venerdì 17 gennaio 2014

Woody Allen - Blue Jasmine


Risulta francamente impossibile avvicinarsi a una nuova pellicola di Woody Allen senza essere influenzato dalla sua incredibile carriera passata. Decine di capolavori fino ai primi anni Novanta e poi una deriva preoccupante che lo ha portato, soprattutto nell’ultimo decennio, a titoli francamente superflui (con la felice eccezione di Midnight in Paris).
Gli amanti di Woody Allen, anche senza conoscersi tra loro, sono molto simili agli adepti delle logge segrete della massoneria, si scambiano messaggi in codice sotto forma di vecchie battute dei suoi film e dalla reazione che suscitano capiscono chi fa parte del proprio gruppo. Proprio per il triste declino che il nostro regista ha conosciuto negli ultimi anni, diventano sempre più sfuggenti ed ermetici. Alla domanda se si è visto il suo ultimo film, spesso ti dicono che non ne hanno avuto ancora il tempo (per evitare di dire qualcosa di spiacevole) però, proprio il giorno prima, casualmente, hanno recuperato il dvd di Io e Annie o Manhattan e via con gli elogi…
Con questo, ormai classico metodo di avvicinamento, mi sono accostato al suo ultimo film, Blue Jasmine, pellicola numero quarantaquattro nella carriera alleniana. Il volto della bravissima Cate Blanchett  che risalta sul manifesto del film sembra promettere bene. Paragonata alla bellezza da bambola di Scarlett Johansson la differenza è enorme. Per nostra fortuna.
L’ambientazione non newyorchese della pellicola, girata in gran parte a San Francisco, sembra ribadire la costante del Woody degli ultimi anni abituato a vagare per le città, soprattutto europee, alla ricerca di quell’ispirazione che solo la grande mela e delle volte Parigi gli hanno dato in passato. Ma in questo film New York è più che presente, perché da lì proviene la nostra protagonista che si porta dietro un matrimonio finito e una vita andata a rotoli dopo l’arresto e il suicidio del marito truffatore. Jasmine/Blanchett arriva nella città californiana per ricominciare da zero, ospite della sorella, diversissima da lei e unica persona che può aiutarla a ricostruire la sua vita.

Quando in un film di Allen ti accorgi che dopo la prima mezz’ora di visione non hai ancora fatto un sorriso, le peggiori paure si impossessano in noi adepti alleniani. Pensi di ripiombare in quegli incubi fintamente “alti” di Match Point. Riproposizione delle solite tematiche di aristocratici in crisi con relativo bagaglio psicoanalitico da decifrare. Ma mentre inizi a pensare alle scuse da dire sull’ultimo film di Woody che non hai ancora visto ecco che la storia prende quota come un vecchio motore che sbuffa all’inizio e poi fila via in maniera impeccabile. Blue Jasmine non ha nulla delle commedie tipiche di Allen ma è distante anni luce anche dalle ambiziose e deludenti opere che il regista americano ci ha purtroppo regalato nell’ultimo decennio. La sontuosità dell’interpretazione di Cate Blanchett è sicuramente decisiva nel rendere credibile la pellicola e farci provare una grossa empatia per il personaggio di Jasmine incapace di rifarsi un’esistenza libera dalle macerie del suo passato. Ma anche la scrittura e la regia di Allen sono importanti perché in questo film (finalmente è il caso di dire) il nostro Woody si ricorda di assecondare i suoi personaggi piuttosto che le proprie ossessioni. Intendiamoci, Jasmine è in pieno un personaggio alleniano, per come si muove, per come parla, per il mondo da cui proviene ma non si ha mai la sensazione che ciò che vedi sia la stanca ripetizione di ciò che hai visto (meglio) qualche decina di film fa. Il suo tentativo disperato di riprendersi la propria vita in una città che non conosce e in mezzo a persone mai viste appare credibile e assolutamente in linea con la caratterizzazione del personaggio. Certo non possiamo fare paragoni con titoli come Un’altra donna (anno di grazia 1988) ma la boccata d’aria che il vecchio Woody ci regala è notevole. Alla fine posso dirlo, quando esce un nuovo Allen state certi che noi fanatici il film lo vediamo subito.

Sergio

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venerdì 10 gennaio 2014

Matteo Garrone -Reality


Mi ero ripromesso, dopo avere parlato de La grande bellezza, che avrei ricominciato a scrivere di un film italiano solo per sottolinearne gli aspetti positivi. Dopo numerose visioni che mi hanno lasciato abbastanza perplesso (come gli ultimi titoli di Bertolucci, Soldini e Paolo Franchi) ho dovuto ripiegare su un classico come Viaggio in Italia di Rossellini per risentire un po’ di sano orgoglio cinefilo nazionale. Ma questo non era sicuramente sufficiente a ripagare l’amarezza data da un paese che sembra ormai avere adeguato il livello della sua cultura cinematografica a quello dell’estetica televisiva. Sceneggiature sciatte (o insopportabilmente pompose), tecnica sempre più ridondante e recitazione spesso sopra le righe. In mezzo a tanta desolazione abbiamo ancora, per fortuna, qualche autore che prosegue il suo percorso artistico rimanendo fedele alla sua idea iniziale di cinema che possa servire a raccontare il presente in modo critico, mai ruffiano e capace di utilizzare il mezzo cinematografico in modo serio, come un bravo artigiano che conosce bene i suoi strumenti di lavoro e sa quando deve renderli protagonisti e quando invece deve nasconderli per mettere in risalto la storia che racconta. Mi riferisco a Matteo Garrone regista italiano venuto fuori negli anni Novanta con titoli importanti come Terra di mezzo e L’imbalsamatore e poi confermatosi ad alti livelli con opere come Primo amore e il suo ultimo recente Reality. Sembra abbastanza singolare che per trovare un film che non si abbassi al livello dello sceneggiato televisivo da prima serata bisogna vedere un film che, sin dal titolo, rimandi in maniera diretta a ciò che più televisivo non potrebbe essere, il reality e quel grande fratello che è riuscito ad elevare a modello comportamentale personaggi che, in una società appena più normale della nostra, meriterebbero il più completo disinteresse (se non qualche rimbrotto e il consiglio di andare a leggersi qualche libro).
Garrone è un regista attento alle mutazioni della nostra società, qualcuno ha detto che il suo film è arrivato fuori tempo massimo per il fatto che il fenomeno mediatico del grande fratello non gode più dell’entusiasmo di qualche anno fa. Ma per Garrone non è tanto il format televisivo in questione il centro della storia, ma cercare di capire come la nostra società è cambiata nel corso degli ultimi anni facendoci diventare schiavi di un meccanismo perverso per cui l’apparire, sempre comunque e in ogni modo, è il solo metro di paragone per ritenersi vivi e facenti parte di una comunità. Metro di crescita dell’individuo non è più la capacità di elevarsi culturalmente o riuscire a indicare ai propri figli stili di vita sani e solidali, ma riuscire a farsi notare in un mondo sottosopra dove non conta più se fai la figura dell’idiota perché in mezzo a tanti idioti si capovolge, come in un carnevale, il senso del giudizio è idiota appare l’unico sano.

Luciano, il protagonista del film di Garrone, mette a repentaglio la propria famiglia e la propria esistenza nel sogno folle di partecipare a un programma televisivo che potrebbe significare l’inizio di una nuova vita. Garrone ci presenta Luciano non come una scheggia malata della società ma, semplicemente, come un elemento più debole degli altri che perde la testa dietro ad una illusione che però non è vista come tale dagli altri. Nessuno mette in discussione il fatto che la partecipazione al grande fratello potrebbe veramente significare un punto di arrivo nella vita di un uomo. Ed è probabilmente questo l’aspetto più inquietante del film di Garrone, la nostra società ha completamente capovolto i valori di riferimento e chi non la vede così diventa quasi un alieno. In questo senso diventa magistrale l’idea del regista di aprire e chiudere il film con due movimenti di macchina opposti. All’inizio la macchina da presa arriva dal cielo e si avvicina progressivamente alla città mentre alla fine si allontana progressivamente dal primo piano del protagonista per raggiungere nuovamente le stelle. Ed è bellissimo notare come Garrone si ricordi la grande lezione dei maestri del cinema che sottolineavano gli aspetti tecnici solo quando erano funzionali al racconto e non perché dovevano servire a sottolineare le capacità tecniche del regista. Come diceva Orson Welles la tecnica la puoi imparare in qualche settimana di studio ma la capacità di sapere raccontare ciò che ti sta attorno richiede molto più sacrificio e studio. In Italia questo insegnamento si è quasi del tutto perso ma per fortuna il cinema di Garrone ci da ancora qualche speranza.    

Sergio

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lunedì 6 gennaio 2014

Carlos Saura - Io, Don Giovanni


I rapporti tra l’opera e il cinema sono da sempre stati intensi e pieni di accostamenti spesso nobili. Grandi maestri del cinema si sono misurati nel passato con il ricco repertorio operistico. Abbiamo avuto chi, come Werner Herzog, ha preferito curare esclusivamente la regia a teatro di opere come La donna del lago di Rossini scindendo il mezzo cinematografico da quello musico teatrale. Di contro registi come Joseph Losey o Ingmar Bergman hanno inserito nella loro filmografia delle vere e proprie trasposizioni operistiche (il Don Giovanni per il regista inglese e Il flauto magico per il maestro svedese). In ogni caso non è sicuramente sbagliato affermare che il ricco patrimonio musicale e narrativo presente nella letteratura operistica ha esercitato un enorme fascino su molti grandi registi cinematografici.
Da amante del cinema, ma non esperto di musica d’opera, ho sempre avuto un certo timore nell’esprimere un giudizio sugli adattamenti cinematografici delle grandi opere liriche. I soli strumenti del critico cinematografico mi sono sempre sembrati insufficienti per valutare la complessità di un linguaggio musicale così ricco come, ad esempio, quello mozartiano.

Con questo mio solito timore mi sono avvicinato alla visione di “Io, don Giovanni” di Carlos Saura, grande maestro del cinema spagnolo che però negli ultimi anni sembrava in fase discendente. Saura aveva già trasposto al cinema la Carmen di Bizet realizzando un’opera di grande fascino ma che richiedeva una competenza e un amore preciso per la musica d’opera per potere essere apprezzata fino in fondo. La piacevolissima sorpresa che ho invece avuto guardando questa ennesima riproposizione mozartiana sta nel fatto che, in questo caso, il cinema non arretra di fronte alla nobiltà della musica e del libretto ma è a pieno titolo protagonista dell’opera con pari dignità e rivendicando (forse) un certo predominio. Mentre fino ad ora avevo visto delle opere cinematografiche che (per quanto curate) erano degli accompagnamenti rispettosi delle opere, con questo film Saura ci racconta la genesi dell’opera di Mozart a partire dall’arrivo di Da Ponte a Vienna e del suo ingresso nella corte viennese dell’epoca. Così facendo il regista spagnolo compone (è proprio il caso di dirlo) un’opera di perfetto equilibrio tra linguaggio cinematografico e musicale. Impossibile dire se predomini il cinema o la musica e questo permette a chi non ha grandi conoscenze musicali di apprezzare le arie che Saura inserisce in un incastro equilibratissimo di narrazione filmica e operistica. Il racconto dell’amicizia tra Da Ponte e Mozart cammina di pari passo con le prove della messinscena del Don Giovanni facendoci gustare i due racconti paralleli senza farci sentire irrimediabilmente a disagio per le nostre non eccelse conoscenze musicali. Le curatissime scenografie e la splendida fotografia curata da Vittorio Storaro contribuiscono in maniera decisiva per regalarci un film che credo possa mettere tutti d’accordo, cinefili e melomani, nel godimento di un’opera che sintetizza al meglio le grandi capacità espressive di ogni mezzo.

Sergio

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