martedì 6 dicembre 2011

Mario Martone - Noi credevamo


Incontrai per la prima volta Mario Martone in un’estate dei primi anni Novanta durante il festival del cinema di Taormina. Stava preparando L’amore molesto (uno dei suoi film migliori) e mi colpì molto il fatto che leggesse, durante un incontro con la stampa, alcune pagine del suo diario di lavorazione sul set che riguardavano non il film che stava girando, ma delle riflessioni che Francois Truffaut faceva sulla propria idea di cinema ai tempi della realizzazione del suo Enfant sauvage. Autori lontani nel tempo e nello spazio che comunicavano a me, giovane appassionato di cinema, la medesima passione per un’arte, quella cinematografica, che non avrebbe più smesso di farmi compagnia.
Il cinema di Martone non mi ha mai deluso (tranne forse con L’odore del sangue). Dalla Morte di un matematico napoletano al citato L’amore molesto fino a Teatro di guerra, i suoi film sono sempre nati da esigenze forti; racconti di vite normali eppure straordinarie come quella del matematico Renato Caccioppoli o esperienze di teatriinguerra dove il conflitto nasce dal tentativo di fare teatro, e quindi vita, in una realtà in cui la vita non sembra più occuparsi dell’arte.
Quando quest’anno è uscito Noi credevamo, film sul Risorgimento che Martone preparava da anni e che, giustamente, è arrivato nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, le aspettative erano tante e, al di là degli encomi istituzionali dovuti e scontati, il film rappresenta una ulteriore conferma delle qualità artistiche di Martone. Tratto dal libro omonimo di Anna Banti, il film racconta gli eventi italiani che, a partire dal 1828, portarono l’Italia ad una unificazione sofferta e forse mai veramente realizzata. La ricostruzione scenografica dell’Italia di allora è di altissimo livello così come l’interpretazione degli attori, forse dai tempi del Gattopardo viscontiano non avevamo una rappresentazione così viva di quegli anni. Inevitabilmente parlare di una storia che tocca le origini del nostro essere nazione ci porta a considerare questa pellicola su piani non esclusivamente cinematografici. Non è questo il luogo di riflessioni storiche ma mi sembra importante il fatto che Martone abbia scelto, per parlare del Risorgimento italiano, la storia di tre ragazzi del Cilento che dal sud credevano di combattere per un traguardo che forse non era proprio quello che si realizzò a partire dal 1861.
Probabilmente il Risorgimento non è mai stata una vera rivoluzione. Dopo quasi tre ore di film il momento che mi rimane maggiormente impresso è un passo di una lettera di Cristina di Belgioioso  l’albero è stato piantato, con delle radici malate ma è stato piantato…”;  l’albero dell’Unità d’Italia mi convinco sempre più essere frutto  del primo grande compromesso del paese. Una Rivoluzione che avrebbe dovuto portare la Repubblica e che invece si accontentò dei regnanti piemontesi… un meridione che voleva liberarsi della dominazione straniera e che finì per pagare ancora più tasse invece che ai borboni ai nuovi governanti. E’ un senso di insoddisfazione che ti lascia la visione di questo film, ma non per il valore (alto) della pellicola ma perché ci ricorda ancora una volta come il nostro paese si sia sempre fermato qualche metro prima dell’obiettivo con il risultato che l’ardore e l’idealismo puro dei patrioti di allora sia ormai definitivamente tramontato dopo un secolo e mezzo di accomodamenti continui.
Sergio

Scena film - Discorso di Mazzini (Toni Servillo)

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