giovedì 27 ottobre 2011

Jane Campion - Bright star


Avevo atteso con impazienza di potere vedere l’ultimo film di Jane Campion. Dopo il deludente In the cut del 2003 aveva diretto solo alcuni cortometraggi e temevo di dovermi ormai accontentare di rivedere i suoi capolavori del passato, dal celebratissimo Lezioni di piano ai non meno belli Un angelo alla mia tavola, Sweetie o Holy smoke. E invece Bright star è un vero e proprio gioiello cinematografico girato con un coraggio e una sapienza da farmi ritenere che possiamo nuovamente considerare Jane Campion come una delle autrici più importanti del nostro tempo.
Bright star narra degli ultimi anni di vita del poeta inglese John Keats morto in giovane età nel 1821 e nome tra i più importanti della nascente poesia romantica. Ma non è (fortunatamente) il solito film romanzato e superficiale sui personaggi celebri del romanticismo che tanto inutile ciarpame hanno prodotto al cinema e in televisione. La Campion riesce a realizzare (da qui il suo coraggio) un vero e proprio inno alla poesia (e di conseguenza alla vita). Attraverso la storia d’amore con Fanny Brawne, relazione mai vissuta fino in fondo dai giovani per le difficoltà economiche che proibivano a Keats di progettare qualcosa, la Campion ci immerge, in maniera quasi miracolosa, in quei magici momenti in cui ti accorgi che l’amore prende possesso della tua vita fino a renderti assolutamente (e felicemente) schiavo di esso.
Ci voleva coraggio per girare un film sulla poesia in anni come questi e non disdegnare di fare leggere ai due bravissimi attori protagonisti (Ben Whishaw e Abbie Cornish) interi componimenti di Keats; ci voleva coraggio per girare una storia d’amore senza una sola scena di nudo ma caricando di un infinito erotismo anche la più semplice carezza. Pochi riescono, come fa Jane Campion, a filmare il trasporto dei sentimenti e per far questo usa tutta la sua capacità (e qui sta la sua sapienza) di sfruttare il mezzo cinematografico. Alcune inquadrature sono talmente belle che credo rimarranno impresse a lungo negli occhi di chi amerà quest'opera.
Alla fine del film senti di stare meglio (anche se la storia non è naturalmente felice). Stai meglio perché capisci che se ti emozioni sei ancora vivo e che, se anche non credi più che la poesia possa salvare il mondo, sai che non smetterai mai di credere che potrà sempre migliorarlo. E se poi ti vien voglia di (ri)leggere le poesie di Keats ecco allora che il cerchio si chiude…
Sergio

Fanny recita la poesia bright star di John Keats
Testo Bright star

lunedì 24 ottobre 2011

Serena Vitale - A Mosca, A Mosca!


Monotematico io? Può darsi..

Da coloro che non nutrono quest'amore ai confini dell'ossessione, mi sono sentito spesso incompreso, ho perfino pensato di avere qualcosa che non andasse, poichè non sono mai riuscito a spiegare con parole il perchè di quest'attrazione così forte. Il libro di una delle slaviste più importanti d'Italia, famosa anche a livello internazionale, è una delle prove che non sono il solo ad essere affetto da questa “malattia” per questo paese così ricco di personalità, così unico e speciale: la Russia.

Serena Vitale, allieva diretta del grande Angelo Maria Ripellino (da cui sicuramente è stata influenzata non poco), andò per la prima volta a Mosca nel 1967, in piena epoca brezhneviana. Inimmaginabili sono le difficoltà di una studentessa poco più che ventenne, catapultata in un mondo ostile che la vede come nemica, in quanto borghese dell'occidente capitalista. Non rare furono le porte in faccia, specie all'inizio. La gente aveva quasi paura a parlarle per non compromettersi.
Ma nonostante queste sofferenze, queste iniziali difficoltà, la Vitale non s'è mai data per vinta, e con coraggiosa testardaggine è sempre andata avanti, inghiottendo tutti i soprusi, accollandosi di essere spiata e seguita dagli agenti del KGB da mattina a sera, mettendosi a contrabbandare prodotti dall'occidente.. tutto per rimanere a Mosca e coltivare il suo amore per questo strano paese e per la sua anima, così profonda, attraente e misteriosa.
Nelle sue parole ritrovo il mio stesso sentimento descritto con una consapevolezza, ovviamente, smisuratamente maggiore. Raccoglie esperienze vissute in quarant'anni e le prende come spunto per parlare dell'essenza dell'Unione Sovietica, e, adesso, della Russia; dei suoi difetti, dei suoi pregi, delle sue contraddizioni e dei suoi profondissimi cambiamenti avvenuti nel corso di questi anni.
L'amore per la letteratura e per l'arte russa l'hanno portata a rischiare grosso, trasportando illegalmente e in più di un'occasione microfilm, libri e quant'altro di autori censurati e vietati dal regime.
Già dal titolo, di chiara maternità cechoviana, si può facilmente intendere quali siano i toni con cui si parla di questa città.
Sebbene la maggior parte degli aneddoti raccontano esperienze agghiaccianti, dalle quali ogni persona scapperebbe a gambe levate se ne avesse a priori la consapevolezza, il libro trasuda ammirazione verso la capitale russa e la passata Unione Sovietica.
Mentre si legge, non si può non sognare di andarci, o ritornarci (dico tutto ciò perfettamente consapevole di quanto mi sia impossibile dare un giudizio imparziale).
Il tono nostalgico che si avverte nelle parole della Vitale non risiede certo per l'epoca Brezhneviana, ma è più una nostalgia per la propria gioventù, un'epoca ormai passata in cui ancora aveva tutto da scoprire. Ora sembra quasi delusa da come le cose siano cambiate, come i radicali cambiamenti degli ultimi vent'anni abbiano spazzato via un intero paese, rimasto solo nella memoria di chi vi ha vissuto.
“E' una questione fisiologica, non ideologica. Uno invecchia, la vita si aggrappa alla memoria. Quella Russia è stata comunque la nostra giovinezza, non puoi farci nulla.” le dice una vecchia amica nel 2007 dopo aver provato, senza successo, ad entrare nell'atrio dell'MGU, loro vecchia università, luogo denso di ricordi.
Non è la prima volta che un'opera, letteraria o cinematografica che sia, riesce a chiarirmi le idee su ciò che provo; è una sensazione tanto strana quanto piacevole, che regala un forte senso di gratitudine verso quell'autore/autrice che ha avuto la capacità di spiegare le mie emozioni molto meglio di quanto avessi potuto fare io stesso.

Robin

venerdì 21 ottobre 2011

François Truffaut (21/10/1984 - 21/10/2011)


Quando il 21 di ottobre del 1984 François Truffaut è morto, il mondo era molto diverso rispetto a quello che ventisette anni potrebbero far credere. Ma il suo cinema continua ad essere una delle opere più imprescindibili per chi ama la settima arte.
Io avevo tredici anni in quell’anno, la stessa età di Antoine Doinel il personaggio di uno degli esordi cinematografici più dirompenti che la storia del cinema ricordi: I quattrocento colpi. Quel film, nel1959, rappresentò la nuova rinascita del cinema dopo quella ufficiale dei fratelli Lumiere; la Nouvelle Vague, Truffaut, Chabrol, Godard, Rohmer e tanti altri. Il cinema rinasceva perché prendeva finalmente consapevolezza della sua grandezza, non più arte di secondo piano ma meritevole di stare sullo stesso piano della letteratura o della pittura. Gli insegnamenti di quell’irripetibile stagione cinematografica (oltre all’esordio di Truffaut come non ricordare anche l’uscita, qualche mese dopo, di Fino all’ultimo respiro di Godard?), si allargarono con una velocità sorprendente dalla Francia a tutto il mondo cambiando profondamente il senso del segno cinematografico. Ci vorrebbe troppo spazio e tempo per parlarne in maniera sufficiente e non è questo il luogo ma un ricordo dell’autore più prestigioso di quel movimento è doveroso farlo.
Truffaut sta al cinema come Balzac o Dostoevskij stanno alla letteratura, credo che la formazione culturale (intesa come crescita dell’individuo) non possa ignorare il cinema dell’autore francese. Proprio quel personaggio di Antoine Doinel, riproposto successivamente in altri quattro titoli, che cresceva assieme a noi sia l’esempio più calzante a tal proposito. Per la prima volta al cinema un personaggio diventava adulto man mano che l’età del suo attore cresceva (il leggendario Jean Pierre Leaud) e, attraverso la sua crescita, noi spettatori prendevamo confidenza con il cinema. E con la vita.
Cominciai a vedere i suoi film a poco più di sedici anni e da allora non ho più smesso, ho imparato a conoscere me stesso attraverso la crescita di Antoine Doinel ad amare le donne attraverso gli sguardi di Catherine Deneuve (La mia droga si chiama Julie) e Fanny Ardant (La signora della porta accanto), a vivere il cinema come magia necessaria alla vita con Effetto notte. Con l’opera di Truffaut so di non essere abbastanza lucido nei giudizi, troppo intenso è il legame che mi tiene stretto ad ognuno dei suoi film; mi viene ancora difficile confrontarmi con qualcuno che non si sia emozionato con l’ultima straziante corsa verso il mare di Antoine Doinel alla fine dei Quattrocento colpi . E’ anche questo il bello di amare, non riuscire a spiegare perché le lacrime possono scendere all’improvviso. A Truffaut devo gran parte della mia formazione, sarei stato un’altra persona senza i suoi film, da tanto tempo non lo rivedo (necessariamente da adulti senti il bisogno di staccare da quelli che consideri come genitori), ma che emozione quando una persona di vent’anni mi dice di avere amato un suo film, tocchi con mano quanto l’arte sia capace di creare unione tra persone distanti per età e condizione sociale.
E’ passato un bel po’ da quando Truffaut ci ha lasciato ma non posso ancora fare a meno di ringraziarlo per quello che mi ha regalato.

Sergio

venerdì 14 ottobre 2011

David Cronenberg - A dangerous method

Noto che a volte i miei personaggi parlano della sofferta rivoluzione della carne. Io dico a me stesso: “ecco di cosa si tratta: l’indipendenza del corpo rispetto alla mente e la difficoltà della mente ad accettare tutto ciò che quella rivoluzione potrebbe significare”.

Prima di andare a vedere l’ultimo Cronenberg, “A dangerous method”, avevo letto delle critiche che lo definivano “accademico”, un “Cronenberg atipico e piegato alle logiche delle grosse produzioni”. Mi ritrovo invece davanti ad un film che è la summa di tutte le ossessioni cronenberghiane, un capolavoro che mi ha fatto uscire dalla sala carica di ammirazione per un’artista dalla lucidità visionaria che ha aggiunto un altro memorabile tassello al suo corposo (mai aggettivo fu più azzeccato!) percorso di ricerca.
Partono i titoli di testa. Dopo aver visto tutti i suoi film ho imparato che per Cronenberg ogni dettaglio è funzionale, non ci sono orpelli… quindi so già che in quell’inchiostro su carta che fa da apertura al film c’è un’importante chiave di lettura. Il film mette in risalto la copiosa corrispondenza epistolare tra i personaggi, sembra quasi che tutti i punti di svolta della storia scaturiscano da questo mettere su carta pensieri e azioni, o meglio… da questo “scrivere il corpo” per usare parole più vicine alla sua poetica.
Qualcuno si è interrogato sul perché Cronenberg si sia dedicato a un argomento che già in questo campo aveva dato i suoi frutti, a una storia così schifosamente cinematografica. Non avevo dubbi sul fatto che la storia sarebbe stata per lui un pretesto per far emergere nuove riflessioni su un problema antico. Ciò che in passato ha catturato l’attenzione di molti in merito all’argomento, ovvero la storia d’amore impossibile che finisce male, in Cronenberg è completamente assente. Il suo sguardo si sofferma invece su uno spaccato di realtà in procinto di un’importante mutazione, la mitteleuropa dell’impero austro-ungarico. Un preciso momento storico in cui era sentire comune che il mondo stesse andando per il meglio, in cui l’uomo si sentiva protagonista di una trasformazione da animale a essere illuminato, volto a una perfezione governata da leggi razionali. In questo scenario, Freud (interpretato da uno stratosferico Viggo Mortensen) incarna la figura di quel “mad doctor” a cui Cronenberg ci ha abituati. Ne Il demone sotto la pelle era il dottor Hobbes che minava quel paradiso di serenità , il complesso residenziale Starlin Towers, con  il parassita capace di far emergere le più oscure forze virali dell’uomo. Qui Freud apre una finestra sull’abisso oscuro che è dentro di noi e al quale non si può sfuggire e innesca quel procedimento virale che darà il via a una trasformazione senza ritorno.
Il film si sviluppa secondo una narrazione che sembra anch’essa una “perizia medica” volta a registrare l’avanzare di una malattia. Ma il suo punto di vista è, al contempo, epidemico, nel senso che si incarna con lo stesso virus (forza scatenante della malattia), ribaltando completamente la visione che normalmente abbiamo di esso e attribuendogli invece una veste di cancro creativo in quanto pulsione autonoma volta ad un rimodellamento del corpo. Secondo la “modalità del contagio” che in Cronenberg coincide quasi sempre con il contatto sessuale, i personaggi si contaminano a vicenda in un percorso creativo che si addentra nelle profondità più oscure di loro stessi. Cronenberg fa dire a Jung in un dialogo con Sabina Spielrein “sei sempre stata un catalizzatore, nel bene e nel male”. E’ lei, insieme al personaggio di Otto Gross, a dare vita al cancro creativo di cui si ammalerà Jung.
Ma un interrogativo ancora più grande sottende a tutto il film: “cosa è veramente la malattia?”.
Nei film di Cronenberg spesso i personaggi affetti dalla malattia, e quindi coinvolti nella mutazione, non hanno nessuna volontà di fare marcia indietro verso la normalità, verso la “guarigione”, il più delle volte sono spinti avanti dalla curiosità verso la loro metamorfosi, ne fanno un espediente per uscire dalle sorti comuni… e questo Sabina Spielrein lo dice chiaramente in uno dei suoi primi dialoghi con Jung che l’occhio di Cronenberg ci fa vedere.
Interessante è notare che i personaggi del film attraversano fasi altalenanti in cui non si capisce più “chi cura e chi è curato”, i ruoli si capovolgono e il confine tra sanità e malattia è fragile come quello tra razionalità e istintività. O meglio ancora… questo confine non è più organico ma prettamente sociale, mentale, legato esclusivamente al contesto storico e alla vita intellettuale in cui siamo immersi. E qui riappare come un lampo l’immagine di quell’inchiostro dei titoli di testa… ci riporta indietro ad un altro passaggio epocale senza ritorno: quello dall’oralità alla scrittura. E’ lì che ha inizio l’estrinsecazione, il portare fuori di sé la propria interiorità, il guardarsi dall’esterno e quindi un lento percorso verso l’auto analisi. Sta tutto lì, nei titoli di testa. Il primo passo verso quella modificazione inarrestabile che ci porta ad avere bisogno di una nuova carne, perché l’organismo è indietro rispetto al salto evolutivo verso cui l’uomo ha già allungato la gamba, proprio come Freud nel film dice di aver messo il piede su una terra inesplorata che ancora non si sa com’è ma di certo si sa che c’è…
Da questo primo passo, inizio della mutazione, non si torna mai indietro, non c’è salvezza… e il finale di questo film mi ha fatto ricordare il finale di The Brood, quando il pericolo sembrava scampato la camera si stringe a inquadrare i segni della malattia sul braccio della bambina… la minaccia del contagio avvenuto, da cui non c’è scampo. A dangerous method si conclude con un dialogo tra Jung e Sabina Spielrein in gravidanza, finalmente più distesa e apparentemente più equilibrata; lui le confida un suo sogno ricorrente. In quel sogno la minaccia che si avvererà, la prima guerra mondiale come un fiume in piena carico di sangue spazzerà via il sogno di quella mitteleuropa da cui eravamo partiti. I semi della nostra autodistruzione sono già nel nostro grembo... e alla luce di questo, mi sembra più che palese l’interesse di Cronenberg per questa storia…
Dilungarsi su questo argomento significherebbe parlare di tutti i film di Cronenberg, perché in tutti questo nodo centrale la fa da protagonista. L’uomo cronenberghiano prova sempre a superare i propri limiti, si perde in una costante dialettica tra il nascosto e il mostrato, tra le costruzioni (e costrizioni) sociali e le pulsioni oscure e viscerali che emergono dal profondo di quella terra sconosciuta. L’artista Cronenberg è un pioniere, non temo di dire che secondo me è ciò che ogni artista dovrebbe essere, colui che ha il coraggio di scendere con lucidità in quell’abisso che ci appartiene, toccare con precisione chirurgica quelle corde universali che sono alla base del nostro esserci.

 Gabri

lunedì 10 ottobre 2011

Stanley Kubrick - Barry Lyndon


E' strano che in un blog dove si parla di cinema ancora non sia stato fatto il nome di Kubrick nemmeno una volta. Devo dire che ho molta difficoltà a scrivere di un autore così conosciuto e importante, di cui è stato detto già tanto.
E' stato il primo autore a cui mi sono avvicinato da quando ho cominciato a guardare il cinema come qualcosa in più di un semplice passatempo ed è, pertanto, anche uno di quelli che sento più cari. E' anche uno di quei pochi registi di cui sono riuscito a vedere la filmografia completa.
Adoro rivedere i suoi film.
Rivedendo Barry Lyndon ho pensato per un attimo che fosse in assoluto la sua opera migliore, poi mi sono fermato e ho pensato a 2001:Odissea nello Spazio, ad Arancia Meccanica, a Full Metal Jacket, a Dr.Stranamore. Mi sono reso conto che quasi ogni volta che vedo un film di Kubrick penso “è il suo miglior film”. Perchè abbia sentito il bisogno di dare una coccarda a qualche suo titolo non lo so, ho però subito realizzato la mancanza di senso di questo gesto, in quanto ogni suo film è fin troppo speciale e inclassificabile (e per questo bellissimo).

Il film, nella sua visione d'insieme, è talmente perfetto che quasi mi sembra un sacrilegio tentare di scomporlo per analizzarlo punto per punto (o quantomeno per provarci).
Kubrick possedeva un perfezionismo che sconfinava in quella che potremmo tranquillamente definire ossessione. Una volta mi capitò di leggere, non ricordo più dove, che per girare la scena di Nicole Kidman che ride in Eyes Wide Shut, Kubrick volle girare ben 177 ciak prima di considerare buono il risultato e che per la scena del blocca-palpebre in Arancia Meccanica, costrinse Malcolm McDowell a passare svariate ore con quell'affare agli occhi, un'esigenza che causò all'attore una lesione alla retina.
Tuttavia, queste pignolerie che dovevano pagare le persone che avevano la fortuna/sfortuna di lavorare con lui erano ricompensate egregiamente dal risultato finale (anche se, effettivamente, con gli occhi di Malcolm McDowell ha esagerato un pelino)
Non conosco aneddoti particolari sulle riprese di Barry Lyndon, ma immagino benissimo Stanley che tiene ferme le riprese, rimanendo a pensare ore e ore, e perchè no, anche giorni, su luce, composizione e taglio di un'inquadratura da mezzo secondo.
La fotografia fu proprio uno degli aspetti che Kubrick curò di più; nota a molti fu la sua scelta, per questo film, di usare una luce completamente naturale, aiutandosi con candele come “illuminazione artificiale” e usando delle particolari lenti per gli obiettivi, originariamente studiate dalla Zeiss per i telescopi spaziali della NASA.
Il risultato fu a dir poco strabiliante.
Se devo immaginarmi un paradiso, di certo me lo immagino come i paesaggi di Barry Lyndon.

Tanto quanto sul lato fotografico, Kubrick era preparato sul fronte musicale. Non mi viene in mente nessuno, al momento, che condivida il suo stesso talento nel trovare musiche da accostare alle immagini. Volendo citare gli altri suoi film, io davvero non riesco più a separare nella mia mente il Così parlò Zarathustra di Strauss da 2001:Odissea nello Spazio, così come non riesco a sentire la Gazza Ladra o il Guglielmo Tell di Rossini senza pensare immediatamente ad Arancia Meccanica.
Anche in Barry Lyndon la scelta delle musiche è sopraffina: oltre alla conosciutissima Sarabanda di Haendel, la cui fama odierna è dovuta in larga parte a questo film, il meraviglioso Trio n°2 di Schubert accompagna una buona parte del film, e insieme alle altre musiche forma una base d'accompagnamento sulla quale si svilupperà la storia. Pochi sono i momenti in cui la musica è assente.
La trama mostra allo spettatore tutta la vita di Redmond Barry, dal suo primo amore alla sua morte. Quasi sento sbagliato il termine “spettatore” tanto è alto il livello di coinvolgimento che riesce a dare Kubrick. Alla fine del film sembra d'aver davvero camminato e cavalcato per i paesaggi dell'Irlanda, della Prussia e dell'Inghilterra, d'aver vissuto fianco a fianco a Redmond per tutta la sua vita e di aver provato e sofferto tutto insieme a lui. Ci si sente quasi stanchi.

Far vivere una vita intera in poche ore serbandone comunque tutte le emozioni, senza trascurare nulla, far conoscere i personaggi così a fondo da dare la sensazione di averli conosciuti di persona, far vivere nelle sue peculiarità un'epoca così lontana: una sfida all'altezza solo di pochi Kubrick.

Condivido, al posto del consueto trailer, una delle mie scene preferite, una delle più poetiche, in cui il tocco di un maestro è evidente più del solito.


Robin

sabato 8 ottobre 2011

Dov'è la casa del mio amico? - Abbas Kiarostami



Quello che cercherò di fare è di dare un colore e un sapore diverso a questo commento rispetto alle mie precedenti recensioni; cercherò di scrivere utilizzando più la pancia e meno la testa (cosa che mi viene spesso rimproverata e che puntualmente io rimprovero a me stessa), perché, in fin dei conti, il cinema è fatto di emozioni e le emozioni vanno necessariamente vissute e, se si ha il piacere, anche condivise con gli altri utilizzando tutti i mezzi che abbiamo a disposizione.
Kiarostami è l’esempio emblematico di come il cuore e la passione possano prendere il sopravvento sulla tecnica raggiungendo risultati strabilianti, confezionando capolavori di una poesia unica nel suo genere; lavora col cuore ed è lì che intende arrivare. E con me ci è riuscito benissimo.
Il mio incontro col maestro iraniano è piuttosto recente, lo conoscevo già per via della sua fama, del suo percorso cinematografico e dell’enorme importanza che ha rivestito il suo cinema nel panorama mondiale, ma concretamente la sua cinematografia mi è stata sempre sconosciuta.
Il nostro incontro è avvenuto proprio con questo film ed è stato un vero e proprio colpo di fulmine, uno di quei momenti in cui capisci che la persona che hai davanti cambierà la tua vita o avrà, comunque, un ruolo importante nel tuo percorso esistenziale. Ed è così che ho conosciuto la sua poesia, la sua capacità di emozionare con la semplicità e la sua abilità narrativa.
Raccontare storie ed emozionare è forse uno dei lavori più duri e complicati che esistano al mondo, il tranello della banalità, della presunzione e dell’ostentazione è sempre in agguato, tutti ostacoli che però  Kiarostami è riuscito a superare in maniera eccellente.

Il regista iraniano ci racconta una forma di solidarietà così pura e disinteressata che forse solo un bambino è in grado di coltivare e praticare giorno per giorno.
Solo un bambino può essere capace di sfidare qualunque intemperie per restituire un quaderno al proprio compagno di classe, un gesto che proprio per la sua semplicità e bellezza e per la perseveranza con cui è eseguito rapisce il cuore, spiazza e lascia senza parole.
E’ proprio nel momento il cui questa corsa incessante sembra destinata alla rassegnazione, proprio nel momento in cui crediamo che qualunque gesto e sacrificio non sia servito a nulla, è proprio in quell’istante che Kiarostami regala tutta la sua poesia, in un finale che colpisce l’anima e lascia libero sfogo alle emozioni.
Lo sguardo di Ahmad, così come la disperazione di Nemattzadeh dietro il suo banchetto sono  difficili da dimenticare. Viene quasi voglia di alzarsi dalla sedia e correre e patire insieme a loro, solo per rivedere il sorriso splendere sui loro volti.
Così che il piccolo Ahmad diventa il paladino di una solidarietà capace di riempire il vuoto lasciato dalla mancanza di comunicazione da una società eretta su dogmi polverosi ed obsoleti impossibili da sradicare.
Su questo sfondo di desolazione, solitudine ed incomunicabilità i volti di questi bambini rappresentano la speranza e il desiderio di uccidere il vecchio a favore di un nuovo fatto di libertà e condivisione. E la forza emotiva di questo sta proprio nei bambini e nei loro gesti.

Condividere e sacrificarci per gli altri. Forse è questo che Kiarostami vuole dirci, alla stesso modo in cui lui stesso ha voluto condividere con noi questo capolavoro, soffrire e gioire con noi insieme ai suoi bambini.
Quello che poi, in fin dei conti, accade in questo in questo blog e quello che spero di essere riuscita a fare anche io.

Vi lascio con la parte iniziale del film

Valeria

giovedì 6 ottobre 2011

Pavel Lungin - Luna Park


Ci sono film che potrei vedere e rivedere milioni di volte sapendo che non mi stancheranno mai. Offrono sempre la gradevole sensazione della prima visione.
Dopo essersi conquistato meritevolmente la fama internazionale con Taxi Blues (sua opera prima), premio per la miglior regia a Cannes, il secondo lavoro è senza dubbio all'altezza delle aspettative di pubblico e critica.
La maestria con cui il regista riesce a far convivere una violenza estrema con una pura tenerezza è incredibile.
La storia è quella di un giovane neofascista russo (probabilmente la categoria di uomini peggiori al mondo) che scopre di avere origini ebree. Riuscito a scovare il padre, tenterà di avvicinarsi a lui.
Il padre è un musicista scapestrato amante dell'arte e intriso di ideali di libertà (un po' l'incarnazione del carattere anti-sovietico). Il confronto tra i due darà vita all'intreccio del film, che si evolverà in maniera sempre più deliziosa, per concludersi in uno dei finali più belli e poetici che abbia mai visto.
Guardando non solo l'intreccio tra i personaggi, motore della storia, il film è una denuncia profonda degli avvenimenti contemporanei di quella confusione sociale che ha sconvolto la Russia dei primi anni Novanta.
Lungin riempie la storia di piccoli dettagli, apparentemente secondari, che descrivono con estrema veridicità le condizioni di fame e di disagio che viveva il popolo.
Un film ricco, sotto ogni aspetto. Assolutamente da vedere.

Sconsiglio la versione doppiata, raccomando la versione originale sottotitolata (il doppiaggio italiano di quest'opera è particolarmente scadente)

Robin

martedì 4 ottobre 2011

Buon compleanno Buster!

Non so quale sia stato il primo film visto nella mia vita. La fortuna di crescere con un genitore che lavorava in un cinema mi permetteva di passare interi pomeriggi tra sale cinematografiche e magiche cabine di proiezione. Ricordo vecchi scaffali dove si accumulavano le locandine dei film più antichi e io, bambino naturalmente curioso, a cercare di fare amicizia con coraggiosi cowboy e star più o meno dimenticate. Guardare film era per un me un’attività naturale come dormire o mangiare, ovvio che in questo contesto la mia fantasia mi portasse a familiarizzare con personaggi mai conosciuti. C’era un volto che mi incuriosiva più di tutti, era quello di un uomo dall’aspetto serio e che non rideva mai. Ogni volta che vedevo una sua foto mi colpiva quella sua espressione tra il malinconico e il pensieroso, non sapevo ancora che quel volto apparteneva a uno dei più grandi artisti del cinema comico di sempre. Uno che continua, a distanza di decenni, a regalarmi un po’ di poesia e di allegria tutte le volte che ne ho bisogno. Quel volto era di Buster Keaton attore e regista del cinema americano, star assoluta del cinema muto successivamente caduto in disgrazia con l’avvento del sonoro; un po’ per cause personali (depressione e alcolismo) un po’ perché la sua comicità assolutamente fisica poco si adattava all’uso del parlato.
Non ho mai visto Buster sorridere ma non esiste persona al mondo che mi abbia fatto ridere quanto lui con i suoi personaggi sempre impassibili di fronte a tutti gli eventi della vita ma, ciononostante, capace di regalarti più umanità rispetto a tutti gli altri. Di quel tizio con bombetta e bastone e camminata da clown non nutrivo una gran considerazione, non mi divertiva né mi emozionava perché sentivo istintivamente l’eccesiva artificiosità e costruzione delle sue storie adatte a quel pubblico bisognoso di buoni sentimenti a poco prezzo. Buster non voleva essere un poeta né probabilmente migliorare il mondo. Voleva solo far divertire ma grazie alla sua sincerità ha contribuito a migliorare la vita di milioni di spettatori nel corso degli anni. Perché in tutte le espressioni artistiche solo la sincerità è quella che ti apre le porte della condivisione con i propri simili. Di tutti gli altri ne ho sempre fatto volentieri a meno.
Durante la sua vita Buster Keaton ha interpretato e diretto decine e decine di titoli, naturalmente i più famosi sono quelli del periodo muto, scegliere solo qualche titolo sarebbe per me complicato, da One week a Our hospitality a The General non so quale potrebbe essere additato a capolavoro assoluto e allora mi piace ricordare alcuni titoli, probabilmente meno conosciuti di Buster, che appartengono alla fase finale della sua vita quando, dopo decenni passati nel dimenticatoio, cominciava ad essere nuovamente riscoperto dal grande pubblico. Uno è Film, unica opera scritta per il cinema da Samuel Beckett, dove il volto di Buster praticamente è il film. L’altro titolo è The railrodder girato poco tempo prima della sua morte, l’ultimo titolo più che un film è una battuta, tratta da un film senza pretese con Franchi e Ingrassia e famoso solo per la partecipazione del nostro, che riesce a comunicare con un semplice “grazie…” tutto quello che gli amanti del suo cinema vorrebbero potergli dire con questa parola. Francesco Guccini scrisse una bellissima canzone su Keaton ricordando proprio questo titolo italiano.
Oggi è il 4 di ottobre. E’ il suo compleanno, tanti auguri Busterino e grazie. Di tutto.

Sergio

lunedì 3 ottobre 2011

Nicolo Donato - Fratellanza-Brotherhood

I registi danesi ci hanno abituato a delle periodiche sorprese nel campo cinematografico. Già prima dei tempi della creazione del manifesto Dogma (che richiederebbe un’analisi molto più ironica da parte di chi ha preso questo decalogo come una nuova e rivoluzionaria tavola delle leggi cinematografica), Lars Von Trier e numerosi altri autori del piccolo paese del nord Europa ci hanno regalato opere bellissime assieme a titoli inspiegabilmente sopravvalutati.
L’opera prima di Nicolo Donato (regista danese ma di origine italiane) “Fratellanza-Brotherhood ” che ha trionfato al festival di Roma 2009 fa sicuramente parte delle piacevoli sorprese. Racconta di un amore omosessuale all’interno dell’ambiente forse più omofobico che si possa immaginare, quelli dei gruppi neonazisti. Lars, il protagonista del film, è costretto a lasciare il mondo militare per delle avances fatte ad alcuni suoi commilitoni. Si ritrova, quasi per caso, ad entrare a far parte del gruppo di estrema destra della sua città. Tra chi lo guarda con diffidenza e chi lo ammira per la sua intelligenza si avvicinerà gradualmente a Jimmy, uno dei veterani del gruppo con il quale esploderà una passione incontrollabile dagli esiti facilmente immaginabili.
Nonostante l’ambiente in cui il film è girato e l’inevitabile carico di violenza che si porta dietro nella sua ricostruzione di pestaggi rituali e iniziazioni alle dottrine naziste, Broterhood è un film delicato nel suo tentativo di raccontare una storia d’amore tormentata. Donato ha spiegato che la scelta di ambientare il film nell’ambiente di estrema destra, non aveva una motivazione strettamente politica ma gli serviva per accentuare il contrasto di un rapporto destinato a difficoltà di ogni tipo. Nelle sue note di regia Donato aveva segnato: è difficile amare qualcuno ma bisogna provarci. Probabilmente la riuscita del film sta proprio in questo pensiero di fondo, in questo sforzo di rappresentare la forza di un sentimento qualunque sia l’ambiente circostante. Per questo Brotherhood poteva anche essere ambientato in un mondo hippie o in un paese islamico integralista. Nelle scelte di Lars e Jimmy c’è tutto il bisogno e l’impotenza di provare ad essere quello che si è e non ciò che gli altri si aspettano da noi. Da vedere.
Sergio

Trailer

sabato 1 ottobre 2011

Les Choristes - Christophe Barratier



Credo che sia difficilissimo girare un film che abbia i bambini come protagonisti. Eppure quanta poesia sono capaci di darci quando li si prende per il verso giusto; mi viene da pensare a Gli anni in tasca, o a I Quattrocento colpi di Truffaut. Chissà se i bambini che recitavano in quei film fossero consapevoli dell'immensa poesia che stavano contribuendo a creare o se seguissero solo un percorso abilmente indicato da Truffaut per ottenere quello che voleva. In qualsiasi caso: che meraviglia!
Sebbene siamo ben lontani dai capolavori suddetti, anche in Les Choristes i bambini giocano un ruolo chiave, e qualcuno di loro è capace di farci sorridere come solo la loro ingenuità è capace di fare.

Ambientato in un collegio alla fine degli anni Quaranta, il film narra la storia di un insegnante che non crede all'educazione dai metodi repressivi, ma piuttosto in quella che fa della dolcezza e della comprensione le fondamenta per far crescere un bambino.
Alcuni aspetti di scrittura sono trattati un po' superficialmente, ma la forza di questo film risiede principalmente nella Musica e nell'effetto benefico e curativo che questa infonde a ogni personaggio. Anche i più miseri e abbietti sembrano umanizzarsi e diventare più comprensivi, più teneri.
La musica cattura volutamente l'attenzione dello spettatore, ed è così celestiale che fa passare in secondo piano tutto; e anche se la storia è semplice, potremmo dire anche scontata, quelle voci bianche rendono tutto magico e commovente. Val la pena vederlo anche solo come cornice alla colonna sonora.
Vi lascio con la musica dei titoli di coda

Vois sur ton chemin

Robin