martedì 24 aprile 2012

Woody Allen - Midnight in paris


E’ diventata ormai un’abitudine da parte mia guardare l’ultimo film di Woody Allen quando al cinema è già in programmazione quello nuovo. Sono lontani i tempi in cui assistevo alla prima proiezione che davano in città del suo ultimo film alle quattro del pomeriggio (insieme a pochi altri fanatici); il numero di delusioni che mi ha dato nell’ultimo decennio è così alto da non farmi accorrere ogni volta che vedo spuntare il suo nome in cartellone. Mi rifaccio periodicamente con i suoi vecchi titoli, medicina sicura contro l’atrofizzarsi del pensiero e antidoto contro le delusioni dei moderni Allen. Ed è così che iniziando a vedere Midnight in Paris, nulla in più mi aspettavo rispetto alle sue ultime produzioni. Ma evidentemente con Woody non bisogna mai dare nulla per scontato, con mia grande sorpresa ecco scoprire che qualcosa del suo antico genio ritorna magicamente in questa pellicola. Non ci avrei scommesso un euro, ma per un’ora e mezza mi sono divertito come non mi capitava con un suo film almeno da Harry a pezzi (anno di grazia 1997…). Sarà stata la magica atmosfera parigina, saranno stati i personaggi leggendari di cui è popolata la pellicola ma quello che viene fuori alla fine, se non proprio un film all’altezza di capolavori come Crimini e misfatti o Zelig, è un film di alto livello con una sceneggiatura talmente azzeccata da fare ben sperare per il futuro (anche se le voci sulla sua ultima opera mi sembrano abbastanza negative…).
Nella Parigi contemporanea uno scrittore americano in cerca di ispirazione per completare il suo romanzo, accompagnato da fidanzata, suoceri e amici invadenti sogna di fuggire da quell’atmosfera insopportabile per poter vivere nel mondo dei suoi desideri che si rispecchia con la Parigi d’oro degli anni Venti. Quella dove a ogni bistrot potevi incontrare Hemingway, Picasso e Luis Bunuel e magari andare a cercare conforto a casa di Gertrude Stein. Probabilmente la città, e il momento storico, in cui ogni intellettuale vorrebbe avere la possibilità di vivere almeno per un po’… e allora Allen, con una semplicità che solo i grandi posseggono, ecco che fa arrivare, ovviamente allo scoccare della mezzanotte, una macchina d’epoca che prende il protagonista per accompagnarlo in un’altra Parigi, quella dei suoi sogni. Inutile dire che gli incontri che Gil (il nostro scrittore) farà saranno tutti di altissimo livello, da Scott Fitzgerald, a Hemingway, da Man Ray a Dalì, nessuno manca all’appello in quell’incredibile palcoscenico di grandi menti che fu la capitale francese di quegli anni. Pur giocando sulla superficie e sul risaputo attorno ad ogni personaggio (ma naturalmente sempre di commedia si tratta), le situazioni che crea Allen sono irresistibili. Quando Gil suggerisce a un giovane e dubbioso Bunuel il soggetto de L’angelo sterminatore ho riso come da tempo non mi capitava. Oppure l’arrivo di Dalì (interpretato in maniera magistrale da Adrien Brody) e quello di Man Ray che, al tentativo di Gil di raccontargli la sua strana situazione di viaggiatore del tempo, non trova niente di strano nel dirgli che è tutto normale… Lampi di genialità del vecchio Allen che, oltre alla leggerezza con cui ci accompagna, riesce a farci riflettere su come ognuno di noi abbia dentro di sé un luogo del cuore nel quale voler fuggire tutte le volte che il presente diventa troppo stretto. Salvo poi farci capire (ma senza essere didattico), che la vera magia è vivere il presente con il massimo delle proprie potenzialità, senza rimpianti e compromessi.
E’ stato bello vedere questo film, mi ha divertito pensare come anche per me Parigi sia la città del cuore e che, dal punto di vista temporale, mi sarebbe piaciuto spostarmi una decina d’anni più avanti, magari tra il 1932 e il 1936, quando avrei potuto andare a fare una chiacchierata con Jean Renoir, Jacques Prévert o Jean Gabin in mezzo all’atmosfera di grande fermento del Fronte Popolare. Oppure andare a trovare Louis Ferdinand Céline mentre scriveva quei capolavori immensi come il Viaggio al termine della notte e Morte a credito.
Che rabbia pensare che uno come Allen negli ultimi dieci anni non sia stato sempre a questi livelli…
Sergio

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Gil incontra Salvador Dalì

venerdì 20 aprile 2012

Aurélia Georges - "L'uomo che cammina" (L'homme qui marche)


Guardare un’opera prima ti mette addosso una curiosità particolare. Speri sempre di scoprire un autore finalmente originale che abbia delle ottime storie da raccontare. Spesso rimani deluso dalla presunzione di registi che, solo perché riescono a far fare dei giri particolari alla macchina da presa rimanendo in equilibrio su una sola gamba, credono di far parte tra i grandi del cinema.
Per fortuna non è stato il caso di questo piccolo gioiello cinematografico della giovane regista francese Aurélia Georges “L’uomo che cammina” (L’homme qui marche). Da subito capisci che la pellicola ha una sua originalità, una messa in scena minimalista che non tende all’accumulo ma mostra solo il necessario con atmosfere che fanno ricordare i soggetti di Kaurismaki; dei personaggi che ti mettono addosso un’istintiva curiosità nel voler comprendere da dove provengano, come il protagonista di questo film che sembra uscire direttamente da una delle opere migliori di Giacometti (L'uomo che cammina appunto...). La storia del film narra di un evento reale, la storia di un esule russo a Parigi, Vladimir Slepian, scrittore per istinto ma che riuscì a fare pubblicare solo un suo testo negli anni Settanta (e dalla breve lettura che se ne fa nel film sembra anche molto interessante…) per poi scomparire in un lento oblio che lo portò letteralmente a morire di fame, nel 1998, proprio in mezzo a uno dei quartieri più famosi di Parigi: Saint Germain des Prés.
La macchina da presa della regista francese non si stacca praticamente mai dalla figura del protagonista (un bravissimo César Sarachu), ma lo fa con una discrezione rara, quasi pudore rispettoso per un uomo singolare che sembra provenire da un altro pianeta. Fino alla fine speri di potere entrare dentro il mondo di questa figura così singolare ma chissà se in fondo quest’uomo non provenga proprio dalla luna e il suo passaggio sulla terra sia stata soltanto un incidente. Attorno a lui la Parigi dagli anni Settanta agli anni Novanta, tra caffè letterari (Les deux magots su tutti), lezioni di Lacan e intellettuali del quartiere latino; in mezzo a loro passa Sleipan (nella pellicola con il nome di Viktor Atemian) come un lord inglese in mezzo a una curva di ultrà, impossibile non accorgersene ma alla fine non gli si da troppa retta…
Rimane la lettura di un brano di Fils de chien pubblicato in una rivista letteraria nel 1974 (accanto a testi di Beckett e Robbe-Grillet) che lascia intuire come dietro quest’uomo così particolare si nascondesse probabilmente qualcuno che aveva ancora tanto da dire ma che un mondo troppo abituato ad urlare non poteva perdere tempo ad ascoltare.
Sergio

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Su Vladimir Slepian

giovedì 19 aprile 2012

Cronenberg terza puntata... LA ZONA MORTA


Oggi voglio scrivere di quel che si dice “il peggior Cronenberg”, ovvero la trasposizione cinematografica del fortunato libro di Stephen King “La zona morta”. Credo che il nome di King giochi parecchio a favore di questo giudizio, eppure qualcosa di interessante deve pur esserci in lui se le pagine dei suoi libri sono fra le più sfruttate in campo cinematografico… certo, per la maggior parte delle volte si è trattato di film per battere cassa… però io oggi lo voglio “difendere” da chi lo etichetta solo come scrittore di best seller. Credo però anche che non ci sia occasione migliore di questa per vedere la differenza tra un bravo scrittore che padroneggia il suo strumento e un genio visionario…
Ancora una volta Cronenberg indaga sulla possibilità dell’uomo di andare oltre i limiti fisici del suo corpo e assumere dei poteri mass-mediali che gli permettono spesso di sintetizzare le categorie spazio – temporali. Della narrazione il regista ne fa un contorno al centro del quale emergono ancora una volta le ossessioni centrali della sua poetica. Quello che in King era infatti un innato potere di predire il futuro, in Cronenberg diventa capacità illimitata di Johnny di estendere i suoi organi di senso, attraverso una dimensione spazio temporale elastica, che lo fa saltare di continuo attraverso vari livelli di realtà, passati, presenti e futuri. Inoltre, se appunto questa facoltà si delineava attraverso la penna di King come innata e solo acuita dal lungo stato di coma, per Cronenberg l’incidente stradale (altro topos ricorrente nella sua ricerca) ne è la causa scatenante.
Ancora una volta lo “scontro” con la tecnologia è causa di un’alterazione che conduce il protagonista verso la superumanità. Ma se in Scanners il mad doctor era una persona fisicamente identificabile, ne La zona morta è un perenne fuoricampo, forse si tratta del caso, o forse di un dio di cui Johnny è uno degli esperimenti malriusciti.
Ad accomunare i due film è l’estrema solitudine dei protagonisti, che non trovano posto nella società a causa della loro diversità. Pur avendo sembianze normali infatti, sanno di non esserlo, e questo è per loro causa di una ontologica tristezza che non trova soluzione se non forse nel sacrificio finale.
Johnny, da individuo assolutamente ordinario, si ritrova letteralmente catapultato in una diversità che non sa gestire. Perde il lavoro, la donna che ama e ogni cosa che per lui avesse un senso nella “vita passata”; la società lo coinvolge solo per sfruttare le sue doti di chiaroveggenza, ma per il resto lo guarda come un mostro. Quello che sembrerebbe un dono risulta invece essere un handicap; Johnny non ne ha il controllo, non lo usa a sua discrezione ma ne è aggredito (come gli scanners, perseguitati dalle voci mentali) e quindi vittima. La sua mano si è trasformata in un organo di percezione sovrumano, gli permette di avere una visone panottica del tempo; inoltre la “zona morta” che era per King una percentuale di imprecisione trascurabile, è per Cronenberg nelle visioni di Johnny una sfumatura, una percentuale di indeterminatezza che permette a Johnny di intervenire sul corso degli eventi, creando futuri alternativi. Ma questa illimitata capacità di conoscere e “vedere oltre” è controbilanciata da un inesorabile consumo delle sue energie vitali che lo conduce quindi inevitabilmente alla morte.
Si ripresenta quindi un raccordo mancato, forse tra un inizio di mutazione e la mancanza di tutti i presupposti necessari.
Che dire infine di Christopher Walken? Superlativo.
Alla prossima Cronenberg-puntata…

Gabri
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mercoledì 18 aprile 2012

Diaz - Don't clean up this blood - Daniele Vicari

Un incubo a occhi aperti dal quale non ci siamo svegliati e dal quale probabilmente non ci sveglieremo mai. Il film di Vicari è una lama in pieno petto, un lancinante pugno allo stomaco che spiazza perché non dà nessuna verità assoluta ma martella il nostro cervello di domande: qual è il ruolo della polizia in uno Stato democratico? Come deve essere garantito l’ordine pubblico? Perché nessuno dopo 11 anni ha ancora pagato? Perché nessuno ha chiesto scusa? E perché in Italia non esiste il reato di tortura? Potrei andare avanti all’infinito.
Quel vortice di violenza che la notte del 21 luglio 2001 si è abbattuto sulla Diaz è una ferita ancora aperta e Vicari questo lo sa bene; per tale motivo ha avuto l’esigenza di raccontare e documentare, non denunciare. Dare una testimonianza audio-visiva della “macelleria messicana”, così definita dal vicequestore Michelangelo Fournier, che ha colpito il nostro paese, e non solo, lasciando a chi guarda le conclusioni, anche se si tratta per lo più di dubbi e domande. Diaz è una tappa essenziale nella costruzione di una memoria collettiva, un passo fondamentale e necessario per non dimenticare e chiederci in quale direzione stiamo andando. E così Vicari ci apre la strada dell’orrore.
Il regista italiano procede parallelamente mostrandoci le falle, le debolezze, la disorganizzazione e le paure dei due gruppi contrapposti, Forze dell’ordine e Genoa Social Forum, preparando il terreno per lo scontro finale e accrescendo quel clima di tensione e aggressività che durante il G8 ha colpito l’intera città di Genova. Tutto questo inserito in un vuoto istituzionale (la politica e le istituzioni sono distanti o, addirittura, assenti) che incrementa quel senso di disfacimento e orrore probabilmente ancora presente in questo paese. Anche qui un turbinio di domande tartassa le nostre teste. Vicari non ci lascia mai tranquilli, ma ci pungola costantemente costruendo attorno ai fatti della Diaz personaggi e storie propedeutici allo scontro finale.
Dall’irruzione nella scuola fino alle vergognose torture avvenute nella caserma di Bolzaneto, il film di Vicari è un vortice di irrazionalità senza fine. Lo hanno definito film di guerra o addirittura film dell’orrore, e in effetti Diaz è tutto questo: la guerriglia civile e le sequenze orrorifiche di cui siamo spettatori sono potenti e difficili da dimenticare perché reali. Per questo motivo a Vicari va il merito non solo di averci regalato un documento fondamentale su uno degli avvenimenti più vergognosi e oscuri del nostro paese, ma anche quello di aver creato un’opera cinematografica di grande valore. Autonoma e universale perché intende andare oltre e raccontare qualcosa di più profondo e necessario: fino a che punto può arrivare la violenza umana quando questa è legittimata e autorizzata dalle istituzioni? Il manganello e il casco dati in dotazione all’uomo sotto la divisa che significato hanno? L’ordine pubblico si garantisce solo attraverso le armi?
Per questo il film di Vicari guarda al futuro, documenta e racconta il passato obbligandoci a riflettere contemporaneamente sul nostro presente e sulla nostra vita futura. Quel sangue non va pulito perché ha macchiato, macchia e continuerà a macchiare la nostre vite e il nostro rapporto con le istituzioni, obbligandoci a rimanere svegli e vigili.
Se Vicari ha dato vita a un’opera cinematografica e a un documento di estrema importanza e valore è perché in lui è forte il bisogno di dare ai suoi spettatori un terreno comune sul quale camminare e crescere; un regista non è un giudice o un accusatore e il cinema non è un tribunale, come ha affermato il regista italiano in numerose interviste, ma entrambi devono essere accomunati dall’esigenza di documentare e testimoniare per poi andare oltre. E se guerra e orrore si fondono nel film di Vicari è perché da quella notte il sangue ha iniziato a macchiare questo paese e non si è più fermato, ma soprattutto perché la violenza e la sua irrazionalità sono state, e saranno ancora, una componente imprescindibile della nostra esistenza Il regista italiano ci incita e ci aiuta a guardare all’attualità e al domani senza dimenticare quello che è successo ieri, ed è come se nei titoli di coda fosse scritto: Adesso tocca a voi!

Vi lascio con queste parole.
Il discorso di difesa di Panahi al suo processo:

Durante la mia carriera ho sottolineato che sono un regista socialmente impegnato e non politicamente. Il mio principale interesse sono le questioni sociali; pertanto i miei film sono drammi sociali, non dichiarazioni politiche. Io non ho mai voluto agire come un giudice o un accusatore. Io non sono un regista che giudica ma uno che invita gli altri a vedere. Io non mi metto a decidere per altri o a scrivere alcun tipo di manuale per nessuno; permettetemi di ripetere la mia pretesa di porre il mio cinema aldilà del bene e del male.


Valeria

martedì 10 aprile 2012

Arrietty - Hiromasa Yonebayashi e Hayao Miyazaki


Come sempre succede quando mi preparo a vedere un film dove c’è la mano di Hayao Miyazaki, le aspettative sono altissime e la paura di rimanere un po’ deluso è naturale. Alla fine della proiezione mi accorgo che l’emozione che ancora una volta riesce a regalarmi supera ogni desiderio. E’ stato così anche per “Arrietty - il mondo segreto sotto il pavimento”. Scritto dal maestro giapponese e diretto dal suo allievo Hiromasa Yonebayashi (che aveva già curato l’animazione de La città incantata e Ponyo sulla scogliera), il film riprende i racconti fantasy della scrittrice inglese Mary Norton. La storia di due mondi che si incontrano, quello degli umani e quello dei prendimprestito piccoli gnomi che vivono sotto il pavimento di una grande casa di campagna e risalgono nelle case degli umani solo per prendere in prestito qualche genere di prima necessità, una zolletta di zucchero o una fazzolettino di carta.
L’incontro tra mondi diversi non è certo una novità, soprattutto nell’universo delle fiabe di animazione ma quello che rende Arrietty l’ennesimo capolavoro uscito fuori da quella straordinaria macchina di sogni che è la Studio Ghibli, è la sua incredibile capacità di rendere poetica ogni singola inquadratura, la maestria nel riuscire ad incantare allo stesso modo spettatori adulti e bambini. I temi cari a Miyazaki ci sono tutti, la critica del consumismo visto attraverso il magico riutilizzo che la famiglia di Arrietty fa di oggetti ritenuti inutili dagli umani, l’accettazione del diverso come possibilità di arricchimento reciproco: l’amicizia tra la piccola Arrietty e il ragazzino umano Shō è l’ennesima lezione di alta scuola che Miyazaki ci regala riuscendo ad annullare, come solo i grandi artisti sanno fare, le distanze che esistono tra la cultura giapponese e quella occidentale facendoci sentire tutti parte di una sola famiglia.
I disegni sono di una bellezza da lasciare senza parole, l’arredamento della stanza di Arrietty è una delle scenografie più belle che ho visto in un film d’animazione così come le musiche composte dalla musicista bretone Cécile Corbel mi hanno fatto scoprire un’altra grandissima artista (così come successe per le musiche di Tokiko Kato in Porco rosso).
Vorrei che Miyazaki non smettesse mai di scrivere e disegnare storie, vorrei potere invecchiare riuscendo ad emozionarmi ancora con i suoi film e farli scoprire un giorno ai miei figli e ai miei nipoti,vorrei che Miyazaki riuscisse a trasmettere la sua arte al maggior numero di persone possibili (così come sembra stia facendo con Yonebayashi). Vorrei che possa sempre esistere qualcuno che ci ricordi, con il linguaggio del cinema e quello dei sogni, che l’equilibrio del mondo dipende soltanto dalla nostra voglia di rendere straordinario ogni singolo gesto della nostra quotidianità e di essere rispettosi di tutte le vite che ci vivono accanto.
Sergio

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martedì 3 aprile 2012

Offside - Jafar Panahi








Fa rabbia e amarezza sapere che un regista come Jafar Panahi non potrà più regalarci(almeno per i prossimi 20 anni) gioielli preziosi e inimitabili come il suo Offside; lo sguardo, l'attenzione e il rispetto con i quali raffigura le figure femminili, in un paese che rigetta e oltraggia con ogni mezzo a disposizione il cosiddetto "gentil sesso", sono modelli da emulare e conservare gelosamente. La pellicola di Panahi non ha niente a che vedere con il "sesso debole" che l'Iran vorrebbe plasmare e inibire quotidianamente, ma dipinge con cura donne risolute e tenaci; in primo luogo essere umani, e non oggetti vuoti e incosistenti riposti nelle mani di mezzi uomini e signori del potere. Panahi riempie meticolosamente l'animo femminile di mille sfaccettature e ridona alle donne la dignità e il rispetto perduto.
In Offside le donne diventano agguerrite e appassionate tifose di calcio, pronte a difendere con forza e perseveranza il loro diritto all'uguaglianza, così come il diritto di guardare una semplice partita di pallone, di urlare, di tifare e di sedere accanto a quegli uomini venerati e adulati da una società misogena e maschilista. Donne che sembrano uomini e uomini che sembrano donne; sta lì la filosofia di Panahi, nel rovesciare perfettamente i ruoli imposti dai piani alti e nel deridere quei progetti di sottomissione. La celebrazione dell'uguaglianza, quì senza retorica e furberie varie, è presentata attraverso un sorriso che nasconde(poco, a dire la verità) il dito puntato alle autorità governative e religiose, nonchè ai caproni che seguono letteralmente i dogmi degli esponenti al potere, colpevoli di uccidere e deridere la dignità femminile.
Un'esplosione di gioia e divertimento che è tutta dedicata alle donne, oltre che ai 7 iraniani morti durante la partita Iran-Giappone del 2005, in cui le donne sono le uniche mattatrici e le principali protagoniste; da quì la sparizione del burqa e strumenti analoghi a favore di donne determinate e indipendenti. Il sottotesto(anche se ben visibile) è semplice e diretto: l'autonomia e la libertà che spetta a ogni uomo non deve essere condizionata dalle differenze sessuali.
Sì, potrà apparire banale, ma dopo anni di lotte e battaglie la situazione è addirittura peggiorata.
E poichè sono una donna, sicuramente più fortunata di chi  invece è costretta a vivere all'ombra di un "padrone" meschino e irrispettoso, l'amore e il rispetto che Panahi dona al'universo femminile non può assolutamente lasciarmi indifferente; il regista iraniano riscopre la solidarietà femminile, spesso dimenticata e calpestata, e ci rende tutte più vicine. Potrà sembrare un moderno femminismo, ma fortunatamente non è così: è una semplice lotta a favore della dignità umana, che poi Panahi si "serva" delle donne per proteggerla e celebrarla è un semplice espediente, seppur calzante e significativo. La sua è una lotta per l'uomo e con l'uomo. Quella che anche lui combatte personalmente giorno dopo giorno contro le autorità islamiche. E allora il regista iraniano ci ricorda che siamo tutti un pò Panahi.

Esistono particolari, dettagli che innascano una provocazione da cui nasce un ragionamento e - per me- un film. (J. Panahi)
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Valeria