Giuro di averci provato. Ho iniziato a guardare La grande bellezza facendo scomparire
tutti i timori che, ogni volta che mi preparo a vedere gli ultimi film di
Sorrentino, mi assalgono in maniera prepotente. Mi dicevo che uno come lui
avrebbe sicuramente compreso che le sue ultime prove erano sempre più
estetizzanti e sempre meno ricche di contenuto. Probabilmente la trasferta
americana di This must be place era
stata archiviata e il regista aveva compreso che certe storie e certi ambienti
non erano nelle sue corde, magari la morte del divo Giulio l’aveva riportato a
una considerazione più umana dell’esistenza che non ha bisogno di continui voli
della macchina da presa per essere celebrata (o criticata). E probabilmente, mi
dicevo, pure Toni Servillo avrà compreso che nella recitazione bisogna anche
sapere lavorare di sottrazione piuttosto che dimostrare continuamente quanto si
è bravi. Inizia il film e la frase di Louis Ferdinand Céline messa come incipit
mi mette di buon umore, Céline lo scrittore che amo più di ogni altro… non
poteva esserci migliore presentazione! Naturalmente conoscevo già il soggetto
del film e l’affresco della capitale nei nostri poveri tempi mi sembrava uno
spunto ottimo.
Ma che colpa posso avere se dopo i primi quindici minuti
la coppia Sorrentino – Servillo riescono a darmi più colpi di un samurai alle prese
con una epica crisi di astinenza? La macchina da presa non si ferma un attimo,
dolly, carrelli, piani sequenza. La faccia di Servillo sembra il campionario
delle facce dell’attore su quei vecchi manuali di espressività teatrale. Tutto
portato all’eccesso in modo insopportabile… ma io sono buono e resisto, sono i
tempi mi dicevo… sta descrivendo il nostro presente e allora forse avrà pensato
che caricare tutto in questo modo è necessario per farci entrare dentro il
film. Continuo la visione e cerco di respirare bene. Ma niente, Servillo non la
smette di attaccarsi ai drappi e
Sorrentino si sente sempre più Orson Welles (senza esserlo). Arriva Verdone e,
nonostante gli sforzi, le sue capacità recitative non sono certo eccelse. Ma
questo è niente rispetto al brivido provato all’apparizione della Ferilli,
paura allo stato massimo. Sorvoliamo che la Ferillona entra in campo subito
dopo un bel primo piano del simbolo della banca sponsor del film (ma c’era
proprio bisogno di fare marchette così visibili?) ma capisco sempre più perché uno
dei pochi geni del cinema italiano, Marco Ferreri, scelse lei e Jerry Calà
(avete capito bene) per girare un suo grande film Diario di un vizio. Nessuno
meglio di loro avrebbero potuto interpretare meglio i personaggi di quell'opera (scegliere il peggio per ottenere il meglio). Ma Sorrentino non è (neanche)
Ferreri e la sua scelta è palesemente un omaggio alla romanità della Ferilli
tanto è vero che subito dopo appare in un cameo agghiacciante l’altro simbolo
della romanità coatta, Antonello Venditti. A dire il vero all’inizio ero
convinto si trattasse di Corrado Guzzanti nella sua famosa imitazione ma dopo
pochi secondi ho compreso che era il vero Venditti. Guzzanti è molto più reale
nell’interpretare Venditti di quanto non lo sia lo stesso Venditti.
Il film scorre facendo scempio di tutte le regole
cinematografiche che Sorrentino una volta conosceva. Pochissima adesione verso
i personaggi visti costantemente come delle macchiette e senza mettere mai un
briciolo di umanità; ma non perché si voglia spingere il tasto verso il
grottesco (dispiace fare ancora paragoni ma anche Fellini è un esempio troppo
lontano per questo Sorrentino) quanto per sottolineare, da parte dello stesso
regista, un’umanità irrecuperabile nella sua totalità e per questo (cosa
peggiore in assoluto) automaticamente assolta perché così fan tutti. A metà film cerco con lo sguardo i film di Ken
Loach nella mia videoteca per farmi un po’ di coraggio e ricordarmi che avere
etica nella vita è una dote ancora presente in qualcuno. Il film continua a
dispiegarsi nella sua (ripetitiva) descrizione del malessere della società. Io non
so più a cosa attaccarmi, penso a tutte le volte che ho scritto di Servillo
come il migliore interprete italiano e di quando parlavo di Sorrentino come la
grande promessa del nostro cinema. Rimango muto fino alla fine quando la voce
di Gabriella al mio fianco mi ricorda di avere sottoposto la mia compagna a questo
strazio di due ore. Ma lei sintetizza con una sola frase il senso di tutte
queste mie parole: “E’ l’Italia che rovina le persone”. Chapeau!
Sergio
Ho finalmente letto la tua recensione e, nonostante avessi bene in mente la conversazione 'live' nella vostra cucina e, quindi, avessi già nota le tue opinioni, le tue parole scritte hanno avuto comunque l'effetto di aria fresca.
RispondiEliminaDa amante del cinema con molto meno occhio, esperienza e conoscenza di te, posso dire di trovare la tua recensione semplicemente perfetta. Mi spiace solo di non averla letta in tempo, in quanto l'avrei condivisa con i miei amici commentatori sui social networks.
Sul film, come già discusso, io l'avrei trovato uno splendido corto di 15 minuti al massimo. So che non condividi questa mia opinione, ma volevo lasciare qui un commento completo. Detto questo, mi sono ripromesso di leggere con più costanza questo tuo bellissimo blog.
Un grande abbraccio!
Stefano
Grazie delle parole Stefano. Un abbraccio e aggiornami sulle tue proiezioni cinematografiche libanesi!
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