Non so più se la colpa è mia che ad ogni nuovo film di
Sorrentino ripenso sempre a quel capolavoro de L’uomo in più ma ogni volta rimango sempre un po’ più deluso.
Se con Le
conseguenze dell’amore e L’amico di
famiglia ero ancora abbastanza fiducioso nelle capacità dell’autore
italiano, la visione del Divo e
adesso di This must be the place mi
preoccupano non poco. Sorrentino conferma (ed estremizza) ancora di più la sua
tendenza a fare cinema elegante nella forma ma di contro approfondisce poco lo
spessore dei personaggi (almeno per uno con le sue potenzialità…). Tra continue
carrellate su campi lunghi e battute troppo precise per essere sincere, provo
quella strano fastidio che si avverte quando senti privilegiare la forma
rispetto alla sostanza.
In questa storia di una rockstar di mezza età che si
muove (e parla) in maniera catatonica e che non canta più divorata da vecchi
sensi di colpa, sembra tutto programmaticamente scritto a tavolino. Per citare
il protagonista Cheyenne (Sean Penn come al solito bravissimo), “qualcosa
mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato…”. La
notizia della morte del padre, con cui non ha più rapporti da trent’anni, e il
viaggio che Cheyenne intraprende alla ricerca delle sue radici non è
propriamente qualcosa di mai visto al cinema. Manca quello scarto in più che
solo ti può dare la completa adesione sentimentale a un personaggio. Non ti
affezioni (e probabilmente neanche il regista lo fa) a nessuno in particolare e ti rimane dentro solo la scena in cui un ragazzino chiede a
Cheyenne di riprendere in mano la chitarra per accompagnarlo nell’esecuzione
del vecchio pezzo dei Talking heads che da il titolo al film. Unico momento di
poesia in un film che per il resto scorre via elegante ma con poca anima.
Da Sorrentino spero ancora di potermi attendere di più…
Sergio
concordo in pieno. I dialoghi fatti di frasi brevi ad effetto mi hanno dato proprio fastidio...
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