Quando nel 1953 il film di Roberto Rossellini Viaggio in Italia fece la sua
apparizione, i giudizi furono quasi tutti negativi. Gli unici ad avere compreso
che dietro quella pellicola il cinema stava compiendo un passo enorme verso le
sue potenzialità massime, furono i ragazzi terribili che lavoravano alla
redazione dei Cahiers du cinéma. Giovani
critici che ancora non avevano realizzato film ma dopo qualche anno avrebbero
dato vita ad una nuova rinascita dell’arte cinematografica. I suoi nomi
sarebbero poi diventati familiari per ogni appassionato di cinema: François
Truffaut, Jean Luc Godard, Jacques Rivette. Quest’ultimo ebbe a scrivere “Con
l’apparizione di Viaggio in Italia tutti
i film sono improvvisamente invecchiati di dieci anni”.
Nel 1953 la breve e intensissima stagione neorealista era
ormai conclusa e Rossellini, assieme agli altri autori che resero grande il
cinema italiano, continuava il suo percorso artistico da una posizione
assolutamente personale che avrebbe definitivamente distanziato il suo cinema
da quello di Visconti o De Sica. Già con Stromboli, nel 1949, Rossellini era riuscito
a dare alla Bergman un ruolo magnifico esaltando quel dissidio esistente tra la
sua figura di donna straniera, algida e moderna, e l’interno di un panorama
culturale chiuso e soffocato come era l’isola eoliana. Il magnifico finale del
film quando la Bergman si lasciava rotolare lungo il declivio del vulcano
implorando un’unione mistica con l’assoluto è una delle immagini più forti che
il cinema rosselliniano ci abbia regalato. Viaggio
in Italia porta alla perfezione assoluta il discorso iniziato con Stromboli.
Una coppia di inglesi, benestanti e non più giovanissimi, si recano a Napoli
per risolvere una questione amministrativa. Il loro viaggio segnerà però la
messa a nudo del loro rapporto privato. Fuori dalle certezze date dal loro
ambiente di provenienza dove il lavoro e lo status sociale servono da corazza
all’analisi della propria intimità, l’arrivo in una Napoli distante e
incomprensibile, segna l’inizio di un percorso interiore che li porterà alla
separazione e poi, forse, ad un nuovo riavvicinamento. La Napoli di Rossellini,
come Stromboli di qualche anno prima, rappresenta il legame dell’uomo con la
terra, con tutto ciò che essa possiede di ancestrale e che ci lega al nostro io
più profondo e misterioso. Per condurci all’interno di questo mondo, Rossellini
ci guida attraverso i luoghi maggiormente carichi di tradizione del mondo
napoletano, dal cimitero delle Fontanelle all’antro della Sibilla Cumana, dalle
rovine di Pompei alle solfatare di Pozzuoli. Attraverso ognuna di queste tappe
il personaggio femminile, interpretato ancora una volta da un Ingrid Bergman
inarrivabile per bellezza e bravura, avverte sempre più l’angoscia data dall’avvicinamento
a quel mondo atavico mai conosciuto prima. Un grado nuovo di conoscenza, quasi
una scoperta antropologica quella nella quale Rossellini ci immerge. Alla fine
di questo viaggio, e proprio nel mezzo di una processione popolare, i protagonisti
non saranno più gli stessi di prima.
Il cinema come viaggio dentro l’anima dell’uomo per
scoprire quanto forte e devastante sia stato per l’essere umano il distacco
dalla terra, sia pure misteriosa e inconoscibile, per affidarsi alla sola
fredda ragione. Rossellini ci da i brividi che solo la grande arte riesce a
comunicarci quando ci mette di fronte all’infinito. Pensare che dopo qualche
tempo dalla realizzazione di questo film lo stesso autore partì per un lungo
viaggio verso l’India per un viaggio alle origini dell’uomo, ci fa comprendere
ancora di più quanto sincero fosse il percorso dell’autore italiano che ritornò
da quel viaggio trasformato sia dal punto di vista privato che artistico.
Il giorno che film come questi saranno proiettati
regolarmente nelle scuole, o alla televisione, potremmo avere qualche speranza
che il cinema italiano possa ritornare ad essere grande e a regalarci nuovi brividi
(e non solo quelli d’orrore che troppo spesso ci dona nel presente).
Sergio
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