Non era facile fare un film su Andreotti, considerato il fatto che molti dei personaggi di quella storia sono ancora vivi - in primis il protagonista, il divo Giulio, il Papa nero, il gobbo - chiamiamolo come vogliamo, ogni epiteto nasconde critica e ammirazione. Ma Sorrentino ha avuto la geniale idea di trattare l'argomento con una forte dose di surrealismo e di grottesco: una soluzione comoda, senz'altro, ma che ha anche il merito di condurre, attraverso il paradosso e l'iperbole dei toni, verso una riflessione sul potere, sul suo significato e sulla sua espressione. Riguardo ai fatti narrati e sulle responsabilità di essi, Sorrentino si affretta a precisare che non possono avere il rango di verità: essi infatti, per scelta degli autori, sono la messa in scena di una ricostruzione parziale (ad esempio, dei racconti dei pentiti), ma che è funzionale all'idea di potere che si vuol far trasparire dal film, e che indubbiamente ha caratterizzato quegli anni cruciali della nostra storia: l'idea di un potere oscuro, quasi insondabile dalla gente comune, volta all'autoconservazione, ma non priva di un'attenzione al benessere del Paese quasi orwelliana. Un potere caratterizzato dalla moltitudine di intrecci, dalla complessità e ambiguità degli obiettivi, che non può fare a meno di compromettersi, che deve prendere atto, che deve "collaborare" per sfruttare, piuttosto che cercare di sconfiggere, debellare, estirpare.
Davvero ottimi gli interpreti, su tutti Toni Servillo (all'ennesima prova magistrale), che ha cercato di rendere la figura di Andreotti concentrandosi sulle sue contraddizioni, sulle sue angosce (in particolare quelle legate alla morte di Moro), dando espressione alle stesse riflessioni del protagonista, che costituiscono poi lo stesso espediente narrativo della pellicola. Espediente che crea una certa dose di straniamento nello scarto tra la riflessione serena dello statista sugli avvenimenti e la crudeltà dei loro effetti e della loro rappresentazione.
Tutt'intorno, una classe politica onnipotente e decadente, in cui vi è un egocentrismo esasperato, e ben pochi casi di umanità, il tutto evidenziato magistralmente da alcune scene grottesche (anche grazie alle devianti e geniali colonne sonore): su tutte, la caterva di omicidi politici messi in scena al ritmo di un forsennato rock (Andreotti rock star?), oppure l'allegra "surfata" di Pomicino sul Transatlantico, oppure la romantica ballata che accompagna il presunto "bacio" di Andreotti al mafioso.
Da antologia due scene: quella del monologo di Andreotti, che delinea con le parole l'immagine di potere rappresentata nell'intero film, e quella in cui lo statista, dopo l'autorizzazione del Senato a procedere nei suoi confronti, stringe la mano della moglie mentre sullo schermo del televisore passano le immagini di Renato Zero che canta I migliori anni della nostra vita.
Davvero ottimi gli interpreti, su tutti Toni Servillo (all'ennesima prova magistrale), che ha cercato di rendere la figura di Andreotti concentrandosi sulle sue contraddizioni, sulle sue angosce (in particolare quelle legate alla morte di Moro), dando espressione alle stesse riflessioni del protagonista, che costituiscono poi lo stesso espediente narrativo della pellicola. Espediente che crea una certa dose di straniamento nello scarto tra la riflessione serena dello statista sugli avvenimenti e la crudeltà dei loro effetti e della loro rappresentazione.
Tutt'intorno, una classe politica onnipotente e decadente, in cui vi è un egocentrismo esasperato, e ben pochi casi di umanità, il tutto evidenziato magistralmente da alcune scene grottesche (anche grazie alle devianti e geniali colonne sonore): su tutte, la caterva di omicidi politici messi in scena al ritmo di un forsennato rock (Andreotti rock star?), oppure l'allegra "surfata" di Pomicino sul Transatlantico, oppure la romantica ballata che accompagna il presunto "bacio" di Andreotti al mafioso.
Da antologia due scene: quella del monologo di Andreotti, che delinea con le parole l'immagine di potere rappresentata nell'intero film, e quella in cui lo statista, dopo l'autorizzazione del Senato a procedere nei suoi confronti, stringe la mano della moglie mentre sullo schermo del televisore passano le immagini di Renato Zero che canta I migliori anni della nostra vita.
Real_Gone
Paolo Sorrentino è sicuramente tra i registi italiani più importanti degli ultimi anni. Devo confessare che il suo primo film ("L'uomo in più" anche lì con un grande Toni Servillo) resta, secondo me, il suo capolavoro. Il divo, pur rimanendo un film importantissimo e "necessario", ritengo che pecchi un pò nell'eccessiva messa in mostra di una tecnica cinematografica sempre più barocca. Come se Sorrentino con gli anni si innamori sempre più della macchina da presa... ma in fondo, averne di registi così...
RispondiEliminaGrazie mille per aver pubblicato...
RispondiEliminaGrazie a te per la partecipazione! A presto.
RispondiEliminaAbbiamo a che fare con uno dei registi italiani ed europei più interessanti degli ultimi anni...e uno degli autori contemporanei a cui sono pù legata, essendomi completamente innamorata dei suoi due primi lungometraggi(con un Servillo sempre stratosferico).
RispondiEliminaE' anche che vero che col passare degli anni si è un pò troppo "formalizzato" (Il divo è un'opera che nella prima parte si candida a capolavoro per il suo equilibrio tra contenuto e forma, ma nella seconda parte perde della sua efficacia per lo squilibrio ritmico e per la troppa attenzione all'aspetto formale, perdendo di vista sceneggiatura e racconto), ma è anche vero che le sue opere lasciano sempre qualcosa sulla pelle, qualcosa da cui è difficile scappare, qualcosa con cui bisogna necessariamente fare i conti…