Gus Van Sant è un regista discontinuo. Nel corso della
sua carriera è riuscito ad alternare titoli di alto livello (Malanoche, Elephant) ad altri trascurabili (Cowgirl o Da morire), ma
non si può certo dire che non sia un autore da tenere d’occhio. Vedo regolarmente
i suoi film e spesso prima di iniziare la visione non so niente della trama
(non mi succede con molti autori). Ho iniziato a guardare senza nessuna
aspettativa particolare il suo ultimo titolo Restless (L’amore che resta
nell’orrenda traduzione italiana) e devo dire che è stato meglio così perché probabilmente
la lettura della sinossi mi avrebbe fatto essere prevenuto nei confronti dell’opera.
Un film che parla di amore, di morte,di malattie… il rischio di cadere nel
patetico era così alto che sicuramente avrei spostato la visione a chissà quale
anno. Invece termina il film e ti senti con la voglia immediata di far
conoscere agli altri questa piccola perla.
Presentato allo scorso festival di Cannes (nella sezione
probabilmente più artistica, quella de Un
certain regard) e accolto da un’ottima critica, Restless ha avuto pochissima visibilità nelle nostre sale. La storia
è quella di due giovani adolescenti (età molto cara al regista), Enoch e
Annabel che si conoscono e si amano in un contesto non propriamente riconducibile
all’immaginario che siamo abituati a collegare ai sedicenni. Lui passa il tempo
a imbucarsi ai funerali, lei vive un presente carico di inquietudine a causa di
un brutto male. Restless in inglese sta per inquieto e l’inquietudine in questo
film entra nella vita di questi ragazzi che però decidono di affrontarla con la
leggerezza che purtroppo solo pochi riescono ad avere nei confronti dell’esistenza.
Come in una poesia di Keats, il rapporto tra i due ragazzi scorre leggero come
una piuma e la loro delicatezza ci insegna a vivere pienamente il nostro presente
qualunque siano le condizioni esterne. Gus Van Sant riesce a non cadere mai nel
patetico, rifuggendo tutte le situazioni da ricatto emotivo che si presentano e
lasciando spazio soltanto a una sottaciuta malinconia. Ma non a quella
malinconia che ti fa venir voglia di dimenticare il mondo ma di quella che ti
porta a maledire il tempo che passa perché non ti da modo di dire tutto quello
che hai dentro. Come dice Hiroshi, l’anima di un kamikaze giapponese unico amico e compagno di confidenze di Enoch “abbiamo così poco tempo per dire
le cose che vogliamo dire, abbiamo così poco tempo per tutto…”
Tra gli altri meriti del film una colonna sonora straordinaria:
titoli di testa sull’immensa Two of us
dei Beatles e poi la scoperta di un gruppo (Bon Iver) e un musicista (Sufjan
Stevens) che credo mi daranno parecchio da ascoltare nei prossimi giorni…
Sergio
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