L’evoluzione del cinema iraniano degli ultimi anni
ricorda molto il percorso fatto dal cinema cinese tra gli anni Ottanta e
Novanta del secolo scorso. Allora furono registi come Zhang Yimou e Chen Kaige
ad aprire gli occhi a noi occidentali su di un paese e una società pochissimo
conosciuta. Capolavori come “Lanterne
rosse”, “Terra gialla” o “Vivere” diedero il via a una straordinaria
fioritura cinematografica di un paese fino ad allora praticamente sconosciuto
dal punto di vista artistico. Dopo qualche anno successe quello che pochi si
aspettavano; i due registi che erano stati gli apripista di un nuovo linguaggio
cinematografico, sfidando in maniera durissima le restrizioni censorie di quel
paese, diventano autori accademici senza più voglia (o capacità) di rinnovarsi.
Chen Kaige finisce ad Hollywood a girare film di poco spessore, Zhang Yimou
diventa il regista simbolo del paese orientale allineandosi spesso e volentieri
con quell’establishment politico che tanto aveva sfidato qualche decennio
prima. Ma la loro antica lezione aveva per fortuna dato il via a una nuova
consapevolezza del mezzo cinematografico e decine di nuovi e interessantissimi autori
iniziavano la loro carriera a partire dagli anni Novanta.
In Iran si ripercorre pressappoco la stessa storia (pur
se con tempi più dilatati). Si inizia a metà degli anni Settanta con maestri come
Kiarostami e Makhmalbaf che, fino alla
prima metà degli anni Novanta realizzano opere fondamentali per la storia del
cinema e per la conoscenza di un paese complicatissimo ma, a partire da un
certo momento, cominciano ad aggrovigliarsi in esercizi di stile sempre più
risibili perdendosi dietro a produzioni internazionali che lasciano spesso
attoniti. Ma la loro eredità ha creato, come in Cina, un’altissima scuola
cinematografica. Questo ha permesso a tanti registi iraniani di farsi conoscere
negli ultimi anni nonostante una situazione politica sempre delicatissima (l’esempio
di Jafar Panahi, probabilmente il maggiore autore iraniano del momento,
rinchiuso in carcere a causa dei suoi film ne è un esempio lampante).
“The hunter” di
Rafi Pitts girato nel 2009 grazie a una produzione tedesca è un altro interessante
tassello di quello che i nuovi autori iraniani riescono a regalarci in mezzo a
un mare di difficoltà e tensioni elevatissime. Girato qualche mese prima dell’ultima
elezione che ha purtroppo portato Ahmadinejad alla guida del paese mi ha
inizialmente colpito per una caratteristica non comune del cinema iraniano.
Lunghissimi silenzi laddove i grandi maestri ci avevano abituato a dialoghi quasi
estenuanti, una ricerca precisa nel non fare apparire Teheran come una realtà
geografica precisa ma come luogo universale di una precisa condizione dell’umana
modernità. Ne viene fuori un film pienissimo di significati pur in una
struttura narrativa abbastanza semplice. Si parla di un uomo dal passato
difficile che lavora in una fabbrica sempre nel turno di notte. Raramente
riesce a passare del tempo con la moglie e la figlia, unici personaggi positivi
del suo orizzonte umano, il resto è solo rumore, città, diffidenza e una voce
alla radio che preannuncia grandi novità dopo le elezioni. Un giorno la moglie
e la figlia scompaiono inghiottite dalle manifestazioni che pian piano fanno di
Teheran un teatro sanguinosissimo di eventi tragici. A quel punto inizierà per il
protagonista un personale viaggio nella vendetta contro una società
drammaticamente inumana e resa ancora più tragica dalla sua indefinibilità (le
strade, gli uffici e i posti di polizia vengono raffigurati quasi come luoghi
kafkiani dell’assurdo).
Rafi Pitts ci presenta una Teheran insopportabilmente
lontana da quella che una società accogliente dovrebbe essere ma lo fa senza
nominarla mai e rendendola drammaticamente universale. La trasforma in un’agghiacciante
metafora della città moderna in cui anche noi occidentali non stentiamo a
riconoscerci. Una città “implosa dall’interno”
in cui i rapporti umani sono scomparsi per lasciare solo spazio a rumori,
tensioni e inquietudini sempre più forti. Una Teheran drammaticamente vicina
anche per noi.
Sergio
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