giovedì 6 settembre 2012

Rafi Pitts - The hunter




L’evoluzione del cinema iraniano degli ultimi anni ricorda molto il percorso fatto dal cinema cinese tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Allora furono registi come Zhang Yimou e Chen Kaige ad aprire gli occhi a noi occidentali su di un paese e una società pochissimo conosciuta. Capolavori come “Lanterne rosse”, “Terra gialla” o “Vivere” diedero il via a una straordinaria fioritura cinematografica di un paese fino ad allora praticamente sconosciuto dal punto di vista artistico. Dopo qualche anno successe quello che pochi si aspettavano; i due registi che erano stati gli apripista di un nuovo linguaggio cinematografico, sfidando in maniera durissima le restrizioni censorie di quel paese, diventano autori accademici senza più voglia (o capacità) di rinnovarsi. Chen Kaige finisce ad Hollywood a girare film di poco spessore, Zhang Yimou diventa il regista simbolo del paese orientale allineandosi spesso e volentieri con quell’establishment politico che tanto aveva sfidato qualche decennio prima. Ma la loro antica lezione aveva per fortuna dato il via a una nuova consapevolezza del mezzo cinematografico e decine di nuovi e interessantissimi autori iniziavano la loro carriera a partire dagli anni Novanta.
In Iran si ripercorre pressappoco la stessa storia (pur se con tempi più dilatati). Si inizia a metà degli anni Settanta con maestri come Kiarostami e Makhmalbaf  che, fino alla prima metà degli anni Novanta realizzano opere fondamentali per la storia del cinema e per la conoscenza di un paese complicatissimo ma, a partire da un certo momento, cominciano ad aggrovigliarsi in esercizi di stile sempre più risibili perdendosi dietro a produzioni internazionali che lasciano spesso attoniti. Ma la loro eredità ha creato, come in Cina, un’altissima scuola cinematografica. Questo ha permesso a tanti registi iraniani di farsi conoscere negli ultimi anni nonostante una situazione politica sempre delicatissima (l’esempio di Jafar Panahi, probabilmente il maggiore autore iraniano del momento, rinchiuso in carcere a causa dei suoi film ne è un esempio lampante).
The hunter” di Rafi Pitts girato nel 2009 grazie a una produzione tedesca è un altro interessante tassello di quello che i nuovi autori iraniani riescono a regalarci in mezzo a un mare di difficoltà e tensioni elevatissime. Girato qualche mese prima dell’ultima elezione che ha purtroppo portato Ahmadinejad alla guida del paese mi ha inizialmente colpito per una caratteristica non comune del cinema iraniano. Lunghissimi silenzi laddove i grandi maestri ci avevano abituato a dialoghi quasi estenuanti, una ricerca precisa nel non fare apparire Teheran come una realtà geografica precisa ma come luogo universale di una precisa condizione dell’umana modernità. Ne viene fuori un film pienissimo di significati pur in una struttura narrativa abbastanza semplice. Si parla di un uomo dal passato difficile che lavora in una fabbrica sempre nel turno di notte. Raramente riesce a passare del tempo con la moglie e la figlia, unici personaggi positivi del suo orizzonte umano, il resto è solo rumore, città, diffidenza e una voce alla radio che preannuncia grandi novità dopo le elezioni. Un giorno la moglie e la figlia scompaiono inghiottite dalle manifestazioni che pian piano fanno di Teheran un teatro sanguinosissimo di eventi tragici. A quel punto inizierà per il protagonista un personale viaggio nella vendetta contro una società drammaticamente inumana e resa ancora più tragica dalla sua indefinibilità (le strade, gli uffici e i posti di polizia vengono raffigurati quasi come luoghi kafkiani dell’assurdo).
Rafi Pitts ci presenta una Teheran insopportabilmente lontana da quella che una società accogliente dovrebbe essere ma lo fa senza nominarla mai e rendendola drammaticamente universale. La trasforma in un’agghiacciante metafora della città moderna in cui anche noi occidentali non stentiamo a riconoscerci. Una città “implosa dall’interno” in cui i rapporti umani sono scomparsi per lasciare solo spazio a rumori, tensioni e inquietudini sempre più forti. Una Teheran drammaticamente vicina anche per noi.

Sergio


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