Kim Ki Duk è uno di quegli autori per cui vale sempre la
pena intrattenersi. I suoi film, assieme a quelli di Park Chan Wook, hanno
contribuito in modo decisivo a fare conoscere il cinema coreano in Italia.
Dalla fine degli anni Ottanta la sua produzione artistica è stata fondamentale
per ogni appassionato della settima arte. Il suo cinema, fatto di rigore
formale, fortissima violenza espressiva e sublime poesia, ci ha insegnato sulla
moderna cultura orientale quello che Yasujiro Ozu ci ha spiegato sul Giappone
del Novecento.
Pietà
ha
vinto lo scorso anno a Venezia il leone d’oro come miglior film; per Kim non è
certo una novità fare incetta di premi in Europa. Questa pellicola era
particolarmente attesa perché segnava il suo rientro artistico dopo anni di
auto isolamento dovuto a una fortissima depressione (descritta in maniera
strabiliante nel suo video diario Arirang).
Nei sobborghi di una città coreana un uomo gestisce il
recupero dei crediti per conto di un’organizzazione criminale, i metodi che
segue sono quelli di un torturatore. Il trattamento che destina agli insolventi
sono di una violenza devastante, il tutto mentre la sua vita trascorre piatta e
solitaria. Ma l’apparire di una donna misteriosa, che afferma di essere la
madre, comincerà a incrinare le sue certezze facendo diventare il protagonista un
soggetto debole (o meglio umano), prigioniero delle sue paure e del trauma di
poter perdere la persona che ama. Come sempre il soggetto della storia, nelle
mani del regista coreano, diventa ricco di metafore e simbolismi che
trasformano la narrazione in un trattato sulla condizione umana. Purtroppo emerge
la sensazione che ciò che Kim mostra in questo film sia la ripetizione (in
peggio) di ciò che egli stesso ha fatto nelle sue opere passate. La solitudine,
la vendetta, la pietà, concetti centrali della sua opera, eccedono
probabilmente troppo, fino a diventare metafore troppo scoperte e, di
conseguenza, superflue.
Se fosse stato il primo film visto di Kim Ki Duk avrei,
probabilmente, dato un parere positivo ma so di cosa lui è capace quando non
premette, alla propria ispirazione, una troppo forzata volontà di essere didascalico. A
ciò si aggiunge un’eccessiva voglia di colpire con uno stile visivo un po’ troppo
duro (anche per chi è passato indenne alla visione de L’isola).
A differenza di altri autori, definitivamente rovinati da
una mortale auto celebrazione, continuo a confidare nel cinema di Kim Ki Duk
probabilmente perché continuo a ritrovare nelle sue storie una meravigliosa
ossessione alla ricerca dell’umanità di un mondo ormai a brandelli. Non sempre
riesce a essere lucido ma è sicuramente coerente. E allora, in attesa del suo ultimo
Moebius, mi rimetto a guardare quello
che ritengo essere uno dei film più belli del decennio scorso: La samaritana.
Sergio
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