venerdì 8 novembre 2013

Pietà - Kim Ki Duk


Kim Ki Duk è uno di quegli autori per cui vale sempre la pena intrattenersi. I suoi film, assieme a quelli di Park Chan Wook, hanno contribuito in modo decisivo a fare conoscere il cinema coreano in Italia. Dalla fine degli anni Ottanta la sua produzione artistica è stata fondamentale per ogni appassionato della settima arte. Il suo cinema, fatto di rigore formale, fortissima violenza espressiva e sublime poesia, ci ha insegnato sulla moderna cultura orientale quello che Yasujiro Ozu ci ha spiegato sul Giappone del Novecento.
Pietà ha vinto lo scorso anno a Venezia il leone d’oro come miglior film; per Kim non è certo una novità fare incetta di premi in Europa. Questa pellicola era particolarmente attesa perché segnava il suo rientro artistico dopo anni di auto isolamento dovuto a una fortissima depressione (descritta in maniera strabiliante nel suo video diario Arirang).
Nei sobborghi di una città coreana un uomo gestisce il recupero dei crediti per conto di un’organizzazione criminale, i metodi che segue sono quelli di un torturatore. Il trattamento che destina agli insolventi sono di una violenza devastante, il tutto mentre la sua vita trascorre piatta e solitaria. Ma l’apparire di una donna misteriosa, che afferma di essere la madre, comincerà a incrinare le sue certezze facendo diventare il protagonista un soggetto debole (o meglio umano), prigioniero delle sue paure e del trauma di poter perdere la persona che ama. Come sempre il soggetto della storia, nelle mani del regista coreano, diventa ricco di metafore e simbolismi che trasformano la narrazione in un trattato sulla condizione umana. Purtroppo emerge la sensazione che ciò che Kim mostra in questo film sia la ripetizione (in peggio) di ciò che egli stesso ha fatto nelle sue opere passate. La solitudine, la vendetta, la pietà, concetti centrali della sua opera, eccedono probabilmente troppo, fino a diventare metafore troppo scoperte e, di conseguenza, superflue.
Se fosse stato il primo film visto di Kim Ki Duk avrei, probabilmente, dato un parere positivo ma so di cosa lui è capace quando non premette, alla propria ispirazione, una troppo forzata volontà di essere didascalico. A ciò si aggiunge un’eccessiva voglia di colpire con uno stile visivo un po’ troppo duro (anche per chi è passato indenne alla visione de L’isola).

A differenza di altri autori, definitivamente rovinati da una mortale auto celebrazione, continuo a confidare nel cinema di Kim Ki Duk probabilmente perché continuo a ritrovare nelle sue storie una meravigliosa ossessione alla ricerca dell’umanità di un mondo ormai a brandelli. Non sempre riesce a essere lucido ma è sicuramente coerente. E allora, in attesa del suo ultimo Moebius, mi rimetto a guardare quello che ritengo essere uno dei film più belli del decennio scorso: La samaritana.

Sergio

Trailer: 



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