Guardare un film di Mike Leigh ricorda un po’ le
atmosfere di certe cene che organizzi con gli amici, quelli veri, quelli che,
nonostante gli anni trascorrano, ti danno la certezza di volere ancora bene e
di essere ricambiato. Si parla con gli amici, si ricordano vecchi episodi e si
ride per qualcosa che soltanto all’interno del ristretto gruppo si può
comprendere. Si fa qualche progetto con un bicchiere di vino in mano e poi si
ritorna alla vita di sempre, al trascorrere delle stagioni, agli eventi belli e
brutti che la contraddistinguono. Il mondo non cambia per questo ma tu ti senti
meglio.
Mike Leigh è uno dei più grandi registi inglesi in
attività, raramente sbaglia un film. Nelle sue storie c’è la vita, quella vera,
che quando la guardi non ti sembra di stare al cinema ma vorresti essere uno
dei personaggi della pellicola per potere parlare con loro. Perché nelle loro
gioie, nelle loro paure, riconosci le tue.
Another
year
sembra essere un film di Rohmer con i suoi lunghi dialoghi e la divisione del
film in quattro parti corrispondenti alle quattro stagioni ma, a differenza del
maestro francese, nel suo film c’è meno filosofia e più quotidianità. I
personaggi del film di Leigh ruotano attorno alla famiglia di Gerri una
psicologa cinquantenne e suo marito Tom ingegnere coetaneo. Gli anni che
passano lasciano tracce evidenti sui corpi ma la loro serenità e il loro amore gli
fanno affrontare ogni cosa con una leggerezza estrema. Diventano per questo
punto di riferimento per gli amici, ognuno di loro con qualche problema
esistenziale come Mary, l’amica divorziata e in perenne crisi di solitudine o
il fratello di Tom rimasto vedovo da poco. La casa della coppia diventa un
luogo di incontro in cui organizzare barbecue o amene cenette dove ognuno
prende un pezzo della propria vita e la confronta con quella degli altri. In un
film del genere la scrittura diventa essenziale per trovare il giusto
equilibrio e dare all’intera opera il senso alto a cui mira. Leigh è maestro
nella capacità di creare dialoghi mai banali e sempre carichi di senso, i suoi
attori sono straordinari nel riuscire a parlare con ogni piccolo movimento del
corpo. Tutto la storia diventa un’esperienza di crescita per ogni personaggio e
anche per ogni spettatore che vive assieme a loro l’esperienza della vita che
passa.
Ci sentiamo più pieni alla fine del film, carichi di un’umanità
positiva che diventa l’arma migliore contro il cinismo che delle volte sembra
essere l’unico strumento per sopravvivere. Quando guardi i film di Mike Leigh,
come in quelli di Ken Loach l’altro grande maestro del cinema inglese, riesci
ancora a dare un po’ di credito agli esseri umani. Uno strano corto circuito mi
prende nell’avere visto questo film subito dopo La grande bellezza di Sorrentino; quanto mi sarebbe piaciuto che
qualcuno dei personaggi del film italiano fosse comparso improvvisamente negli
ambienti di Mike Leigh a farsi una lezione di umiltà e, soprattutto, di
umanità.
Sergio
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