E’ una bella sorpresa vedere un’opera prima di un regista
tedesco e trovarsi catapultato in piena atmosfera nouvelle vague anni Sessanta.
Oh Boy – Un caffè a Berlino di Jan
Ole Gerster del 2012 è uno di quei film
che, pur non facendoti gridare al capolavoro, riesce a dimostrare come si possa
fare cinema intelligente anche con un budget ridotto a patto di avere delle
idee di sceneggiatura di buon livello.
Una giornata nella vita di un ragazzo all’interno di una
Berlino non turistica tra incontri casuali e momenti di crescita. Niko è un
ragazzo di poco più di vent’anni, confuso sulle cose da fare come spesso solo a
quell’età riesci ad essere. Ha lasciato gli studi ma senza confessarlo al padre
(che continua a versargli l’assegno mensile), non riesce ad avere una vita
sentimentale seria e a chi gli chiede se ha un po’ di tempo risponde di avere
mille cose da fare. In realtà l’unica cosa che cerca di fare è prendere un
caffè ma qualcosa si mette sempre di traverso impedendogli il soddisfacimento
dell’unico desiderio reale che ha. I personaggi che Niko incontra sono a volte
drammatici a volte divertenti ma sembrano avere tutti un punto in comune: sono
troppo presi dalle loro esistenze per confrontarsi con lui che, di contro, non
ha tanta voglia di aprirsi con qualcuno. Ogni vita scivola via tra vecchi
ricordi diventati ossessioni, momenti di riflessione che non hanno mai fine e
gesti importanti che si rimandano sempre. Tutto è narrato con una leggerezza
davvero difficile trovare in un regista all’inizio (solitamente i giovani
autori fanno a gara nel rendere le loro storie pesantissime elucubrazioni sui
destini dell’umanità). Gerster segue la giornata di Niko con discrezione mentre
il ragazzo si lascia trasportare da un quartiere all’altro, ritrovando antiche
compagne di scuola o facendo amicizia con la nonna di uno spacciatore di droga.
Ma anche quando si scontrerà con il padre, che scopre l’abbandono degli studi
da parte del figlio, il tono narrativo
non cambia. Si parla di temi (anche) importanti con leggerezza e con un
sottofondo jazz che accompagna gradevolmente tutto il film.
Niko rispecchia una stagione della vita molto spessa
carica di incertezze, di dubbi, di pensieri un po’ folli ma con la certezza che
tanto ci sarà del tempo per ritornare sui propri passi. Il racconto di una
libertà data dalla non assunzione di responsabilità, anche questo è il fascino
dei vent’anni. E’ la libertà narrativa dell’autore diventa la diretta
conseguenza dei primi film dei registi della nouvelle vague, Niko è il fratello
minore dell’Antoine Doinel truffautiano ma anche del protagonista del Segno del leone di Rohmer o del Belmondo
godardiano di Fino all’ultimo respiro.
Un bell’esordio che speriamo non rimanga un caso isolato.
Sergio
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