venerdì 14 ottobre 2011

David Cronenberg - A dangerous method

Noto che a volte i miei personaggi parlano della sofferta rivoluzione della carne. Io dico a me stesso: “ecco di cosa si tratta: l’indipendenza del corpo rispetto alla mente e la difficoltà della mente ad accettare tutto ciò che quella rivoluzione potrebbe significare”.

Prima di andare a vedere l’ultimo Cronenberg, “A dangerous method”, avevo letto delle critiche che lo definivano “accademico”, un “Cronenberg atipico e piegato alle logiche delle grosse produzioni”. Mi ritrovo invece davanti ad un film che è la summa di tutte le ossessioni cronenberghiane, un capolavoro che mi ha fatto uscire dalla sala carica di ammirazione per un’artista dalla lucidità visionaria che ha aggiunto un altro memorabile tassello al suo corposo (mai aggettivo fu più azzeccato!) percorso di ricerca.
Partono i titoli di testa. Dopo aver visto tutti i suoi film ho imparato che per Cronenberg ogni dettaglio è funzionale, non ci sono orpelli… quindi so già che in quell’inchiostro su carta che fa da apertura al film c’è un’importante chiave di lettura. Il film mette in risalto la copiosa corrispondenza epistolare tra i personaggi, sembra quasi che tutti i punti di svolta della storia scaturiscano da questo mettere su carta pensieri e azioni, o meglio… da questo “scrivere il corpo” per usare parole più vicine alla sua poetica.
Qualcuno si è interrogato sul perché Cronenberg si sia dedicato a un argomento che già in questo campo aveva dato i suoi frutti, a una storia così schifosamente cinematografica. Non avevo dubbi sul fatto che la storia sarebbe stata per lui un pretesto per far emergere nuove riflessioni su un problema antico. Ciò che in passato ha catturato l’attenzione di molti in merito all’argomento, ovvero la storia d’amore impossibile che finisce male, in Cronenberg è completamente assente. Il suo sguardo si sofferma invece su uno spaccato di realtà in procinto di un’importante mutazione, la mitteleuropa dell’impero austro-ungarico. Un preciso momento storico in cui era sentire comune che il mondo stesse andando per il meglio, in cui l’uomo si sentiva protagonista di una trasformazione da animale a essere illuminato, volto a una perfezione governata da leggi razionali. In questo scenario, Freud (interpretato da uno stratosferico Viggo Mortensen) incarna la figura di quel “mad doctor” a cui Cronenberg ci ha abituati. Ne Il demone sotto la pelle era il dottor Hobbes che minava quel paradiso di serenità , il complesso residenziale Starlin Towers, con  il parassita capace di far emergere le più oscure forze virali dell’uomo. Qui Freud apre una finestra sull’abisso oscuro che è dentro di noi e al quale non si può sfuggire e innesca quel procedimento virale che darà il via a una trasformazione senza ritorno.
Il film si sviluppa secondo una narrazione che sembra anch’essa una “perizia medica” volta a registrare l’avanzare di una malattia. Ma il suo punto di vista è, al contempo, epidemico, nel senso che si incarna con lo stesso virus (forza scatenante della malattia), ribaltando completamente la visione che normalmente abbiamo di esso e attribuendogli invece una veste di cancro creativo in quanto pulsione autonoma volta ad un rimodellamento del corpo. Secondo la “modalità del contagio” che in Cronenberg coincide quasi sempre con il contatto sessuale, i personaggi si contaminano a vicenda in un percorso creativo che si addentra nelle profondità più oscure di loro stessi. Cronenberg fa dire a Jung in un dialogo con Sabina Spielrein “sei sempre stata un catalizzatore, nel bene e nel male”. E’ lei, insieme al personaggio di Otto Gross, a dare vita al cancro creativo di cui si ammalerà Jung.
Ma un interrogativo ancora più grande sottende a tutto il film: “cosa è veramente la malattia?”.
Nei film di Cronenberg spesso i personaggi affetti dalla malattia, e quindi coinvolti nella mutazione, non hanno nessuna volontà di fare marcia indietro verso la normalità, verso la “guarigione”, il più delle volte sono spinti avanti dalla curiosità verso la loro metamorfosi, ne fanno un espediente per uscire dalle sorti comuni… e questo Sabina Spielrein lo dice chiaramente in uno dei suoi primi dialoghi con Jung che l’occhio di Cronenberg ci fa vedere.
Interessante è notare che i personaggi del film attraversano fasi altalenanti in cui non si capisce più “chi cura e chi è curato”, i ruoli si capovolgono e il confine tra sanità e malattia è fragile come quello tra razionalità e istintività. O meglio ancora… questo confine non è più organico ma prettamente sociale, mentale, legato esclusivamente al contesto storico e alla vita intellettuale in cui siamo immersi. E qui riappare come un lampo l’immagine di quell’inchiostro dei titoli di testa… ci riporta indietro ad un altro passaggio epocale senza ritorno: quello dall’oralità alla scrittura. E’ lì che ha inizio l’estrinsecazione, il portare fuori di sé la propria interiorità, il guardarsi dall’esterno e quindi un lento percorso verso l’auto analisi. Sta tutto lì, nei titoli di testa. Il primo passo verso quella modificazione inarrestabile che ci porta ad avere bisogno di una nuova carne, perché l’organismo è indietro rispetto al salto evolutivo verso cui l’uomo ha già allungato la gamba, proprio come Freud nel film dice di aver messo il piede su una terra inesplorata che ancora non si sa com’è ma di certo si sa che c’è…
Da questo primo passo, inizio della mutazione, non si torna mai indietro, non c’è salvezza… e il finale di questo film mi ha fatto ricordare il finale di The Brood, quando il pericolo sembrava scampato la camera si stringe a inquadrare i segni della malattia sul braccio della bambina… la minaccia del contagio avvenuto, da cui non c’è scampo. A dangerous method si conclude con un dialogo tra Jung e Sabina Spielrein in gravidanza, finalmente più distesa e apparentemente più equilibrata; lui le confida un suo sogno ricorrente. In quel sogno la minaccia che si avvererà, la prima guerra mondiale come un fiume in piena carico di sangue spazzerà via il sogno di quella mitteleuropa da cui eravamo partiti. I semi della nostra autodistruzione sono già nel nostro grembo... e alla luce di questo, mi sembra più che palese l’interesse di Cronenberg per questa storia…
Dilungarsi su questo argomento significherebbe parlare di tutti i film di Cronenberg, perché in tutti questo nodo centrale la fa da protagonista. L’uomo cronenberghiano prova sempre a superare i propri limiti, si perde in una costante dialettica tra il nascosto e il mostrato, tra le costruzioni (e costrizioni) sociali e le pulsioni oscure e viscerali che emergono dal profondo di quella terra sconosciuta. L’artista Cronenberg è un pioniere, non temo di dire che secondo me è ciò che ogni artista dovrebbe essere, colui che ha il coraggio di scendere con lucidità in quell’abisso che ci appartiene, toccare con precisione chirurgica quelle corde universali che sono alla base del nostro esserci.

 Gabri

1 commento:

  1. Un film magnifico in cui tutto è funzionale alla storia, Cronenberg si conferma il grande regista che conosciamo e non conosce battute a vuoto. Riesce a essere profondissimo senza diventare mai intellettuale. Attualmente uno dei più grandi registi viventi.

    RispondiElimina