giovedì 2 giugno 2011

Faith Akin - Ai confini del paradiso


Il cinema turco ha sempre suscitato in me un grande interesse. I motivi sono diversi, la scoperta delle opere di Yilmaz Güney quando, giovane appassionato di cinema, riuscì a rendermi conto di come sia possibile realizzare film che aiutano a vivere… ma anche la curiosità verso un paese in fondo geograficamente vicino ma culturalmente posto su una linea di demarcazione tra occidente e oriente che lo rende sicuramente un esempio unico di integrazione tra culture diverse.
Non è semplice vedere in giro film di autori turchi ma quando riesco a guardarli, sono poche le volte che rimango deluso. A parte il citato Güney mi piace ricordare Tevfik Baser (autore dei bellissimi Arrivederci straniera e 40mq di Germania) e Fatih Akin che, grazie ai diversi riconoscimenti ottenuti nei festival internazionali, ha sicuramente una maggiore visibilità anche nel nostro paese. Dopo avere visto La sposa turca del 2004, mi ero segnato questo nome e la recente visione de Ai confini del paradiso ha confermato tutte le aspettative verso questo autore nato ad Amburgo da genitori turchi che riesce in maniera straordinaria a regalarci un’opera profonda e preziosissima. Profonda per il modo in cui riesce a parlarci dei sei protagonisti del film (tra di loro una immensa Hanna Schygulla), tutti alla continua ricerca di un legame che possa giustificare il proprio senso alla vita quotidiana. Preziosa per come ci fa conoscere il rapporto tra due paesi, la Germania e la Turchia, legati in modo veramente unico con i suoi quasi tre milioni di cittadini turchi che vivono in terra tedesca.
Ai confini del Paradiso è un film che parla di molte realtà senza mai banalizzare nessun argomento. Parla dei rapporti tra padri e figli separati non solo da una componente anagrafica ma anche da quella geografica e culturale;  parla di due paesi, soprattutto la Turchia, restituendoci quel senso di disagio dettato da una condizione di eterno sdoppiamento tra il suo essere nella stessa misura Occidente e Oriente. Akin riesce a parlare di tutto questo attraverso le storie intrecciate dei suoi protagonisti, con infinita poesia e un pudore raro da vedere al cinema. Uno di quei film che ti fa venire voglia, come diceva il protagonista del giovane Holden di Salinger, di prendere il telefono per chiamare l’autore ringraziandolo di ciò che ti ha regalato e fare due chiacchiere con lui.
Sergio



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