venerdì 15 luglio 2011

Paolo Sorrentino - Il divo

Non era facile fare un film su Andreotti, considerato il fatto che molti dei personaggi di quella storia sono ancora vivi - in primis il protagonista, il divo Giulio, il Papa nero, il gobbo - chiamiamolo come vogliamo, ogni epiteto nasconde critica e ammirazione. Ma Sorrentino ha avuto la geniale idea di trattare l'argomento con una forte dose di surrealismo e di grottesco: una soluzione comoda, senz'altro, ma che ha anche il merito di condurre, attraverso il paradosso e l'iperbole dei toni, verso una riflessione sul potere, sul suo significato e sulla sua espressione. Riguardo ai fatti narrati e sulle responsabilità di essi, Sorrentino si affretta a precisare che non possono avere il rango di verità: essi infatti, per scelta degli autori, sono la messa in scena di una ricostruzione parziale (ad esempio, dei racconti dei pentiti), ma che è funzionale all'idea di potere che si vuol far trasparire dal film, e che indubbiamente ha caratterizzato quegli anni cruciali della nostra storia: l'idea di un potere oscuro, quasi insondabile dalla gente comune, volta all'autoconservazione, ma non priva di un'attenzione al benessere del Paese quasi orwelliana. Un potere caratterizzato dalla moltitudine di intrecci, dalla complessità e ambiguità degli obiettivi, che non può fare a meno di compromettersi, che deve prendere atto, che deve "collaborare" per sfruttare, piuttosto che cercare di sconfiggere, debellare, estirpare.
Davvero ottimi gli interpreti, su tutti Toni Servillo (all'ennesima prova magistrale), che ha cercato di rendere la figura di Andreotti concentrandosi sulle sue contraddizioni, sulle sue angosce (in particolare quelle legate alla morte di Moro), dando espressione alle stesse riflessioni del protagonista, che costituiscono poi lo stesso espediente narrativo della pellicola. Espediente che crea una certa dose di straniamento nello scarto tra la riflessione serena dello statista sugli avvenimenti e la crudeltà dei loro effetti e della loro rappresentazione.
Tutt'intorno, una classe politica onnipotente e decadente, in cui vi è un egocentrismo esasperato, e ben pochi casi di umanità, il tutto evidenziato magistralmente da alcune scene grottesche (anche grazie alle devianti e geniali colonne sonore): su tutte, la caterva di omicidi politici messi in scena al ritmo di un forsennato rock (Andreotti rock star?), oppure l'allegra "surfata" di Pomicino sul Transatlantico, oppure la romantica ballata che accompagna il presunto "bacio" di Andreotti al mafioso.
Da antologia due scene: quella del monologo di Andreotti, che delinea con le parole l'immagine di potere rappresentata nell'intero film, e quella in cui lo statista, dopo l'autorizzazione del Senato a procedere nei suoi confronti, stringe la mano della moglie mentre sullo schermo del televisore passano le immagini di Renato Zero che canta I migliori anni della nostra vita.
Real_Gone

mercoledì 13 luglio 2011

Cronenberg prima puntata... VIDEODROME



<<Siamo condannati ad essere liberi.
Dobbiamo continuare a provare a
strappare il controllo al mondo,
all’universo, alla realtà, anche se
questo tentativo potrebbe essere
senza speranza>>.

La tecnologia inizia letteralmente a “prendere corpo” in una delle opere più decisive di Cronenberg, che contribuisce a fargli fare un salto in avanti verso un cinema più radicale, ormai difficilmente inquadrabile sotto l’etichetta di un genere: Videodrome.
Il protagonista Max Renn è infatti al centro di un’avventura immateriale, ma fatta di una atmosfera allucinatoria dove le videocassette si contraggono sanguinolente e in cui la sua tv pulsa, si rigonfia e ansima come fosse prossima all’orgasmo, protende grosse labbra pronte ad inghiottirlo ed esplode eruttando sangue, viscere e carne. Cronenberg ci mostra la televisione come elemento “incorporato” al nostro sistema nervoso, in cui secondo le parole del professor O’Blivion (sulla scia di Mc Luhan) <<lo schermo televisivo è la retina dell’occhio della mente. Dunque lo schermo televisivo è una parte della struttura fisica del cervello umano>>. Max arriva a configurarsi come una vera e propria “appendice della macchina”, si muta in una sorta di mostro bionico metà uomo e metà videoregistratore, e viene posseduto da videocassette (inserite in una fessura vaginale apertasi sul suo stomaco) contenenti probabilmente le sue stesse allucinazioni. Il suo braccio termina come una pistola di carne che lo renderà omicida “agito” da volontà superiori; ancora una volta l’eroe cronenberghiano è al centro di una cospirazione tra due organizzazioni: la Spectacular Optical e la “Missione Catodica”. Ancora una riflessione sul “controllo”: Max è vittima di un complotto o i vari personaggi sono solo pedine nel gioco crudele e sconcertante dei suoi incubi?
Una volta assunto lo schermo televisivo come interfaccia integrato al nostro sistema nervoso, Cronenberg riflette sull’ <<intossicazione iconica derivata dal consumo di immagini televisive e sulle modificazioni fisiche e antropologiche che la diffusione della tv sta apportando all’apparato percettivo umano>> e sulla nostra necessità di divorare giornalmente immagini, al punto da concepire una missione “catodica” che, alla stregua di un’associazione umanitaria, si occupa di riabilitare i rifiuti della società semplicemente sottoponendoli al consumo passivo di immagini televisive, allo scopo di “reinserirli nella realtà”.
Il programma televisivo “Videodrome” infatti, che per le sue immagini “dure” ha catturato la curiosità di Max, ha il potere di generare in chi lo guarda un tumore maligno al cervello, causa delle allucinazioni, il quale si rivelerà poi, ancora nelle parole di O’ Blivion, un nuovo organo:  <<Dopotutto non c’è nulla di reale al di fuori della nostra percezione della realtà, non è vero? Non sei d’accordo anche tu?>>
Il virtuale è già la nostra realtà, sembra volerci dire Cronenberg. E ancora secondo O’Blivion: <<La realtà è meno della televisione>>.
Compare ancora una volta però l’elemento virale, la fenomenologia del contagio, e Max alterna alla sua curiosità verso il divenire macchina la <<repulsione per il contagio macchinico>>, in quanto portatore di un elemento estraneo, che a poco a poco contaminerebbe il corpo umano. Ma con ciò Cronenberg non si pone in una posizione di rifiuto verso al modernità tecnologica, piuttosto avverte il potenziale di un cambiamento avveniristico contenuto in esse al cospetto del quale forse noi non siamo ancora abbastanza “adeguati”. Ci mostra come i nuovi media esigano una “nuova carne”, <<un nuovo corpo, un nuovo spettatore: che può nascere – e forse sta già nascendo – solo dalla soppressione del vecchio spettatore, quello cresciuto nell’illusione che le immagini fossero sempre e comunque una “riproduzione” della realtà>>.
Da questo punto in poi Cronenberg ci metterà sempre in condizione di dubitare sulla natura delle immagini che ci propone: sane o virali? Reali o allucinatorie? Soggettive o oggettive? Innestando in noi un “dubbio sistematico” che fa però di noi parte attiva nella decifrazione.



Gabriella.


guarda il video

sabato 9 luglio 2011

L'illusionista - Sylvain Chomet



Ed ecco che, a quasi trent’anni dalla sua morte, il mito e la magia di Tati ritorna a vivere attraverso questo delicato e raffinato omaggio al maestro francese.



“I maghi non esistono”

E così che si chiude il secondo lungometraggio dell’animatore e registra francese Sylvain Chomet, tratto da una sceneggiatura, mai divenuta film, del magico e strabiliante Jacques Tati.
L’intera opera, però, rovescia il messaggio di questo amaro e poetico finale: la magia esiste, ci circonda, illumina le nostre vite e l’accoppiata Chomet-Tati ne è la prova.
Chomet,infatti, rievoca e ricrea, sempre con grande riservatezza, cortesia e rispetto, quella dolce e leggera comicità fatta di mimica facciale e movimenti corporei, in cui la parola è bisbigliata e serve da contorno; un maestro di garbata e contenuta comicità,Tati, capace di raccontare con un linguaggio essenzialmente visivo, mimico e delicato la società francese nel suo divenire dinamica, meccanica, tecnologia e dominata dal mito del consumismo.
Un capolavoro di poesia e leggerezza, con uno Chomet , quasi a non considerarsi all’altezza, che rimane dietro le quinte lasciando Tati padrone della scena, muovendone i fili con estrema delicatezza e amorevole rispetto.
In una storia che parla di crescita individuale, ma anche di degrado e di impoverimento intellettuale in una società poco propensa a considerare l’arte un veicolo di crescita spirituale.
Un mondo interessato al progresso, alle novità tecnologiche che ha dimenticato cosa vuol dire sognare, viaggiare e volare sulle ali della magia, che non vuole più perdersi nei meandri della forza  illusoria dei prestigiatori, degli illusionisti e dei giocolieri; ma anche un film sul divenire adulti, sull’abbandono della propria anima più bambinesca e candida, sulla progressiva integrazione nell’ordinamento sociale e l’accettazione delle sue regole e convenzioni.

Il nostro illusionista-monsieur Hulot comprende quando è il caso di farsi da parte, quando è il caso di chiudere il sipario. Salutare una società troppo adulta, non pronta ad accogliere le sue magie, le sue illusioni, come la giovane Alice che cresce, si integra, trova l’amore e viene spogliata da tutte le sue illusioni comprendendo che i maghi non esistono ma solo per chi ha deciso di crescere e per il mondo contemporaneo. E allora monsieur Tati è costretto a vagare, a vagabondare, con il suo ombrello, la sua pipa, il suo cappello e il suo impermeabile alla ricerca di un mondo infantile, candido, inesperto, curioso e capace di guardare con occhi vogliosi di sapere e  conoscenza. Capace di incantarsi, sorprendersi e meravigliarsi di fronte ad un cilindro ed un coniglio, pronto ad essere soggiogato dalla forza illusoria, ingannevole dell’arte.
Con una dignità meritevole di rispetto ed apprezzamento, di chi accetta la fine del proprio compito e ricerca altre vie per rinascere,il nostro illusionista conserva la propria arte per chi è pronto ad aprire gli occhi del proprio cuore per lasciarsi trasportare in un universo magico, poetico, incantato e fatato, incontaminato dal progresso e dal consumismo, abitato da chi ha bisogno di nutrirsi di musica, di poesia, di cilindri, di ventriloqui, di pagliacci e di giocolieri.

Un’arte incapace di scuotere e di destare curiosità non perché ha perso la sua forza e il suo fascino, ma perché è inserita in contesto che sta cambiando, che corre incontro al progresso e alle leggi del mercato. In una società in cui tutto è acquistabile e vendibile, anche l’arte si trasforma in bene di consumo mortificando chi riconosce nel suo potenziale creativo la possibilità di crescita individuale; e allora capita di essere scrutati da occhi incapaci di guardare all’arte come oggetto di fascinazione e creatrice di un mondo immaginario in cui tutto è possibile.
Illusionisti, clown, ventriloqui e giocolieri rassegnati e disillusi, ma al contempo fiduciosi nella nascita in una comunità di persone che riscoprano il valore dell’arte, guidati dalla forza della loro immaginazione, assetatati ed affamati di candore artistico.

E allora si che bisognerebbe non crescere mai, rimanere increduli e sbalorditi di fronte alla potenza illusoria dell’arte.


Valeria

venerdì 8 luglio 2011

Louis Malle - Zazie dans le métro



Fare una trasposizione cinematografica di Zazie nel metrò non è affatto un lavoro facile. Queneau è completamente schizzato, ha un modo di scrivere tutto suo, onirico, a tratti grottescamente delirante, comunque molto letterario e molto poco cinematografico. Quando l’ho letto, anni fa, ho pensato che mai al mondo qualcuno avrebbe potuto trarne un film.
E invece il film uscì, e a un solo anno di distanza dalla pubblicazione del libro. Forse leggendo un libro così bello, il regista francese si è voluto misurare con questa sfida. Malle è Malle, e il periodo è tra i migliori in assoluto della storia del cinema. I registi si alimentano di idee a vicenda, dipingono tutti una Parigi in cui credo sia impossibile non sognare di viverci, almeno per un po’.

Una insopportabile (ma adorabile) bambina arriva a Parigi col sogno di vedere il metrò, ma questo è chiuso per sciopero. Viene ospitata da uno zio particolare e, fuggendo di casa, vive mille avventure incontrando personaggi stranissimi.
Il tratto grottesco e surreale del libro è portato cinematograficamente attraverso riprese velocizzate, gag comiche alla fratelli Marx, giochi di luce, giochi di musica e giochi di montaggio.
Tutto il film sembra un gioco, un divertentissimo gioco tra i personaggi del film in cui lo spettatore si sente partecipe dall’inizio alla fine. Arrivati ai titoli di coda, si ha la sensazione di aver fatto un sogno strano, ma bello, di quelli in cui si ricordano solo le sensazioni e non cosa è successo in particolare.
Come in ogni altro film che ho visto del periodo della Nouvelle Vague, anche in questo ritrovo una piacevole sensazione difficile da spiegare, un po’ come un pasto fatto in casa con persone care; nutriente, gustoso, abbondante, e circondato da un accogliente alone di affetto che solo in una casa può trovarsi. Non so se ho reso bene l’idea, manca qualche sfumatura ma non riesco proprio a esprimerla a parole. Vi lascio con il trailer del film. Una buona giornata a tutti. 


Robin

mercoledì 6 luglio 2011

Dziga Vertov - L'Uomo con la macchina da presa

“Basta con le marce, futuristi,
un balzo nel futuro […]
Basta con le verità da un soldo.
Ripulisci il cuore dal vecchiume.
Le strade sono i nostri pennelli.
Le piazze le nostre tavolozze.
Non sono stati celebrati
dalle mille pagine del libro del tempo
i giorni della rivoluzione!
Nelle strade, futuristi,
tamburini, e poeti!”

[Vladimir Majakovskij, da “Ordine all’esercito delle Arti”, 1918]



Grandi sono i sogni e le speranze dei futuristi russi di quegli anni, che vedono nella rivoluzione bolscevica e nella nascita dell’Unione Sovietica il passo verso quello noto come “il Radioso Avvenire”. Così come Majakovskij nella poesia e nella pittura, Dziga Vertov, e altri grandi e noti cineasti, compivano le loro ricerche e le loro sperimentazioni in campo cinematografico, supportati da quello che era il nuovo governo.
Il Cinema, tra tutte le Arti, è sicuramente la più importante” [V.I. Lenin]
Non soltanto regista, ma soprattutto teorico del cinema, Dziga Vertov condensa le sue ricerche e le sue idee in questo grande e indiscusso capolavoro.
Siamo nel 1929, già il mondo ha conosciuto svariati maestri che hanno rivoluzionato il cinema, che ne hanno fatto un’arte e che ne hanno dimostrato gli innumerevoli potenziali.
Oltre oceano, negli Stati Uniti, erano già sorti i primi magnati che si erano accorti di quanto si potesse guadagnare sfruttando il cinema, e già cominciava a prendere piede l’industria hollywoodiana. La Germania ci offriva ancora per pochi anni talenti del calibro di Murnau e Lang, mentre in Italia già aveva preso piede l’Istituto Luce e il cinema di propaganda.
In Russia, negli anni della rivoluzione (1917-1921), ci fu un vero e proprio “arruolamento” di artisti.
Persone come Ejzenshtejn, Pudovkin, Kuleshov, Dovzenko, Vertov, Tissé, formarono il Comitato del Cinema e fondarono a Mosca una “Scuola d’Arte Cinematografica”; la prima al mondo.
Il cinema diventava un'arma a servizio della rivoluzione, era un mezzo a servizio delle masse, che doveva contribuire all’acculturazione del paese.
Per circa un quarto di secolo, lo Stato sovietico rimase il solo al mondo a non considerare il suo cinema come un'industria sottomessa alle leggi del profitto.
E’ un periodo di esplosione artistica, i capolavori si contano a decine. Ma come tutti i periodi d’oro, ha vita corta.
Con la stabilizzazione del potere e l’avvento del totalitarismo staliniano, le cose cambiarono presto.
L’uomo con la macchina da presa” è uno degli ultimi capolavori dell’era d’oro del cinema sovietico. Vertov ha condotto con maestria un bellissimo esperimento cinematografico: per la prima volta nella storia, girava un film muto senza didascalie. Solo immagini. Comprensibile in ogni parte del globo, sia da intellettuali, che da analfabeti. Un film per tutti.
Che cosa racconta? Non so dare miglior risposta che “la vita vissuta”.
Vertov va in giro per le strade di Mosca, e riprende le persone, cosa fanno, dove vanno a lavorare, dove a svagarsi. Come vivono insomma. “Spia” le loro vite attraverso “l’occhio” della macchina da presa.
Niente attori, ma vita vera, uomini e donne vere. Microstrorie di vita vissuta del 1929 unite dal filo conduttore di un cineoperatore che va in giro con questa macchina da presa a riprendere tutti.
Dziga Vertov pone il cinema come arte della vita. Facendo tesoro degli esperimenti di montaggio del collega Ejzenshtejn, fu tra i primi a comprendere con quanta facilità si potesse distorcere la realtà a fini ideologici, ma a generare comunque poesia.

A neanche un anno dall’uscita del film, sconvolto dai sogni infranti e soffocato dalla censura, si suicidava Vladimir Majakovskij,  icona intellettuale della rivoluzione bolscevica.
L’evento sconvolse il paese, dal primo all’ultimo cittadino (o “compagno”, se vogliamo adeguarci alla terminologia del tempo).
Per gli intellettuali non si trattava solo della pesante perdita di un amico, ma anche di un monito che annunciava che le cose stavano cambiando in maniera drastica e terrificante. Gli eventi della storia, ne diedero conferma.
A partire dal 1930, tra l’avvento del sonoro da un lato, e la soffocante censura staliniana dall’altro, anche i più grandi registi furono costretti a girare film di propaganda, noiosi, retorici, e ripetitivi all’inverosimile. Si prendano ad esempio Aleksandr Nevskij di Ejzenshtejn, o Ninnananna di Vertov, film che conservano il tocco da maestro, ma in cui si percepisce un’invadente presenza esterna, che costringe il regista a usare il proprio genio per comunicare messaggi che non condivide.
Il geni rimangono, e continuano a lavorare (anche perché se non l’avessero fatto con ogni probabilità sarebbero stati ammazzati o deportati nei gulag) ma i capolavori sono ormai parte di un passato da sognatori, che resterà solo in pellicola.
Il cinema non era più a servizio delle masse, ma a servizio del culto della personalità del dittatore.
Per tornare a regalarci capolavori, l’Unione Sovietica dovrà aspettare la morte di Stalin, nel 1953.
Con l’uscita postuma nel 1958 della seconda parte dell’Ivan il Terribile di Ejzenshtejn, il regista riscattava la sua memoria di genio del cinema, e l’Unione Sovietica si preparava a entrare nel decennio degli anni ’60, dove giovani cineasti sovietici, influenzati sicuramente dalla dirompente Nouvelle Vague francese, cominciarono a produrre dei capolavori d’inestimabile valore artistico, rendendo onore ai connazionali geni del passato come Dziga Vertov.

Robin

sabato 2 luglio 2011

Oasis - Lee Chang-dong


Può la mano di un regista dipingere nello stesso istante le aspre venature della crudeltà umana e la delicata immagine di un amore puro e disinteressato come quello dei due giovani protagonisti di questo film? A quanto pare la mano di Lee Chang-dong è capace di tutto questo.


Lui, giovane ex galeotto colpito da un lieve ritardo mentale, e lei, giovane fanciulla affetta da paralisi celebrale; reietti, ripudiati e respinti dalle rispettive famiglie, mosse esclusivamente da crudele egoismo, per niente propense ad accettare quello che la società ha già bollato come “scarto", interessate solamente al proprio tornaconto personale e alla conservazione della propria dignità; troppo occupati, i suoi membri, a giocare a fare gli adulti per comprendere che a volte il mondo ha bisogno di essere osservato con gli occhi innocenti di un bambino per apparire più digeribile. E di questo sono consapevoli i due giovani protagonisti, abituati ad osservare ciò che li circonda con una purezza, una spensieratezza e un’innocenza tipicamente infantili, trascinati di volta in volta nel profondo baratro sociale, ma capaci sempre di salvare se stessi per ritornare  a vivere il loro amore candidamente.

Sullo sfondo una società dominata da xenofobia e pregiudizi, in cui la legge del più forte si erige a totem; una sorta di darwinismo sociale in cui il più forte, il più accettato e il più integrato vince su colui etichettato come “disadattato”.
E’ qui che Chang-dong trova la forza di rovesciare tutto questo mettendo al centro della vicenda la storia d’amore tra due reietti e trasformando il loro amore in un’ancora di salvezza di fronte all’abominio umano.
Un amore che si nutre di sogni, di ideali, di immaginazione e che, nel momento un cui incontra la realtà, si trova a scontrarsi con l’intolleranza comune e con le pseudo regole di istituzioni chiamate a vigilare e ad operare a favore del più forte; un amore che si nutre di poesia, la stessa poesia con cui Chang-dong trasforma i riflessi di luce di uno specchio in piccole farfalle bianche e in una candida colomba; un amore che trascende pregiudizi e razzia sociale, un’oasi di salvezza le cui acque purificano e cancellano il fango nel mondo circostante.
Rami secchi da estirpare coloro che hanno dimenticato il vero senso della solidarietà, della fratellanza e dell’amore.



Lee Chang-dong con un linguaggio iconico, metaforico e simbolico ci trascina in una piccola oasi di poesia e bellezza che poco ha a che vedere con il degrado morale ed etico della società contemporanea; la sua mano è capace di coniugare ed amalgamare gli aspetti, così distanti e contrastanti, dell’animo umano, portandoci ad odiare, e contemporaneamente ad amare, noi stessi in una danza che oscilla tra umanità e disprezzo.
Mostrandoci e documentando come l’animo umano possa essere capace di gravi sgarbi, in realtà, ci da una grande lezione: l’amore non conosce né discriminazioni né definizioni.
Bisogna solo imparare a guardare nella profondità di ognuno di noi per capire che in fondo non siamo poi così diversi. Non sarà un handicap a renderci meno capaci di amare, meno capaci di gesti così drasticamente delicati e premurosi; se imparassimo a guardare meglio ci renderemmo conto di essere circondati da tante piccole oasi capaci di dare refrigerio alle nostre piccole vite.



Valeria

venerdì 1 luglio 2011

Louis Ferdinand Céline (27-05-1894 / 01-07-1961)

Oggi sono cinquant’anni che Louis Ferdinand Destouches, medico e scrittore meglio noto come Céline, ha deciso di andare da qualche altra parte e lasciarci solo i suoi libri per ricordarlo. A poche ore di distanza da quel primo luglio del 1961 un altro scrittore,Ernest Hemingway, si sparava un colpo di fucile decidendo di farla finita. La morte di Céline passò sotto silenzio, quella di Hemingway fu in risalto sui giornali di tutto il mondo.
Di Céline, probabilmente lo scrittore più scomodo del Novecento, si parlava malvolentieri. Uno scrittore maledetto, un collaborazionista, un uomo bruciato dalle sue follie… Usato successivamente da beceri gruppi reazionari, che nulla capivano di letteratura, come manifesto per propagande deliranti. A distanza di cinquant’anni per fortuna la situazione è cambiata, non si usano più le lenti distorte dell’ideologia per valutare l’opera di quello che ritengo essere uno dei più grandi scrittori del Novecento.
Erano i primi anni Novanta, quando mi imbattei per caso nelle pagine del “Viaggio al termine della notte” e finalmente riuscì a comprendere cosa voleva dire un libro che ti cambia la vita, poi passai al suo secondo romanzo “Morte a credito” e lo shock fu ancora maggiore. Céline mi era ormai entrato dentro in modo definitivo e sapevo che non mi avrebbe più lasciato. Dopo vent’anni il mio giudizio è rimasto immutato. Leggere tutte le sue opere, i saggi critici a lui dedicati, scriverci la mia tesi di laurea,mi hanno permesso di comprendere meglio il suo mondo, la sua poetica e il suo incredibile laboratorio di scrittura, ma tutto ciò nulla ha tolto alla capacità di emozionarmi ogni volta che prendo in mano quei suoi due primi libri.
Sarebbe impossibile tratteggiare in poche righe la vita e il percorso poetico di qualunque scrittore figuriamoci di un gigante come Céline. Dall’entusiasmo generale per i suoi due primi libri (1932 e 1936), all’allucinato scrittore dei pamphlet antisemiti (1937-1941);  dalla fuga in Germania alla fine della guerra, all’arresto in Danimarca per collaborazionismo e ai suoi ultimi anni in Francia, la sua vita è stata essa stessa un romanzo. Riuscì a essere amato e odiato da tutti. Ma lui continuava a spiazzare, fedele solo alla sua lucida, feroce, disillusa onestà intellettuale. Come può un uomo scrivere i passi più carichi di amore e di pietà verso tutto ciò che è vita e poi diventare uno dei più feroci e cinici fustigatori dell’essere umano (rintanandosi alla fine in una piccola villetta circondato solo dalla sua compagna e un numero indefinito di cani e gatti abbandonati)? Volevo cercare di capire come un uomo può passare da un amore così profondo a un odio (apparentemente) feroce. Non mi accontentavo delle soluzioni di comodo, Céline impazzito, Céline pagato che critici incompetenti affibiavano con fretta alla sua figura. Doveva esserci qualcosa di diverso… non so se sono arrivato a una conclusione (il bello dello studio e della ricerca letteraria consiste nel non arrivare mai a un dato definitivo),  ma di certo so che la poetica di Céline cammina per un binario assolutamente coerente con quella che era la sua visione dell’uomo. Amava gli uomini di un amore totale ma appena scoprì che erano capaci (anche) di azioni malvage cominciò a detestarli, a scaricare addosso all’umanità i peggiori improperi, ma lo faceva per difendere quello che era stato e quello che continuava ad essere nel profondo del suo animo. Non si fidava più della moltitudine, ma  soltanto dei singoli, dai vecchietti indigenti che curava gratuitamente a Meudon quando, ormai vecchio e dimenticato da tutti aspettava la fine, agli animali abbandonati che custodiva con amore riuscendo a incanalare quel suo profondo amore verso tutte quelle forme di vita che non avevano altro modo di ringraziare che con lo sguardo,quello che bastava a Céline per sentirsi uomo.
Céline mi ha insegnato,e continua a insegnarmi, ciò che ritengo essere il senso profondo di una vita coerente con il proprio senso etico. Di un amore non teorico e a tanto al chilo con cui molti si riempiono la bocca, ma di quello vero, disinteressato che siamo capaci di dare quando nessuno ci vede,con il pudore della tenerezza, quello che troviamo negli occhi di un cane quando facciamo loro una carezza o nella gioia di un amico quando gli stiamo accanto per il solo piacere di condividere un pezzo di strada insieme.

Sergio
Brano tratto dal libro "Da un castello all'altro"
Brano tratto dal libro "Viaggio al termine della notte"