“Adoro Dostoevskij, ma non filmerò mai L’Idiota dopo Kurosawa.”
[Andrej Arsen’evič Tarkovskij]
Dopo il capolavoro di Rashomon, Kurosawa era diventato un regista tenuto sott’occhio dal pubblico e dalla critica di tutto il mondo. Aggiudicatosi un posto di rilievo nella storia del Cinema, mette a punto quello che lui stesso definirà: “il mio più grande capolavoro”.
Dostoevskij è indubbiamente un pozzo senza fondo dal quale attingere ispirazione. Kurosawa cambia l’ambientazione, i costumi e i tratti più superficiali dei personaggi. Si passa da un’aristocrazia imperiale pietroburghese di fine ‘800 a un Giappone postbellico, i nomi dei personaggi cambiano, cambiano le loro storie, ma l’anima, la filosofia e le emozioni rimangono le stesse.
Poco importa che il protagonista sia il giovane Kameda o il principe Myškin, l’ingenuità e la pura umanità di questo personaggio tocca nel profondo e commuove in entrambe le opere.
Un triangolo amoroso con ai vertici i due lati opposti della follia umana, quello feroce e incontrollato e quello buono e mansueto. Un uomo che dopo aver visto la morte da molto vicino, ha cominciato ad apprezzare la vita fino ai più piccoli dettagli, fino al punto di amare ogni cosa ed essere addirittura privato della capacità di odiare. Non riuscendo a provare odio, non riuscendo nemmeno a pensare male di qualcuno, viene presto scambiato per malato mentale, o più semplicemente, per un idiota.
Nessuno riesce a volergli male, sarebbe come voler male a un bambino o a un cucciolo, ma nessuno lo rispetta veramente. Anche se qualcuno lo ama davvero.
L’amore della bellissima Taeko e l’amicizia dell’amico/nemico Akama sono gli elementi portanti del film, affidati a Setsuko Hara e Toshiro Mifune (attore prediletto di Kurosawa) che riescono in modo sorprendente a commuovere con pochi sguardi e ad impersonare con alta maestria la profonda complessità e dualità dei loro ruoli.
Con “L’Idiota”, Dostoevskij e Kurosawa fanno una denuncia. Non una denuncia contro l’alta società pietroburghese o contro il Giappone post-bellico, ma una denuncia contro la gente. Contro la natura di tutta la gente, di ogni epoca e di ogni provenienza geografica. Denunciano la sconfinata difficoltà che ha l’uomo nel confrontarsi con ciò che è diverso da se stessi, con ciò che inconsciamente ci fa più paura anche se non lo ammettiamo mai: essere “nudi”, puri, totalmente sinceri e, quindi, totalmente vulnerabili.
Nella società che dipinge Dostoevskij nel racconto, e Kurosawa nel film, vediamo un uomo che è idiota perché troppo diverso dagli altri. La gente non può accettarlo perché la sua purezza e il suo candore mettono in luce tutto ciò che non va in loro. Qualunque persona adulta e sana di mente si guarderebbe bene dal mostrarsi pura e candida. Equivarrebbe a mostrarsi indifesi.
La nostra società non lascia spazio ai puri e ai candidi. Chi lo è, viene inevitabilmente bollato con l’etichetta di Idiota.
Tutti noi se incontrassimo un principe Myškin o un Kameda nella realtà, poco esiteremmo a definirlo idiota, o se non idiota magari “disagiato”, “ritardato”, insomma, uno con dei problemi. Ma in questa storia, leggendola su delle pagine o vedendola su di uno schermo, ci nasce una profondissima empatia dovuta al fatto che Kurosawa riesce a portare allo scoperto il lato puro di ognuno di noi e a porcelo davanti. Ci mette a confronto con una parte estremamente intima di noi stessi, senza farci sentire a disagio.
Ed è con questa parte di noi allo scoperto che sorge automatica la riflessione: ma chi è veramente l’idiota?
Robin
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