Il mio personale viaggio
attraverso il cinema iraniano di oggi e di ieri non conosce tregua, dopo
Kiarostami, Panahi e Fahradi (su cui non ho ancora scritto nulla) adesso tocca
al maestro Makhmalbaf. Il soggetto della pellicola è un avvenimento
autobiografico: l’aggressione a una guardia imperiale da parte dello stesso
regista all’età di 17 anni; la vicenda è però un pretesto per raccontare
qualcosa di più profondo e importante, la potenza e il potenziale del mezzo
cinematografico. Ecco perché Pane e Fiore è forse la pellicola che più si avvicina
al Kiarostami di Close up.
Il perfetto intreccio tra
finzione cinematografica e racconto reale rende la vicenda sospesa, in bilico
tra il virtuale e l’autentico; la mediazione della macchina da presa dona all’intero
evento colori nuovi e sfumature differenti, e allo stesso tempo dà alla
pellicola un ampio respiro internazionale.
Insomma una storia senza tempo e
senza confini capace di trasformare uno specifico evento in qualcosa di più
grande.
La trasformazione del fatto reale
in immagine cinematografica permette a Makhmalbaf di dare vita a una vicenda
completamente nuova, di modificare la propria giovinezza e quella della
guardia, e veicolare un nuovo messaggio. La potenza del cinema e dei suoi
collaboratori riesce così a ricreare un avvenimento ex novo e a dare agli
attori in scena nuove motivazioni e nuovi pretesti grazie ai quali muoversi e
agire. Makhmalbaf è un demiurgo perfetto e plasma i suoi “attori” con estrema
delicatezza ondeggiando egregiamente tra finzione e realtà, e creando allo
stesso tempo confusione e straniamento in chi guarda e si appassiona alla
vicenda.
Il regista iraniano tenta di
riscattarsi dall’errore giovanile donando all’intera vicenda un nuovo
significato; probabilmente la presenza della guardia all’interno del film basta
da sola a comprendere le reali intenzioni di Makhmalbaf. E in tal modo la scena
finale, che andrà inevitabilmente a sostituire l’evento reale, rappresenta la
seconda chance del cineasta persiano, il cinema gli consente di redimere sé
stesso e iniziare da capo.
Quello di Makhmalbaf è allo
stesso tempo un perfetto saggio sul cinema, così come lo era il Close up di
Kiarostami, una viaggio nella finzione spettacolare attraverso il simbolo della
finzione, ovvero la macchina da presa. Una messinscena che è però qualcosa di
più profondo, un mezzo di redenzione, uno strumento di educazione
cinematografica, una realtà parallela in grado di dare un senso all’esistenza, nonché
una dichiarazione d’amore. Sì, quelle di Mahkmalbalf e Kiarostami sono certamente
due intense lettere d’amore al cinema, alla sua forza e al suo potenziale. La
macchina da presa e lo schermo ricreano ex novo e quindi permettono di rievocare
o riprodurre qualsiasi evento.
In tal modo il regista iraniano
rivive una seconda giovinezza, questa volta in maniera differente, con maggior
consapevolezza e un animo diverso.
E' il caso di dire che Mahkmalbaf
ha trovato il modo di salvare l’umanità.
Valeria
Valeria
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