Quando circa quindici anni fa mi ritrovai fianco a fianco con Ken Loach durante uno sciopero organizzato a Catania tra i lavoratori portuali di Catania e quelli di Liverpool (decisamente altri tempi…), mi sentivo quasi intimorito nello stare vicino a uno dei registi che più amavo. Avrei voluto mettermi a parlare con lui di cinema e vita ma la mia scarsa dimestichezza con l’inglese me lo proibiva. Non trovai niente di meglio da fare che rivolgergli dei dovuti complimenti e scambiare poche frasi di cortesia (accompagnate però da preziose dediche che mi fece su delle monografie a lui dedicate che mi ero portato dietro). L’atmosfera era festosa pur nella rabbia per tanti lavoratori che rischiavano il posto di lavoro a causa dei primi vagiti del mondo globale. Quando un pallone fece misteriosamente capolino in mezzo ad operai e studenti italiani e inglesi, ebbi l’ennesima conferma che il calcio possiede una forza e una universalità così potente da abbattere qualsiasi barriera linguistica e sociale. Per qualche minuto tutti a scambiarci passaggi e improbabili virtuosismi tecnici inneggiando alle proprie squadre e ai propri campioni. Fu mentre Ken Loach sferrava un calcio al pallone che mi ritrovai a pensare che prima o poi un film sul calcio lo avrebbe fatto… Quando è uscito “Il mio amico Eric” si è finalmente avverata la mia previsione.
Presentato a Cannes e accompagnato da pareri quasi sempre positivi, questa pellicola è talmente impregnata della poetica di Loach da farne quasi un manifesto. L’amicizia, la solidarietà, la lotta contro i soprusi, un ottimismo inarrestabile che paradossalmente aumenta man mano che l’età avanza. Tutto il Loach che amo è dentro questo film con, in più, l’amore per il calcio. Il protagonista del film è Eric, postino di mezza età con tante scelte sbagliate alle spalle che lo hanno portato ad avere un’esistenza carica di rimpianti e una famiglia frantumata. Parla poco anche con i suoi amici con i quali divide pinte di birra e partite del Manchester United. Ma nel picco della sua malinconia un figura arriva nella sua stanza a parlare con lui e a farlo reagire. Questa figura è quella di Eric Cantona, grandissimo campione del Manchester degli anni Novanta. Uno di quei calciatori che fanno sognare i tifosi anche se stanno fermi in mezzo al campo ad aspettare che qualche divina ispirazione gli dica dove piazzare il pallone tra lo stupore di noi umani.
Saranno i suoi consigli a dargli la forza per riprendersi la sua vita, a ritrovare l’affetto della sua famiglia e a tirare fuori dai guai suo figlio cacciatosi in una brutta storia. I suoi dialoghi con Cantona, sulla vita, sul calcio, sull’amicizia, lo riporteranno ad avere di nuovo stima di sé stesso. Ma siccome nella vita non vali molto se non hai anche degli amici che ti stanno accanto e ti sostengono ecco che Eric organizza una grande spedizione di tre pullman di tifosi pronti ad aiutarlo per liberare il figlio da un ricatto subito dal boss della zona.
E’ un cinema che mi mette di buonumore quello di Loach, che mi aiuta a continuare ad avere fiducia negli altri e a guardare il calcio ancora come un gioco meraviglioso che unisce le persone invece che dividerle. Forse il senso sta tutto in una risposta che Cantona da ad Eric quando gli chiede quale sia stato il gol più bello che abbia realizzato. Non è stato un gol dirà Eric, ma un passaggio, un passaggio magico che permise ad un compagno appena entrato in campo di realizzare una rete che lo riportò a credere di nuovo in sé stesso. Che meraviglia quando il calcio ritorna ad essere poesia, come nei racconti di Osvaldo Soriano, nelle punizioni di Roberto Baggio o nelle pellicole di Ken Loach.
Presentato a Cannes e accompagnato da pareri quasi sempre positivi, questa pellicola è talmente impregnata della poetica di Loach da farne quasi un manifesto. L’amicizia, la solidarietà, la lotta contro i soprusi, un ottimismo inarrestabile che paradossalmente aumenta man mano che l’età avanza. Tutto il Loach che amo è dentro questo film con, in più, l’amore per il calcio. Il protagonista del film è Eric, postino di mezza età con tante scelte sbagliate alle spalle che lo hanno portato ad avere un’esistenza carica di rimpianti e una famiglia frantumata. Parla poco anche con i suoi amici con i quali divide pinte di birra e partite del Manchester United. Ma nel picco della sua malinconia un figura arriva nella sua stanza a parlare con lui e a farlo reagire. Questa figura è quella di Eric Cantona, grandissimo campione del Manchester degli anni Novanta. Uno di quei calciatori che fanno sognare i tifosi anche se stanno fermi in mezzo al campo ad aspettare che qualche divina ispirazione gli dica dove piazzare il pallone tra lo stupore di noi umani.
Saranno i suoi consigli a dargli la forza per riprendersi la sua vita, a ritrovare l’affetto della sua famiglia e a tirare fuori dai guai suo figlio cacciatosi in una brutta storia. I suoi dialoghi con Cantona, sulla vita, sul calcio, sull’amicizia, lo riporteranno ad avere di nuovo stima di sé stesso. Ma siccome nella vita non vali molto se non hai anche degli amici che ti stanno accanto e ti sostengono ecco che Eric organizza una grande spedizione di tre pullman di tifosi pronti ad aiutarlo per liberare il figlio da un ricatto subito dal boss della zona.
E’ un cinema che mi mette di buonumore quello di Loach, che mi aiuta a continuare ad avere fiducia negli altri e a guardare il calcio ancora come un gioco meraviglioso che unisce le persone invece che dividerle. Forse il senso sta tutto in una risposta che Cantona da ad Eric quando gli chiede quale sia stato il gol più bello che abbia realizzato. Non è stato un gol dirà Eric, ma un passaggio, un passaggio magico che permise ad un compagno appena entrato in campo di realizzare una rete che lo riportò a credere di nuovo in sé stesso. Che meraviglia quando il calcio ritorna ad essere poesia, come nei racconti di Osvaldo Soriano, nelle punizioni di Roberto Baggio o nelle pellicole di Ken Loach.
Sergio
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