Quando associamo il cinema alla città di New York, per la
maggior parte degli amanti della settima arte, i primi nomi che vengono alla
mente sono quelli di Woody Allen, Spike Lee e Martin Scorsese. Mentre Allen
rappresenta la città vista dalla prospettiva alta e borghese di Manhattan e
Spike Lee rispecchia la comunità afro americana, il cinema di Scorsese è, almeno agli inizi, stato considerato come figlio di Little Italy e di tutta la cultura italo
americana che quel quartiere rappresenta. Ritengo però che accanto al nome di
Scorsese vada inserito quello di un altro grande regista che condivide con
Scorsese le stesse radici italiane, Abel Ferrara.
Abel Ferrara è visto da molti come un autore maledetto del cinema e in effetti il suo
cinema è sempre stato poco incline alle leggi del buon gusto estetico (regola
alla quale anche Scorsese si è più volte adattato). Autore di capolavori come Il cattivo tenente, The addiction e Fratelli,
Ferrara è anche riuscito a realizzare film del tutto trascurabili come Go go tales o New Rose hotel, ma nella sua discontinua produzione artistica non
si può certo negare il marchio del grande autore. La storia artistica di
Ferrara meriterebbe la scrittura di un libro tanto è ricca di eventi a dir poco
singolari. Debutta negli anni Settanta addirittura con un film hard core di cui
è interprete e regista per poi passare al cinema horror. Negli anni Ottanta i
suoi titoli cominciano a essere sempre più considerati da critica e pubblico
specialmente dopo King of New York (che
offre una grandissima prova di Christopher Walken). Il suo cinema, fino agli
Novanta, è percorso da una grandissima tensione etico religiosa (ed è naturale
l’incredulità di chi pensa ai suoi inizi) calata in una realtà spesso bassa
come quella delle strade più marginali di Little Italy. Assieme allo
sceneggiatore Nicholas St. John, Ferrara riesce a dare un affresco della
cultura italo americana, costantemente in bilico tra tradizione e progresso,
religione e consumismo che non ha eguali sul grande schermo. La scrittura
lucida e disperata del suo sceneggiatore unita alla sua capacità visiva riesce
a tradursi sullo schermo in opere altissime. Ma a metà degli anni Novanta
succede qualcosa di strano, Nicholas St. John stanco del cinema si rinchiude in
convento e Ferrara perde il collaboratore storico per le sue opere. A partire
da quel momento il suo cinema nasce dimezzato; rimane la forza espressiva delle
immagini di un grande autore ma scompare quella tensione esistenziale data
dalla scrittura di St. John. Pur continuando ad essere considerato un autore di
prima fascia il suo cinema non raccoglie più gli entusiasmi passati.
Negli ultimi anni però Ferrara sembra avere ritrovato una
discreta carica autoriale soprattutto in campo documentaristico. Realizza
dapprima Chelsea on the rocks (2008) che
narra la storia del famoso albergo newyorchese, patria degli artisti bohemienne
del Novecento, da Dylan Thomas a Janis Joplin passando per Bukowski e Sid
Vicious e poi Mulberry St. (2009) dove,
con grande ispirazione, Ferrara si immerge nelle strade della sua Little Italy
per raccontarne la trasformazione nei giorni della festa di San Gennaro. Un pezzo
di Italia antica si riappropria in pieno delle sue tradizioni e caratterizza
quel quartiere di New York in maniera ancora più forte di quanto non faccia
normalmente. Ferrara si trova perfettamente a suo agio nel narrare un mondo e
una storia che gli appartengono in pieno e il film diventa una piacevolissima
scoperta di una cultura che troppo spesso i film ci fanno vedere sotto la lente, a volte irreale, della fiction cinematografica. Ferrara interpreta se stesso, lo
stesso fanno i suoi amici e anche gli attori (come Matthew Modine) che lo vanno
a trovare tra le strade del quartiere. Per novanta minuti si conoscono
personaggi singolari che costituiscono l’anima storica della Little Italy che
lentamente è destinata a scomparire, ma si parla anche di cinema, delle
paradossali storie che, nell’arco dei decenni, sono capitate al regista per
terminare i suoi film a partire da quello strano esordio che nel quartiere molti
ricordano. Grande opera a metà strada tra diario intimo e cinema
documentaristico. Se Ferrara continuasse così potremmo non rimpiangere più la
fuga mistica del suo sceneggiatore.
Sergio
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