giovedì 8 settembre 2011

Kim Ki Duk - Arirang


Se negli ultimi vent’anni dobbiamo al cinema della Corea del Sud il merito di avere portato una ventata di freschezza e originalità al linguaggio cinematografico, gran parte di questo merito va a uno dei suoi cineasti di punta: Kim Ki Duk. Quando nel 2000 il festival di Venezia lo fece conoscere a noi occidentali con L’isola si comprese immediatamente che Kim era un regista dal quale aspettarsi parecchio. La (ri)scoperta dei suoi film precedenti (Crocodile, Birdcage Inn) e la meraviglia di quelli successivi (Indirizzo sconosciuto, Primavera, estate autunno, inverno… e La samaritana per citare i più belli) confermavano il fatto che Kim era uno dei registi più importanti del decennio. Non capitava da tempo di vedere al cinema delle storie con una così grande forza espressiva, dove violenza e tenerezza diventavano inscindibili, cardini di storie che non ti scivolavano via ma ti rimanevano dentro costringendoti a ripensare ad aspetti che l’uomo spesso è portato a rimuovere. La crudeltà dei rapporti umani ma anche la loro necessità, l’essere nello stesso tempo capaci di gesti violenti e di atti di amore infiniti. Tutto questo è presente in quei film di Kim e ogni suo titolo diventava un appuntamento obbligato. Poi succede quello che meno ti aspetti. Dopo La samaritana (che si conclude con i dieci minuti tra i più intensi della storia del cinema) comincia un lento declino. I film successivi di Kim diventano sempre più finti, estetizzanti e improbabili, girati velocemente e come fatti su commissione, con lo scopo di piacere a un pubblico occidentale di poche pretese: L’arco, Time, Soffio… come poteva il Kim che avevamo amato avere girato anche queste inutili storie? Il fatto di essere diventato un regista di culto lo aveva probabilmente portato a considerarsi capace di creare opere anche girando con la mano sinistra e gli occhi chiusi… Ma un’altra sorpresa stava arrivando. Nel 2008, durante le riprese di Dream, una sua attrice rischia di morire impiccata durante una scena, Kim riesce a salvarla appena in tempo ma esce devastato da questo episodio. Una persona stava per morire per girare una scena che lui aveva inventato. Kim manda tutto all’aria e va a vivere in una capanna in montagna, isolato da tutto e tutti. Per tre anni non si hanno più sue notizie, chi lo dava per malato chi per impazzito fino a quest’anno quando arriva di nuovo la sua voce con Arirang. Non è un film, non è un documentario ma piuttosto una testimonianza lancinante di Kim Ki Duk  della sua vita negli ultimi tre anni. Con l’aiuto di una piccola telecamera Kim si riprende e si racconta, su ciò che gli è successo, su ciò che non riesce più a fare e su quello che vorrebbe tornare a essere: un regista cinematografico. Arirang (come i grandi film di Kim) ti entra dentro come solo la vita riesce a fare quando è vera, attraverso la esperienze di Kim fai i conti anche con te stesso e con le tue paure. Come reagiremmo davanti a un trauma? Come saremmo in grado di risalire dopo una caduta? Impossibile dare giudizi estetici su un’opera come Arirang, usare i metri della classica critica cinematografica, siamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso. Naturalmente non siamo così ingenui da non sapere che anche in un’opera simile non ci sia un’abile costruzione (Céline diceva che nonostante tutto l’uomo sta sempre in posa e anche Kim scherza su questo quando in una scena afferma ironicamente “probabilmente prima piangevo per drammatizzare un po’…”) ma alla fine quello che rimane è uno straordinario documento che fa luce sul percorso umano di uno degli autori più importanti del cinema contemporaneo. Speriamo che sia anche il momento della rinascita di Kim Ki Duk e di quel suo cinema che nel passato è riuscito ad emozionarci come pochi.
Sergio

1 commento:

  1. Bello da fare male... agli artisti grandi si perdona tutto... anche quell'egocentrismo esagerato che incarnato da una persona "comune" risulterebbe insopportabile. Gli artisti sono (devono essere) una guida, un esempio di umanità, devono farci vedere ciò che noi non siamo nemmeno capaci di sognare... e Kim Ki Duk ci è riuscito di nuovo. Speriamo bene per il futuro...

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