaton), bellissima e intelligente. L’unica con la quale lui possa affrontare discorsi “più seri”.
In questo film affronta, con un umorismo sofisticatissimo come al suo solito, i temi a lui cari, e cari in fondo un po’ a tutti quanti noi: la paura della morte, la contrapposizione di codardia ed eroismo, il complesso rapporto con la società, e, ovviamente, il complessissimo rapporto con le donne e con la sessualità. Tema che si potrebbe definire un marchio di fabbrica della sua filmografia.

“Lei - Sei stato l’amante migliore che abbia mai avuto.
 Lui – Sai, faccio tanta pratica da solo”

Inoltre, credo di non aver mai visto un film di Woody Allen così ricco e trasbordante di citazioni, e, da bravo fanatico di letteratura e cultura russa non posso che apprezzare gli innumerevoli riferimenti a Dostoevskij; anche non volendo ricordare il meraviglioso dialogo in cui cita in pochi secondi tutti i più grandi capolavori del maestro russo, vi sono l’esitazione e il senso di colpa per l’omicidio (tema pregnante in Delitto e Castigo) filosofie e dubbi morali sulla fede e sul libero arbitrio (tema centrale de I fratelli Karamazov) e un accenno anche a L’Idiota con il personaggio dello scemo del villaggio, che porta curiosamente il nome di Bezuchov, personaggio principale di Guerra e Pace di Tolstoj, romanzo sulla quale struttura è tessuta quasi tutta la trama del film.
Una piccola considerazione anche per una citazione un po’ più nascosta, ossia quella della scena del duello, palesemente tratta da Un colpo di pistola, piccolo racconto all’interno della raccolta I racconti di Belkin di Pushkin. Il racconto narra una vicenda che si svolge  esattamente come la scena di Allen, ovviamente, senza la visione comica e grottesca data dal regista newyorkese.
Non di inferiore valore sono le citazioni cinematografiche, dai più alti Bergman per alcune scene della morte che ricordano un po' Il settimo sigillo, a Frankenstein jr., uscito solo qualche anno prima ma già diventato un cult.

“potrebbe andare peggio, potrebbe piovere..” 

Robin



Hunger - Steve McQueen



Steve McQueen (nessuna relazione con l’omonimo attore americano) porta sullo schermo la rivolta dei detenuti del carcere irlandese di Long Kesh ,avvenuta nei primi anni 80, contro il governo britannico per l’attuazione dello status di prigioniero politico e la conseguente morte del loro leader, Bobby Sands, attivista politico nordirlandese, in seguito a un drastico sciopero della fame.
Ciò che ci ritroviamo davanti agli occhi è il cosiddetto “sciopero della coperta e del sapone”: i detenuti  rifiutavano di indossare le divise dei criminali, sostituendole con una semplice coperta, imbrattavano i muri delle celle con i loro escrementi e svuotavano le latrine nei corridori del carcere. Tutto questo per essere riconosciuti prigionieri politici e non veri e propri criminali.

Mai titolo fu più esatto. Fame. Fame di riscatto, di rivincita, di dignità, di libertà. Fame di rispetto per i propri ideali.
Il film di McQueen è un potente pugno allo stomaco, è una lama che si infila dentro al petto e sta lì per delle ore. Poco è lo spazio lasciato alle parole, perché le immagini, così disturbanti e lancinanti, hanno una profondità tale da riempire questo “vuoto”. E la bellissima fotografia di Sean Bobbitt, così elegante e suggestiva, che cozza con le immagini di sporcizia e violenza, rende ancora più intollerabile la vista di cotanta sofferenza.
Hunger non è solo questo, non è solo sofferenza fisica e sgomento intellettuale per l’atroce ed ingiustificato trattamento riservano ai detenuti, ma è anche un film sulla resistenza di fronte ai soprusi del potere e sulla volontà di poter cambiare le cose anche sacrificando la propria vita.
McQueen non lascia niente al caso; la sua ossessione per i particolari, anche i più macabri e disturbanti, accentuano il sentimento di turbamento e sgomento e lo struggente e lungo deterioramento fisico e psicologico del protagonista colpisce al cuore, smuove le viscere; non ci lascia seduti sul divano ad osservare, ma ci rende partecipi di un lento morire, testimoni di una scelta di morte e di vita.

Io credo in qualcosa e, in tutta la sua semplicità, è la cosa più potente

Serve una rivoluzione, servono i soldati politici e culturali per dare una scossa alla vita


Un scelta lontana da ogni forma di disillusione, ma piena di speranza e consapevolezza. Una scelta di vita. Morire per un ideale e rinascere nelle coscienze altrui.

Valeria
Ecco il trailer!

giovedì 16 giugno 2011

Park Chan-wook - I'm a Cyborg, But That's Ok!


Dopo aver visto la trilogia della vendetta (in particolar modo il secondo e il terzo: “Old Boy” e “Sympathy for Lady Vengeance”) viene da aspettare il momento giusto per vedere un altro film di Park Chan-Wook. La violenza, sia delle immagini che dei concetti, di quei film è stata come un pugno nello stomaco, durata per un bel paio d’ore.
Questo lavoro, uscito a solo un anno di distanza da Lady Vengeance, non manca di scene intense allo stile Chan-wookiano, ma trasmette anche una tenerezza incredibile, capace anche di fare inumidire un po’ gli occhi.
Il film è ambientato quasi per intero all’interno di una clinica psichiatrica. La protagonista, Young-goon è convinta di essere un cyborg. Parla con la radio, coi neon, coi distributori automatici ed è debolissima in quanto è convinta che mangiare potrebbe danneggiare il suo sistema cibernetico. Si nutre solo leccando delle pile, che, a modo suo, la ricaricano di energia.
 Il-sun, un paziente che ruba tutto (incluso anima e comportamento altrui) perché è convinto che se non lo facesse potrebbe scomparire, si affeziona a lei e riesce ad aiutarla molto più di quanto ne siano capaci i medici.
Intubata e costretta a mangiare a forza a causa delle sue degeneranti condizioni, Young-goon viene salvata da questo ragazzo, che le dice di aver inventato un convertitore cibo in energia elettrica. Solo così lei si convince a mangiare. (Bellissima la scena in cui lui finge di installargli il dispositivo nella schiena)
Una storia d’amore tra due malati mentali trattata con grandissima cura. Il regista riesce ad approfondire le cause della malattia mentale di lei, radicata nel suo rapporto con la nonna, convinta di essere un topo.
Durante tutto il film, la nonna ha un ruolo primario. Spesso appare a Young-goon dicendole “lo scopo della tua esistenza è…” e non completa mai la frase, fino alla fine del film.
Anche il ruolo degli altri malati mentali è curatissimo, da una donna che inventa storie per sostituire i ricordi cancellati dalle sedute di elettroshock, alla paziente convinta di aver inventato delle calze volanti, a un altro che è divorato dal senso di colpa e chiede scusa in continuazione a tutti, etc..
Un film che vale assolutamente la pena vedere. Park Chan-Wook non delude.
Non vedo l’ora di vedere il suo ultimo “Thirst”, uscito nel 2009.
Robin

martedì 14 giugno 2011

Stalker - Andrej Tarkovskij


Non so ormai quante volte ho visto questo film. Almeno tre da solo e svariate per farlo conoscere ad amici e/o conoscenti. Ogni volta c’è sempre qualche dettaglio in più, ogni volta, per ore dalla fine del film continuo a pensarci.
In un presente/futuro è accaduto qualcosa di imprecisato, forse la caduta di un meteorite, che ha dato vita alla “Zona”, un luogo dove non regnano le leggi fisiche della Terra, dove tutto è completamente e assolutamente ignoto.
Gli Stalker sono le guide, gli unici a sapersi come muovere. Lo sono per vocazione, non per scelta.
Uno scrittore e uno scienziato ingaggiano uno Stalker per farsi condurre nella Zona.
Il film è il viaggio catartico dei tre all’interno di questo mondo, presentato come una palude abbandonata a se stessa, con vecchi rottami sparsi, comunque apparentemente innocuo. Lo Stalker invece mette in guardia: “nella Zona niente è come sembra, dovunque può esserci una trappola. Non bisogna mai prendere una strada diretta, non si deve mai tornare indietro dalla stessa strada. Tutto qui cambia continuamente!”
Il dettaglio che rende la Zona estremamente interessante è che si vocifera che al suo interna vi sia una stanza dove si realizzano i desideri più profondi di chi vi entra.
Piano piano, impariamo a conoscere a fondo i tre personaggi e la loro visione della vita, completamente diversa l'una dall'altra così come i motivi del loro interesse nei confronti della Zona.
Straordinaria è la storia del “Porcospino”, maestro dello Stalker protagonista e  personaggio che compare solo dai racconti del protagonista. Durante un suo viaggio, il Porcospino perse il fratello nel Tritacarne (il passaggio più pericoloso della Zona) ed entrò nella stanza chiedendo di riportare in vita il fratello. Ma la stanza non avvera i desideri che vengono esauditi consciamente, bensì quelli più profondi, più sofferti “Ciò che rappresenta la tua essenza, che porti dentro di te anche se non ne sei cosciente e che ti domina sempre”. Tornato a casa, il Porcospino fu sommerso da un’immensa ricchezza, e resosi conto che per lui era più importante il lusso della vita del fratello, si impiccò.
Nessuno, nel film, entrerà nella stanza, forse spaventati dalla storia del Porcospino, forse spaventati dal realizzare che ciò che bramano di più possa essere una sciocchezza, o qualcosa di meschino, o forse semplicemente per NON realizzare ciò che più bramano, ed avere un qualche motivo di vivere. E' uno dei tanti, anche troppi, spunti di riflessione che il film offre; i discorsi e il continuo confronto tra il professore e lo scrittore, le regole e le peculiarità della Zona, simbolo dell’animo umano, la complessità emotiva e personale dello Stalker, le poesie che vengono lette durante lo scorrere di particolari immagini.

Scrivere poche righe su questo film è difficile, e difficile è anche non andarsi a perdere scrivendo più a lungo.
Ci vorrebbe uno studio approfondito e calmo per poterne scrivere come si deve, qui mi limito solo a condividere la gioia di chi l’ha visto e di stuzzicare la curiosità di chi ancora non ha vissuto quest’esperienza.
Dico esperienza perché Stalker non è solo un film, ma sul serio un’esperienza, almeno così è stato per me. Riesce ad andare oltre la bellezza cinematografica che possiamo trovare in molti film, ha qualcosa di unico.

Lo Stalker descrive la Zona   (scusate, il doppiaggio italiano appiattisce un po', ma non ho trovato la versione sottotitolata su youtube)

Robin

lunedì 13 giugno 2011

Des hommes et des dieux (Uomini di Dio) - Xavier Beauvois


Rievocando l’agghiacciante strage di sette monaci cistercensi avvenuta nel marzo del 1996 ad opera di un gruppo terroristico islamico, la Jihad (e non si esclude il coinvolgimento delle forze armate algerine), Beauvois  costruisce un’opera stilisticamente asciutta e piatta, atta a raccontare, senza retorica ed inutili ornamenti formali, le giornate di lavoro e preghiera di questa comunità di monaci francesi, ormai perfettamente integrata alla cultura musulmana locale; un equilibro pronto ad essere scosso da una serie di attacchi terroristici di chiara matrice islamica. E’ qui che le pretese del regista (comunque abbastanza biasimabili) cominciano ad essere sempre più concrete e definite. Il film, infatti, poggiando su basi di natura filosofica, religiosa e morale, mostra la comunità di monaci divisa tra il desiderio di autoconservazione individuale e la volontà di aiutare il popolo algerino in difficoltà; non ci troviamo di fronte a martiri, o presunti tali, ma di fronte a uomini con le loro debolezze, le loro paure, le loro credenze ed il bisogno di dare un senso alla loro missione. Beauvois non cade mai nel tranello dell’agiografia, bensì, oscillando squisitamente tra sacro e profano, traccia le memorie di uomini lontani dall’ideale divino, ma bisognosi del loro Dio per affrontare paure e angosce. Interessante a questo proposito è la scelta di alternare alle suggestive ore di preghiera e di lavoro il privato dei nostri protagonisti. Inoltre il titolo italiano non aiuta a comprendere la doppia anima del film che ha come obiettivo la chiara separazione tra il divino ed il terreno (les hommes-gli uomini et les dieux-gli dei) e la volontà di mettere a confronto il Dio cristiano e quello islamico (dieux).
Il film, insomma, ci pone delle domande alla quali nemmeno i saggi monaci sanno dare delle risposte plausibili e soddisfacenti: “morire qui adesso è utile?” “ si diventa martiri per cosa?”.
La loro morte, però, non avrà un sapore diverso rispetto ad altri insensati eccidi, anzi cadrà nel baratro dell’oblio.


"I fiori del campo non cambiano posto per ricercare i raggi del sole"
E’ questo lo spirito dei nostri piccoli monaci.

Lottare per ciò in cui si crede non ha niente di eroico e divino, è semplicemente umano; proprio perché la sua natura è umana le ripercussioni potrebbero essere gravi e lancinanti.

Ecco il trailer :)




Valeria

sabato 11 giugno 2011

Hayao Miyazaki - Porco rosso


Pensare di avere a portata di mano i film di Miyazaki è un antidoto contro i brutti pensieri e i momenti tristi. Come mi succede per i film di  Ozu, cominciare a perdermi nelle sue immagini equivale a respirare aria fresca e riprendermi un po’ d’umanità. Non è sicuramente semplice dire quale sia il suo film più bello, per me ognuno di essi rappresenta lo stesso capitolo di un libro che parla di sogni, di tenerezza e di forza interiore.
“Porco rosso” è un film del 1992 ma soltanto nel novembre del 2010 è stato distribuito in Italia. Per fortuna dopo il successo de “La città incantata” i distributori hanno pensato di recuperare i suoi titoli precedenti per farli conoscere al nostro paese e dobbiamo ammettere che mai scelta fu più azzeccata. Il porco rosso del titolo è Marco Pagot, pilota dell’aviazione italiana degli anni Venti trasformato, da un misterioso sortilegio, in maiale. Abbandonata l’aeronautica per non doversi sottomettere al fascismo, si ritira sulla costa dalmata dove si guadagna da vivere facendo il cacciatore di taglie contro i pirati dell’aria a bordo del suo aereo tutto rosso. Tra omaggi più o meno palesi a ciò che Miyazaki ama (il nome di Pagot è un omaggio ai fratelli Pagot famosi fumettisti italiani) e disegni di incredibile fascino, la poetica di Miyazaki si srotola sulla pellicola con la consueta maestria. L’amore per la bella Gina che non riesce più a corteggiare a causa del suo aspetto, il dolore per essere rimasto l’unico sopravvissuto della sua squadra in una battaglia sui cieli durante il primo conflitto mondiale (quanto di orientale in questo aspetto…) e poi la sua critica al fascismo, “meglio porco che fascista…” dirà a un vecchio compagno di volo che vuole convincerlo a tornare in aeronautica…
Come sempre Miyazaki fa film per tutti, per grandi e per bambini, fa sognare, fa riflettere, fa volare a bordo di un aereo tutto rosso fino ai magnifici titoli di coda dove Miyazaki ci regala dei disegni straordinari accompagnati dalle bellissime note di Tokiko Kato.   

Sergio
Titoli di coda

giovedì 9 giugno 2011

Giorgio Diritti - L'uomo che verrà

Un pensiero di Giorgio Diritti mi era rimasto particolarmente impresso nella memoria ancora prima di vedere il suo secondo film. Diritti si immaginava la reazione di un padre che, accompagnando il figlio a scuola, scopriva, nello spiazzo antistante l’ingresso, due eserciti che si facevano la guerra e, in questo modo genitore e figlio entravano in un mondo di dolore di cui non avevano nessuna conoscenza.
“L’uomo che verrà”, dopo il bellissimo “Il vento fa il suo giro”, non è solamente un film sugli eventi che precedettero una delle pagine più violente e agghiaccianti della seconda guerra mondiale, quella strage di Marzabotto che portò all’uccisione di quasi ottocento persone (in gran parte donne e bambini) per mano dei nazisti che avevano l’esigenza di bonificare il territorio da presenze partigiane… La pellicola,  come tutti i capolavori ha un respiro talmente universale da diventare facilmente comprensibile al pubblico più diverso e lontano, sia geograficamente che storicamente. Per fare questo Diritti ci restituisce l’ambiente sociale e familiare di quel tempo con una tale veridicità da permetterci di comprendere in maniera quasi magica quel mondo. L’uso del dialetto bolognese (come fu per la lingua occitana nel precedente film) invece che distanziarci dalla visione ci avvicina in modo decisivo. Anche la scelta di farci vedere tutto attraverso gli occhi di Martina, una bambina di otto anni, diventa essenziale per comprendere lo stupore di fronte a un mondo che sembra non voler conservare più niente di umano. In fondo come provare a spiegare ciò che non è possibile fare? Si prova a rimanere umani di fronte a ogni tragedia e questo prova a fare Martina che, anche di fronte al crollare degli eventi, ha il solo pensiero di sopravvivere e di dare una speranza al fratellino appena nato (l’uomo che verrà del titolo).
Quello di Diritti è un cinema che rimarrà negli anni e che spero possa  essere visto da un gran numero di persone perché ci aiuta a trovare la forza, quella di Martina, quella di tutti i sopravvissuti a tragedie immani e che trovano ancora la forza di cantare una nenia a un bambino tenuto in braccio in un lungo viaggio al termine della notte.
Sergio
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mercoledì 8 giugno 2011

Yoji Yamada - Il crepuscolo del samurai

Dopo avere visto “Il crepuscolo del samurai” (2002) di Yoji Yamada ho finalmente riscoperto come il cinema giapponese possa avere ancora qualcosa da insegnare sulla capacità di dare un’impronta universale a delle storie fortemente tipizzate e che, solo all’apparenza, parlano di un mondo e di costumi lontani anni luce da noi. Mi succedeva spesso con i film di Yasujiro Ozu di calarmi nelle realtà sociali del Giappone del dopoguerra pur conoscendo poco di quel mondo. Un grande artista è probabilmente chi riesce a compiere questa magia, darti un posto nel suo mondo e farti muovere al suo interno come se in quella realtà tu ci fossi sempre stato.
Il film di Yamada parla di samurai, ma in maniera diversa rispetto a come ci aspetteremo da un regista giapponese. Forse abituati ai personaggi grandiosi di Akira Kurosawa ci sentiamo un po’ spiazzati all’inizio davanti a questo samurai, rimasto vedovo, che non può fare tardi la sera per accudire le sue due bambine e la vecchia madre malata. Che fa leggere Confucio alle figlie perché “per quanto possa cambiare il mondo, se tu hai la capacità di pensare riuscirai sempre a sopravvivere in qualche modo”. E’ un samurai di basso rango preso in giro dagli altri compagni che lo chiamano “signor crepuscolo” ma è pieno di una umanità e di un senso dell’onore che lo rendono più nobile e, nel momento della prova, più forte degli altri samurai. Gli eventi sociali si susseguono incessanti durante questo film, guerre, scontri tra dinastie e combattimenti inevitabili ma Seibei Iguchi (il nostro samurai) li affronta sempre non perdendo di vista il suo obiettivo principale: dare un futuro alle due bambine.
Un film prezioso questo di Yamada, necessario mi verrebbe da dire per la sincerità e la dolcezza che trasmette. Perché il cinema quando è arte riesce a darti quella forza di cui tutti abbiamo bisogno nella nostra vita.

Sergio
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martedì 7 giugno 2011

Never let me go - Mark Romanek

Una breve riflessione su un piccolo gioiellino che ho visto tempo fa :)

La profondità e l'eleganza con cui Romanek mette in scena questo intenso dramma non possono lasciare indifferenti e non possono non scuotere gli animi ed indurre ad un'accurata riflessione sul genere umano.
Realizzando un quasi onirico ed affascinate affresco, very british, su questo controverso triangolo di amore ed amicizia, il regista americano si abbandona con estrema sincerità ad un poetico inno all'Umanità; in un universo ormai dominato ed oppresso dell'aridità umana, questi piccoli esseri viventi con i loro sogni, le aspirazioni, le loro speranze, ma anche con le loro paure, sconfitte e sofferenze, rappresentano quelle oasi necessarie per la rinascita di una specie, ormai regredita a semplice merce per il progresso della scienza.
La narrazione procede su due piani, che non sono del tutto equilibrati: quello prettamente umano, che mette in scena, senza retorica e finto buonismo, le anime di questi personaggi, le stesse anime continuamente scrutate e spiate dei responsabili del collegio mediante i disegni realizzati dai piccoli orfani; così l'Arte costituisce quell'unico scrigno in grado di conservare gelosamente il mondo interiore umano. Il secondo piano, invece, procede con grande rigore scientifico, attento a rappresentare gli studenti come robots antropomorfizzati, o come ignari sacrifici umani, "modellati" con il solo obiettivo di far progredire le scienze umane. Ci troviamo davanti a cloni destinati a ricongiungersi al loro Originale con quale potranno finalmente completare.
I due piani appaiono volutamente squilibrati proprio perchè Romanek è interessato a mettere in scena individui già completi ed originali, nonostante le loro paure e i loro dubbi riguardo all'approccio al contesto sociale, chiamati a fare i conti con i due più grandi pilastri dell'Umanità: Amore e Morte

Valeria

Goran Dukić - "Wristcutters - A love story"


Primo, e finora unico, lungometraggio di un autore croato emigrato negli Stati Uniti.
Dopo la piacevole visione di Ogni cosa è illuminata mi sono messo a cercare le altre collaborazioni cinematografiche di Eugene Hutz, cantante dei Gogol Bordello. Ho scoperto questo titolo, per il quale la band gypsy punk ha fatto la colonna sonora, con la canzone Through the roof 'n' Underground.
La storia è quella di Zia, un ragazzo che dopo una delusione d’amore si è tolto la vita tagliandosi le vene. Compiuto il fatale gesto, finisce in un aldilà particolare, popolato solo da persone che sono morte per suicidio. Il posto è triste e deserto, tutti sono sgarbati, nessuno sorride, mai.
Una sera, in un bar, Zia incontra Eugene, ex musicista rock di origine russa che si è suicidato versando della birra sulla chitarra elettrica durante un concerto, vantando il gesto commentandolo “it was wild!”. Questo Eugene pare esser l’unico, nell’aldilà, a “vivere” con la famiglia: mamma, papà e fratello più piccolo. Tutti si sono suicidati e tutti, quindi, si sono ritrovati.
Zia impazzisce quando scopre che anche Desiree, la ragazza per cui si era tagliato le vene, si è uccisa e si trova in quel posto! Convince l’amico ad accompagnarlo, e parte alla ricerca. Durante il viaggio incontrano Mikal, una ragazza che sta cercando “quelli che comandano” perché sostiene di essere finita lì per sbaglio e vuole tornare indietro.
Fra tante piccole cose, piccoli insignificanti “miracoli” che accadono solo quando non gli si dà importanza, nasce un amore tra Zia e Mikal. Un amore strano, senza sorrisi, ma comunque capace di rendere piacevole, a modo suo, perfino un posto orribile come quello.



Una bellissima partecipazione quella di Tom Waits nei panni di Kneller, un personaggio misterioso alla ricerca del proprio cane. Appare a circa metà film, candidamente sdraiato in mezzo alla strada a riposarsi, stanco delle ricerche. (A seguito di quest’incontro il personaggio avrà risvolti ben più interessanti che non sto a svelare)

Un film bello sia nell’insieme che nei piccoli dettagli, che lascia una piacevole sensazione di pienezza e, paradossalmente rispetto al tema trattato, di positività.


Buona notte a tutti. :-)
Robin   

venerdì 3 giugno 2011

Pippo Delbono - "La Menzogna"


Si è aperta il 21 Ottobre negli spazi delle ex fonderie Limone di Moncalieri la nuova stagione del Teatro Stabile di Torino, con uno spettacolo che proprio da un evento legato ad una fabbrica muove i suoi primi passi: l'incendio divampato quasi un anno fa alla Thyssen Krupp, che fu causa della morte di sette operai.
Pippo Delbono ci presenta la fabbrica come un luogo in cui non ci si incontra più: vi sfilano in silenzio gli operai percorrendone gli ambienti spogli e squallidi. Indossano le loro tute con la lentezza di un rito che separa nettamente il tempo del lavoro da quello della vita. Nei gesti di Pepe Robledo, che ripone la sua tuta per vestire con cura un abito pregiato solo in occasione della propria morte, c'è forse tutta la follia umana, la follia dei nostri tempi, del lavorare per potersi permettere di morire. Da qui parte Delbono per guidarci nella ricerca di un senso del dolore e del vivere.

Cos'è che proviamo davanti allo spettacolo delle morti sconosciute? Quale la differenza tra le morti su cui i media puntano i riflettori e quelle tante invece in ombra, di cui non sappiamo nulla? La nostra incapacità di provare dolore ci mette a disagio e la pena che invece ostentiamo racchiude forse la nostra paura dell'ignoto, di ciò che non possiamo controllare, capire. "La separazione è tutto ciò che ci basta sapere dell'inferno" citava già Delbono in un altro suo spettacolo, Questo buio feroce. Con la stessa forza ora il regista scende di nuovo nelle viscere dell'umanità per mostrarne con lucido sguardo il suo volto spietato, ferino, grottesco. In quello che sembra un carosello degli orrori si muovono tutti i personaggi della nostra società a cui Delbono toglie ogni patina di menzogna, mostrandoceli in tutta la loro reale mostruosità. Latrano, ringhiano e abbaiano come cani famelici, sono pedine di una partita già persa, personaggi di un mondo senza speranza, malato alle radici. Anche la bellezza, quando c'è, quando compare all'improvviso come un'epifania, nella danza di Gianluca vestito di perle, è spesso fraintesa, svilita, guardata con cinismo, con ghigno stupido e trasformata in crudele siparietto da varietà.

E' l'altro lato della medaglia e fa paura, anche nella finzione del teatro. Fa scorrere un brivido lungo le schiene degli spettatori la risata atroce di Delbono dietro la grata metallica, così come la violenza che si prepara e il senso di solitudine e di smarrimento che la segue.

Una netta frattura c'è anche tra la realtà e la sua immagine, soprattutto quella confezionata dai media: agghiacciante e stridente il contrasto tra lo spot della Thyssen, girato con quella strategia del sorriso di cui tanta politica è intrisa, e la testimonianza video di padre Alex Zanotelli sulla camorra. La camorra è diventata nel gergo nalpoletano "'o sistema", a testimonianza di quanto il crimine si sia innalzato a regola, sia diventato appunto un sistema che, in quanto tale, è pervasivo, capillare, dai vertici al basso tutto ne è contaminato.

Intanto cresce, si gonfia enormemente una violenza sotterranea e repressa, che ha perso di vista la sua vera origine e che ci fa incendiare alla prima, sia pur piccola, miccia. Quella miccia che all'inizio dello spettacolo era quella dell'incendio in una fabbrica, si è rivelata solo la punta di un iceberg immenso, di cui si sconoscono i confini e in cui ci si sente persi.

La menzogna della Thyssen, quella della società intera e, infine, quella più pesante e più grave di tutte: quella che ci portiamo da sempre dentro.
Per fortuna alla fine arriva Bobò, col peso di cinquant'anni vissuti in manicomio portati con la disinvoltura, ma anche la lucidità, di chi adesso è libero. Con i suoi gesti, i suoi sguardi, la sua presenza magica, sembra raccontarci di un mondo altro da questo, più pulito, sincero, non per questo meno reale o esente dal dolore. Delbono si lascia prendere per mano da Bobò per compiere i primi passi che possono rendere forse questo cambiamento possibile, spogliandosi dell'intima menzogna e manifestando la sua vitale volontà di andare oltre.

Un lunghissimo e partecipato applauso ha accolto la prima assoluta di questo nuovo spettacolo, che da Torino si sposterà poi a Roma, Lisbona, Bucarest, confermando la grandezza di Pippo Delbono, che continua a fare del teatro un mezzo per affermare con forza la sua necessità di agire nella vita. E' un teatro che si riallaccia fortemente all'essenza e agli obiettivi del living theatre e a Brecht, che vuole trovare un'alternativa di linguaggio, nell'intento di riallacciarsi a una realtà da cui tanto teatro si è invece allontanato, chiudendosi in salotti borghesi riservati a pochi addetti ai lavori. Si potrebbe obiettare dicendo che anche quello di Delbono è un teatro difficile, anch'esso lontano da quella dimensione popolare che si prefiggeva Brecht, per la sua struttura poco narrativa dietro la quale sembrano nascondersi tanti simboli da decodificare, tante citazioni da rintracciare. Ma, al di là di questo, c'è prorompente la forza di uno spettacolo vivo, che punta con mezzi nuovi a coinvolgere lo spettatore emotivamente, toccando delle corde molto più profonde di quelle rintracciabili da un'attenta analisi della forma e dei contenuti. Le immagini, così come i gesti, le parole, i tempi scanditi con quella precisione che ne fa dei segni importanti, si imprimono con forza tale da non richiedere nemmeno un immediato sforzo di comprensione, di decodifica del significato. Come la pittura di Bacon, l'arte grandissima di Delbono colpisce direttamente allo stomaco, si fa sberleffo di tanta arte che dorme cullata dalla sua stessa autoreferenzialità e spezza quella linea di frattura che c'è tra attori e pubblico e graffia e punge e fa piangere, ridere, urlare, e toglie il fiato ancora prima di riuscire a spiegarsi il perché.
Gabry (23/10/2009)

Ascanio Celestini - "Vita, morte e miracoli"



Ho visto in dvd Vita, morte e miracoli di Ascanio Celestini... confermo quanto ho detto di lui fino ad ora, mi piace tantissimo, spero di vederlo a teatro prima o poi.
La storia che racconta è anche stavolta ambientata a Roma e dintorni negli ultimi anni della guerra, ma il guardare al passato di Celestini è sempre funzionale al presente, mai vuota o estetica evocazione nostalgica. Mi ricordo quando in una intervista gli è stato chiesto di rispondere della sua "fissazione per la memoria" e lui rispose in un modo semplice, come è solito fare, ma ricco e inequivocabile: La memoria mi serve nel presente. Se ad esempio non ricordo dove ho messo le chiavi non potrò entrare a casa.
La scena è quasi vuota, solo un cerchio di lampadine a terra e un trespolo che sembra un ramo da cui pende una lampadina. "Uno spettacolo che si può portare in giro anche in motorino" dice Ascanio, "sta tutto in una valigetta o in uno zaino". Eppure quel cerchio di lampadine è già tutto, è lo spazio del racconto, ma anche cerchio sacrale del rito, spazio magico dal quale parlano anche i fantasmi. I personaggi che Ascanio racconta prendono vita grazie allo spettatore che, sulla scia di una parola che incanta, li immagina, li rende vivi riempiendo così quel vuoto fisico. Gli eventi storici si mescolano alla fantasia popolare, si trasformano, così come si trasformano i racconti quando passano di bocca in bocca, senza essere trascritti. E tutto è vero nello stesso modo. Il bombardamento del 19 Luglio a San Lorenzo, come la pancia di Mariona, piena di tutti gli oggetti della casa che non ha più, che ha venduto per cercare di sfamare i suoi tre figli. C'è tutto: vita, morte e miracoli. Storia, credenze popolari, sogno, fantasia, riso e dolore, ...perché l'umanità è così complessa proprio perché umana, che nessuna cosa può davvero escludere l'altra. Ascanio parla velocissimo e io lo ascolterei per ore... sembra che parli seguendo uno schema circolare anziché dritto, racconta come chi non sa leggere e scrivere, ci riporta all'oralità. Anche questo spettacolo, come la maggior parte degli altri credo, non ha testo scritto, non è recitato a memoria. "Se ti chiedessero di descrivere casa tua", dice Ascanio, "lo faresti sempre più o meno nello stesso modo, ma non perché vuoi farlo di proposito, semplicemente perché casa tua è sempre la stessa. Ed io padroneggio questo racconto meglio delle vacanze che ho fatto quest'estate al mare". Dentro quel cerchio, nella magia rituale del teatro, quello che non c'è e non è nemmeno scritto è vivo al punto di essere quasi indipendente da chi lo racconta. E' vivo non perché è oggetto, ma grazie alla magia che mette in sintonia chi racconta e chi immagina e vede. E tutto il mondo è paro...
Gabry




Ascanio Celestini – “Scemo di guerra”



Purtroppo non ho ancora avuto occasione di vederlo a teatro, ho dovuto accontentarmi del dvd. Scemo di Guerra di Ascanio Celestini è uno spettacolo che sembra un diario, un diario orale. Mi ha fatto commuovere e pensare ai racconti di guerra di mio nonno, così estranei ed incomprensibili ad una me bambina. Storie lontane, di cui la storia ci da un'immagine troppo fredda per essere compresa. Invece quando Celestini parla sembra di sentire gli odori, di vedere posti scomparsi, di immergersi in un tempo a metà tra la storia e il mito. La storia si trasforma in favola e la favola sembra più vera della storia. Recupera la sua dimensione di vissuto anche attraverso l'immaginazione. Sembra una contraddizione...
Celestini opera all'opposto della storiografia, non parte cioè dall'evento, ma dal racconto che sta attorno a quell'evento. E' un racconto rubato a qualcuno che poi diventa bagaglio di tutti. La sua tecnica recupera dall'oralità quelle strutture formulaiche del racconto che, dall'avvento della scrittura, sono andate scomparendo. Nell'oralità la parola era potente ed agiva sulle cose e sulle persone (gli studi di antropologia mi dicono infatti dell'importanza nella parola nei riti magici...). Le parole di Celestini sono magiche, perché agiscono fisicamente su chi le ascolta: arrivano e colpiscono e trasformano e divertono e commuovono... e ci riportano a quel calderone di memoria collettiva arricchito di fantasia da cui provengono e su cui il nostro imaginario e la nostra identità si sono strutturati. 

"La memoria è letteratura. E' la letteratura che racconta la storia degli esseri umani. La loro vita" A. C.

Gabry

giovedì 2 giugno 2011

Pablo Larrain - Tony Manero


Ossessione deviante e bisogno viscerale di affermare le proprie aspirazioni, sebbene queste siano giustificate e supportate dal malato desiderio di essere riconosciuto come qualcun altro; è da qui che bisogna partire per fare un’attenta analisi del “Tony Manero” di Larraìn, un cupo ed ambiguo aspirante ballerino pronto ad uccidere a sangue freddo chiunque ostacoli il suo sogno di gloria. In realtà questo film è tante cose e non lascia niente al caso. Ci mostra, innanzitutto, come la cultura nord-americana abbiamo squarciato e violentato, con conseguenze sicuramente non irrilevanti, anche la cultura sud americana, ormai dedita al culto dell’immagine e del successo e al bisogno animalesco dell’ autoaffermazione individuale. Larraìn, però, ci mostra gli aspetti più cupi ed agghiaccianti dei questo pseudo mito, seguendo morbosamente, in ogni suo pazzoide dettaglio, il gelido piano del suo protagonista, che pedina ossessivamente in ogni inquadratura. 
Da ogni immagine, costruita sempre con minuziosa cura, traspare, in maniera quasi tangibile, il vuoto morale e il regime di paura e terrore in cui i protagonisti sono costretti a vivere, abbandonati al loro destino come animali da macello.
Ogni inquadratura, infatti, arriva dritta alla pancia, lasciandosi addosso sporcizia ed orrore, così come ogni sguardo e ogni gesto del Tony Manero cileno, con il suo volto scavato, il suo sguardo perso nel vuoto, eppure alla continua ricerca di una soddisfazione personale, e la sua andatura dondolante. Un mostro, apparentemente innocuo, rabbioso e voglioso di apprezzamento e consenso fino ad esplodere in un’ira incontenibile.
E’ chiaro come questo film sia un attacco implicito al regime dittatoriale di Pinochet, alla sua amoralità, alla sua mancanza di valori guida, sostituiti da crimini efferati, dimenticati ed insabbiati come ormai la dignità umana. Ed è per questo che dietro la figura di Tony Manero io vedo proprio Pinochet, il suo democidio e la sua voglia di stare sul palcoscenico accompagnato dagli applausi dei suoi fans.


Valeria


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