domenica 30 settembre 2012

Romanzo di una strage - Marco Tullio Giordana



Quando si parla di cinema politico in Italia ci si riferisce quasi sempre alla stagione d’oro degli anni Sessanta e Settanta con i riferimenti alle opere (sicuramente imprescindibili) di Francesco Rosi e Elio Petri. Negli ultimi anni è sicuramente arduo trovare i corrispettivi ad autori simili ma pensare che la stagione del cinema civile sia relegata soltanto al passato non credo sia vero. La visione di Romanzo di una strage di MarcoTullio Giordana conforta ancora più questo mio pensiero. Giordana non è nuovo a riletture di momenti molto importanti della storia italiana, dal delitto di Pasolini in “Pasolini, un delitto italiano” del 1995 alla storia di Peppino Impastato nel (giustamente) celebre “I cento passi” del 2000. Con Romanzo di una strage i fatti di Piazza Fontana vengono finalmente fissati in una pellicola di alto valore. Si parla della strage milanese del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura che fece 14 vittime e che molti mettono come momento iniziale di quella strategia della tensione che portò l’Italia in un incubo mai del tutto finito (anche perché non si è mai arrivati a conclusioni giudiziarie che abbiano fatto piena luce sugli eventi). Giordana ricostruisce il clima di quegli anni con una passione e una lucidità rari nel nostro cinema, un paese in bilico tra rivendicazioni operaie e tentativi autoritari, tra tentativi utopistici per una società migliore e lucidissime strategie per mantenere lo status quo e piuttosto cercare di peggiorarlo. Sappiamo purtroppo cosa ci hanno lasciato in eredità quegli anni, centinaia di morti senza giustizia e la consapevolezza (tristissima) che strutture organiche allo Stato in perfetta simbiosi con gli ambienti di estrema destra hanno concorso a far sì che il nostro Paese restasse ancorato a strutture di sfruttamento ancora oggi pienamente visibili e anzi sempre più duri in periodi di recessione come questo.
Siamo purtroppo i figli di Piazza Fontana, di una strage  per ampi versi perfettamente spiegabile da parte di chi abbia voglia di studiarla e anche per questo Giordana ha un grande merito, quello di permetterci uno sguardo d’insieme che abbraccia il nostro paese dalla fine degli anni Sessanta a quello che siamo diventati oggi. Mentre vedevo questo film mi è capitato di ripensare a un’altra importante opera cinematografica: Segreti di stato di Paolo Benvenuti del 2003, ricostruzione magistrale della, probabilmente, prima strage di stato, quella di Portella della Ginestra. L’Italia repubblicana è stata sin dall’inizio attraversata da scoppi di bombe che miravano a bloccare il cambiamento. Il cinema italiano ha sempre avuto tantissimi elementi sui quali lavorare e non sempre lo ha fatto nella maniera dovuta ma film come Romanzo di una strage ci permettono perlomeno di non dimenticare, “prima di non accorgerci più di niente” come diceva Peppino Impastato.
Nel film di Giordana è inoltre importante segnalare una straordinaria prova d’attore di Pierfrancesco Favino che interpreta in maniera magistrale il ruolo di Pinelli, l’anarchico fatto suicidare qualche giorno dopo la strage negli uffici della polizia di Milano dopo tre giorni di interrogatori.

Mi piacerebbe un giorno realizzare una rassegna di cinema italiano che parli della nostra storia degli ultimi settant’anni, che parta da Roma città aperta, quello che mi piace pensare come il primo film politico italiano e attraverso Le mani sulla città di Rosi, Todo Modo di Petri, Segreti di stato di Benvenuti giunga fino a questo Romanzo di una strage. Il giorno che anche nelle nostre scuole si faranno vedere questi film forse ci potremmo permettere di crescere una generazione un po’ più attenta alla nostra storia e quindi capace di diradare meglio il continuo fumo (più o meno consapevole) che ci arriva  quotidianamente davanti agli occhi.

Sergio


sabato 15 settembre 2012

Aki Kaurismaki -Miracolo a Le Havre



Guardare il cinema di Aki Kaurismaki è sempre stato per me un ottimo antidoto contro il cinismo e lo scoramento crescente che inesorabilmente con l’età aumenta. Il regista finlandese è uno dei pochissimi autori viventi a conservare una coerenza etica mai mutata nel corso degli anni diventando piuttosto con il trascorrere del tempo sempre più pura e intransigente.
I personaggi dei suoi film sono sempre gli ultimi della società, emarginati dal mondo che prende le decisioni anche per loro. Il male raramente si materializza come una figura umana (Kaurismaki raramente filma personaggi negativi), il male è la società, la sua struttura economica. Contro questo stato di cose possiamo contrapporre solo la profonda umanità degli ultimi, di quei personaggi fiabeschi che nascono dallo sguardo della sua magica macchina da presa.
Il suo ultimo film “Miracolo a Le Havre” è l’ennesima galleria di personaggi “fuori” dal mondo. Un lustracarpe ambulante (quanti ne esistono ancora in giro?), un ragazzino africano clandestino e senza documenti che sbarca per caso nella cittadina francese con la speranza di raggiungere Londra per ricongiungersi con la madre, un cane Laika che non fa nulla di speciale (non come quelli hollywoodiani…) ma è presente per fare compagnia quando c’è bisogno. A parte qualche brevissimo primo piano di un cattivissimo Jean Pierre Leaud (che emozione per tutti i truffautiani come me ogni volta che vedo il suo volto…), i personaggi negativi non si vedono mai. A volte si sentono ma sempre fuori campo. Kaurismaki  invece non abbandona mai i suoi protagonisti, li segue continuamente con una tenerezza e un rispetto altissimo. Mai nessuna scena patetica nei suoi film, sempre una dignità totale da parte di ognuno dei suoi personaggi. “Hai pianto?” chiede ad un certo punto il lustrascarpe Marcel al ragazzino africano che ha rischiato di essere trovato dalla polizia, “No” risponde Idrissa. “Hai fatto bene,non sarebbe servito a niente” ribatte Marcel. In questo breve scambio troviamo il Kaurismaki più profondo quello che ci insegna ad andare sempre avanti in ogni situazione e sempre con la forza della dignità. Solo così possiamo realizzare i miracoli, magari non sempre, più probabilmente molto raramente, ma sempre con la consapevolezza del nostro essere profondamente umani. Capaci di emozionarci sempre ma senza lacrime come ci ricorda lo sguardo del cagnolino Laika ogni volta che la storia prende una brutta china.
Del cinema di Kaurismaki abbiamo un enorme bisogno, non avrà purtroppo mai un grande seguito con le sue storie minime e i suoi personaggi ai margini ma è una delle ultime barriere etiche e culturali che possediamo e che dobbiamo tenerci stretto.

Sergio


giovedì 6 settembre 2012

Rafi Pitts - The hunter




L’evoluzione del cinema iraniano degli ultimi anni ricorda molto il percorso fatto dal cinema cinese tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Allora furono registi come Zhang Yimou e Chen Kaige ad aprire gli occhi a noi occidentali su di un paese e una società pochissimo conosciuta. Capolavori come “Lanterne rosse”, “Terra gialla” o “Vivere” diedero il via a una straordinaria fioritura cinematografica di un paese fino ad allora praticamente sconosciuto dal punto di vista artistico. Dopo qualche anno successe quello che pochi si aspettavano; i due registi che erano stati gli apripista di un nuovo linguaggio cinematografico, sfidando in maniera durissima le restrizioni censorie di quel paese, diventano autori accademici senza più voglia (o capacità) di rinnovarsi. Chen Kaige finisce ad Hollywood a girare film di poco spessore, Zhang Yimou diventa il regista simbolo del paese orientale allineandosi spesso e volentieri con quell’establishment politico che tanto aveva sfidato qualche decennio prima. Ma la loro antica lezione aveva per fortuna dato il via a una nuova consapevolezza del mezzo cinematografico e decine di nuovi e interessantissimi autori iniziavano la loro carriera a partire dagli anni Novanta.
In Iran si ripercorre pressappoco la stessa storia (pur se con tempi più dilatati). Si inizia a metà degli anni Settanta con maestri come Kiarostami e Makhmalbaf  che, fino alla prima metà degli anni Novanta realizzano opere fondamentali per la storia del cinema e per la conoscenza di un paese complicatissimo ma, a partire da un certo momento, cominciano ad aggrovigliarsi in esercizi di stile sempre più risibili perdendosi dietro a produzioni internazionali che lasciano spesso attoniti. Ma la loro eredità ha creato, come in Cina, un’altissima scuola cinematografica. Questo ha permesso a tanti registi iraniani di farsi conoscere negli ultimi anni nonostante una situazione politica sempre delicatissima (l’esempio di Jafar Panahi, probabilmente il maggiore autore iraniano del momento, rinchiuso in carcere a causa dei suoi film ne è un esempio lampante).
The hunter” di Rafi Pitts girato nel 2009 grazie a una produzione tedesca è un altro interessante tassello di quello che i nuovi autori iraniani riescono a regalarci in mezzo a un mare di difficoltà e tensioni elevatissime. Girato qualche mese prima dell’ultima elezione che ha purtroppo portato Ahmadinejad alla guida del paese mi ha inizialmente colpito per una caratteristica non comune del cinema iraniano. Lunghissimi silenzi laddove i grandi maestri ci avevano abituato a dialoghi quasi estenuanti, una ricerca precisa nel non fare apparire Teheran come una realtà geografica precisa ma come luogo universale di una precisa condizione dell’umana modernità. Ne viene fuori un film pienissimo di significati pur in una struttura narrativa abbastanza semplice. Si parla di un uomo dal passato difficile che lavora in una fabbrica sempre nel turno di notte. Raramente riesce a passare del tempo con la moglie e la figlia, unici personaggi positivi del suo orizzonte umano, il resto è solo rumore, città, diffidenza e una voce alla radio che preannuncia grandi novità dopo le elezioni. Un giorno la moglie e la figlia scompaiono inghiottite dalle manifestazioni che pian piano fanno di Teheran un teatro sanguinosissimo di eventi tragici. A quel punto inizierà per il protagonista un personale viaggio nella vendetta contro una società drammaticamente inumana e resa ancora più tragica dalla sua indefinibilità (le strade, gli uffici e i posti di polizia vengono raffigurati quasi come luoghi kafkiani dell’assurdo).
Rafi Pitts ci presenta una Teheran insopportabilmente lontana da quella che una società accogliente dovrebbe essere ma lo fa senza nominarla mai e rendendola drammaticamente universale. La trasforma in un’agghiacciante metafora della città moderna in cui anche noi occidentali non stentiamo a riconoscerci. Una città “implosa dall’interno” in cui i rapporti umani sono scomparsi per lasciare solo spazio a rumori, tensioni e inquietudini sempre più forti. Una Teheran drammaticamente vicina anche per noi.

Sergio