martedì 22 maggio 2012

Pane e Fiore - Mohsen Makhmalbaf

Il mio personale viaggio attraverso il cinema iraniano di oggi e di ieri non conosce tregua, dopo Kiarostami, Panahi e Fahradi (su cui non ho ancora scritto nulla) adesso tocca al maestro Makhmalbaf. Il soggetto della pellicola è un avvenimento autobiografico: l’aggressione a una guardia imperiale da parte dello stesso regista all’età di 17 anni; la vicenda è però un pretesto per raccontare qualcosa di più profondo e importante, la potenza e il potenziale del mezzo cinematografico. Ecco perché Pane e Fiore è forse la pellicola che più si avvicina al Kiarostami di Close up.
Il perfetto intreccio tra finzione cinematografica e racconto reale rende la vicenda sospesa, in bilico tra il virtuale e l’autentico; la mediazione della macchina da presa dona all’intero evento colori nuovi e sfumature differenti, e allo stesso tempo dà alla pellicola un ampio respiro internazionale.
Insomma una storia senza tempo e senza confini capace di trasformare uno specifico evento in qualcosa di più grande.
La trasformazione del fatto reale in immagine cinematografica permette a Makhmalbaf di dare vita a una vicenda completamente nuova, di modificare la propria giovinezza e quella della guardia, e veicolare un nuovo messaggio. La potenza del cinema e dei suoi collaboratori riesce così a ricreare un avvenimento ex novo e a dare agli attori in scena nuove motivazioni e nuovi pretesti grazie ai quali muoversi e agire. Makhmalbaf è un demiurgo perfetto e plasma i suoi “attori” con estrema delicatezza ondeggiando egregiamente tra finzione e realtà, e creando allo stesso tempo confusione e straniamento in chi guarda e si appassiona alla vicenda.
Il regista iraniano tenta di riscattarsi dall’errore giovanile donando all’intera vicenda un nuovo significato; probabilmente la presenza della guardia all’interno del film basta da sola a comprendere le reali intenzioni di Makhmalbaf. E in tal modo la scena finale, che andrà inevitabilmente a sostituire l’evento reale, rappresenta la seconda chance del cineasta persiano, il cinema gli consente di redimere sé stesso e iniziare da capo.
Quello di Makhmalbaf è allo stesso tempo un perfetto saggio sul cinema, così come lo era il Close up di Kiarostami, una viaggio nella finzione spettacolare attraverso il simbolo della finzione, ovvero la macchina da presa. Una messinscena che è però qualcosa di più profondo, un mezzo di redenzione, uno strumento di educazione cinematografica, una realtà parallela in grado di dare un senso all’esistenza, nonché una dichiarazione d’amore. Sì, quelle di Mahkmalbalf e Kiarostami sono certamente due intense lettere d’amore al cinema, alla sua forza e al suo potenziale. La macchina da presa e lo schermo ricreano ex novo e quindi permettono di rievocare o riprodurre  qualsiasi evento.
In tal modo il regista iraniano rivive una seconda giovinezza, questa volta in maniera differente, con maggior consapevolezza e un animo diverso.
E' il caso di dire che Mahkmalbaf ha trovato il modo di salvare l’umanità.
Valeria

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