In giornate di grida sguaiate e patriottici entusiasmi
cinefili a dir poco imbarazzanti non è stato forse un caso imbattersi in una
pellicola che mi ha confermato che i grandi film si realizzano ancora. E’
sempre più difficile trovarli, sommersi come sono da titoli di scarsa levatura ma
di più immediato appeal. Da tempo non sentivo citare Fellini e Maradona (perché
insieme? Non so ma non chiedetelo a me), icone di un passato glorioso e per
molti aspetti rimpianto. Mi è allora ritornata in mente la frase con cui si
chiude l’ultimo film del regista riminese La
voce della luna: “Eppure io credo che se ci fosse
un po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio, forse qualcosa
potremmo capire…”. Il silenzio è importante, aiuta a riflettere, serve a capire
meglio gli altri, e quando viene usato bene al cinema, con le immagini, i volti
e le storie giuste riesce a comunicarti più di tante parole. Sarà per questo
che mi porto sempre Buster Keaton nel cuore.
Muffa
opera d’esordio del regista turco Ali Aydin è uno di quei film che ti entra
dentro come solo le grandi opere riescono a fare. Lo fa rimanendo quasi in
silenzio, con pochissimi dialoghi ma con un’espressività così potente delle
immagini da farti quasi rimpiangere che sia stato inventato il sonoro al
cinema. Il grande cinema turco ci ha abituato con le opere di Yilmaz Güney o Tevfik Başer
a narrazioni essenziali. Niente orpelli registici o dialoghi di insopportabile
pedanteria. Solo immagini potenti e parole quando servono. Da questa tradizione
sembra uscire fuori il film di Aydin (premiato a Venezia con il leone del
futuro nel 2012). La trama di Muffa è minima. Un uomo di mezza età, impiegato
alle ferrovie, vive da solo dopo la morte della moglie e la scomparsa del
figlio avvenuta diciotto anni prima in circostanze mai chiarite. Il senso delle
sue giornate viene dato solo dalle sue incessanti richieste, sotto forma di
lettere mensili, che l’uomo invia alle autorità per avere notizie sulle sorti
del figlio. Come, grazie a una storia simile, si riesca a entrare dentro ad un
universo di poesia e di alta riflessione sui rapporti umani è difficile dirlo. Il
cinema è capace di questi miracoli quando si realizza con sincerità e con
grande applicazione. Non è un cinema spontaneo, c’è più difficoltà a filmare
una scena di solitudine di tre minuti che ti colpisce come un pugno, rispetto a
un piano sequenza di un quarto d’ora che è solo sfoggio estetico. Ma questo
spesso non è compreso da chi ha bisogno di grandi bellezze e di banalità
profuse a piene mani. Per fortuna esiste un cinema diverso, va cercato
faticosamente e poi condiviso con chi crede ancora alle emozioni che escono
fuori dal volto di un uomo e non dalle giravolte di una cinepresa.
Sergio