venerdì 10 gennaio 2014

Matteo Garrone -Reality


Mi ero ripromesso, dopo avere parlato de La grande bellezza, che avrei ricominciato a scrivere di un film italiano solo per sottolinearne gli aspetti positivi. Dopo numerose visioni che mi hanno lasciato abbastanza perplesso (come gli ultimi titoli di Bertolucci, Soldini e Paolo Franchi) ho dovuto ripiegare su un classico come Viaggio in Italia di Rossellini per risentire un po’ di sano orgoglio cinefilo nazionale. Ma questo non era sicuramente sufficiente a ripagare l’amarezza data da un paese che sembra ormai avere adeguato il livello della sua cultura cinematografica a quello dell’estetica televisiva. Sceneggiature sciatte (o insopportabilmente pompose), tecnica sempre più ridondante e recitazione spesso sopra le righe. In mezzo a tanta desolazione abbiamo ancora, per fortuna, qualche autore che prosegue il suo percorso artistico rimanendo fedele alla sua idea iniziale di cinema che possa servire a raccontare il presente in modo critico, mai ruffiano e capace di utilizzare il mezzo cinematografico in modo serio, come un bravo artigiano che conosce bene i suoi strumenti di lavoro e sa quando deve renderli protagonisti e quando invece deve nasconderli per mettere in risalto la storia che racconta. Mi riferisco a Matteo Garrone regista italiano venuto fuori negli anni Novanta con titoli importanti come Terra di mezzo e L’imbalsamatore e poi confermatosi ad alti livelli con opere come Primo amore e il suo ultimo recente Reality. Sembra abbastanza singolare che per trovare un film che non si abbassi al livello dello sceneggiato televisivo da prima serata bisogna vedere un film che, sin dal titolo, rimandi in maniera diretta a ciò che più televisivo non potrebbe essere, il reality e quel grande fratello che è riuscito ad elevare a modello comportamentale personaggi che, in una società appena più normale della nostra, meriterebbero il più completo disinteresse (se non qualche rimbrotto e il consiglio di andare a leggersi qualche libro).
Garrone è un regista attento alle mutazioni della nostra società, qualcuno ha detto che il suo film è arrivato fuori tempo massimo per il fatto che il fenomeno mediatico del grande fratello non gode più dell’entusiasmo di qualche anno fa. Ma per Garrone non è tanto il format televisivo in questione il centro della storia, ma cercare di capire come la nostra società è cambiata nel corso degli ultimi anni facendoci diventare schiavi di un meccanismo perverso per cui l’apparire, sempre comunque e in ogni modo, è il solo metro di paragone per ritenersi vivi e facenti parte di una comunità. Metro di crescita dell’individuo non è più la capacità di elevarsi culturalmente o riuscire a indicare ai propri figli stili di vita sani e solidali, ma riuscire a farsi notare in un mondo sottosopra dove non conta più se fai la figura dell’idiota perché in mezzo a tanti idioti si capovolge, come in un carnevale, il senso del giudizio è idiota appare l’unico sano.

Luciano, il protagonista del film di Garrone, mette a repentaglio la propria famiglia e la propria esistenza nel sogno folle di partecipare a un programma televisivo che potrebbe significare l’inizio di una nuova vita. Garrone ci presenta Luciano non come una scheggia malata della società ma, semplicemente, come un elemento più debole degli altri che perde la testa dietro ad una illusione che però non è vista come tale dagli altri. Nessuno mette in discussione il fatto che la partecipazione al grande fratello potrebbe veramente significare un punto di arrivo nella vita di un uomo. Ed è probabilmente questo l’aspetto più inquietante del film di Garrone, la nostra società ha completamente capovolto i valori di riferimento e chi non la vede così diventa quasi un alieno. In questo senso diventa magistrale l’idea del regista di aprire e chiudere il film con due movimenti di macchina opposti. All’inizio la macchina da presa arriva dal cielo e si avvicina progressivamente alla città mentre alla fine si allontana progressivamente dal primo piano del protagonista per raggiungere nuovamente le stelle. Ed è bellissimo notare come Garrone si ricordi la grande lezione dei maestri del cinema che sottolineavano gli aspetti tecnici solo quando erano funzionali al racconto e non perché dovevano servire a sottolineare le capacità tecniche del regista. Come diceva Orson Welles la tecnica la puoi imparare in qualche settimana di studio ma la capacità di sapere raccontare ciò che ti sta attorno richiede molto più sacrificio e studio. In Italia questo insegnamento si è quasi del tutto perso ma per fortuna il cinema di Garrone ci da ancora qualche speranza.    

Sergio

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