mercoledì 20 novembre 2013

Quentin Tarantino - Django Unchained



Quentin Tarantino riesce sempre a stupirmi. Tutte le volte che mi aspetto grandi cose da lui mi delude regolarmente e, mentre stavo ormai per perdere le speranze, ecco che con Django Unchained tira nuovamente fuori quella classe visiva che indubbiamente possiede.
Ho sempre pensato che Tarantino abbia delle qualità di scrittura e di messa in scena di notevole levatura. Allo stesso tempo ho sempre cercato di mantenermi fuori dalle partigianerie eccessive che da sempre lo accompagnano. Esaltato o odiato in misura sempre più alta di quanto non meritasse. Probabilmente anche questo è uno dei motivi per cui aspetto sempre un po’ prima di vedere i suoi film, non farsi distrarre dalle eccessive urla di giubilo e di orrore che i suoi titoli si portano dietro è ormai per me una regola imprescindibile. Eccomi quindi a parlare di Django quando tutti i fan del regista lo hanno già visto e i suoi detrattori (probabilmente) non lo vedranno mai. Come detto all’inizio non mi aspettavo grandi cose da quest’opera che arrivava dopo una serie di film (da Kill Bill 1 e 2, all’orrendo Grindhouse e al sopravvalutato Bastardi senza gloria) che ho sempre definito girati con la mano sinistra da un regista che, pur divertendosi sempre di più a giocare con il suo mezzo preferito, dimenticava che il cinema è (anche) capacità di andare oltre all’immagine ben fatta e alla battuta sapientemente costruita. Avevo perso la speranza di rivedere il Quentin di Pulp Fiction o delle Iene o quello sottovalutato, ma per me magico, di Jackie Brown. Pensavo che probabilmente la filosofia cinematografica pulp si era definitivamente inaridita, prosciugata da decine di registi scadenti a cui bastava far vedere un po’ di sangue e qualche turpiloquio linguistico per definirsi tarantiniani (e tarantolati). Penso che il buon Quentin questo lo avesse avvertito e sapesse anche di essere arrivato a un punto di svolta. Continuare a fare film adatti solo ai suoi fan oppure ritornare ad essere quel regista che, pur amando sangue e parolacce, è un profondissimo conoscitore di cinema (e non soltanto quello trash come purtroppo molti credono).

Django Unchained è un film che ad ogni inquadratura porta la firma del suo autore; guardandolo pensavo che finalmente al suo ottavo lungometraggio Tarantino ha deciso di omaggiare il cinema del selvaggio west da lui tanto amato. Probabilmente questa ambientazione ha anche favorito la credibilità della sua messinscena: cosa meglio di un buon vecchio western per giustificare le sinfonie splatter del nostro autore? Ma, fortunatamente, questa volta si va oltre la sapienza visiva e l’irresistibile ritmo delle battute. Nel film i personaggi e la storia sono di grande spessore. Dietro la storia dello schiavo Django, affrancato da un improbabile (ma irresistibile) medico tedesco e con lui diventato un feroce cacciatore di taglie, abbiamo una lucidissima analisi dell’universo dell’America razzista del diciannovesimo secolo. Il tutto naturalmente sotto la lente grottesca di Tarantino che però ha il pregio di non mandare tutto in caciara (come ha qualche volta fatto nel recente passato). L’autore ha il grosso merito di calare il suo mondo, fatto di personaggi unici e, spesso, divertentissimi, all’interno di una storia che non perde mai la sua linearità, difetto che in passato mi provocava un’infinita noia alla visione delle sue opere. Tarantino quando riesce a non farsi prendere la mano, lasciandosi distruggere dal suo essere eccessivamente anarchico, credo sia un autore di altissimo livello. Come i grandi maestri del cinema ci hanno sempre insegnato nel passato, essere dei geni non basta per fare cinema di alto livello se non si possiede anche un rigore narrativo e ritmico dato da uno studio serio. Quando Tarantino si ricorda che, oltre ad amare gli spaghetti western e tutti i film di serie zeta, è anche un profondo conoscitore del cinema alto (non a caso la sua casa di produzione cinematografica di chiama A band Apart omaggio dichiarato a quel genio di Jean Luc Godard), le sue opere riescono a essere irresistibili e originali che magari non piaceranno a tutti (o piaceranno troppo ad altri) ma a me riusciranno sempre a donare un paio d’ore di divertimento. Speriamo che Quentin continui così.

Sergio 

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mercoledì 13 novembre 2013

Prima dell'alba (1995) - Prima del tramonto (2004) - Before Midnight (2013) - Richard Linklater




Era il 1995 quando, giovane studente universitario con il chiodo fisso del cinema, mi capitò di entrare in sala per vedere un film di un giovane autore statunitense, Richard Linklater. Il film era Prima dell’alba è credo che il motivo principale che mi spinse ad entrare fu la presenza di Julie Delpy, attrice della quale non perdevo un titolo dopo averla vista in Film bianco di Kieslowski. Non mi aspettavo niente di più di una piacevole commedia e non avrei mai pensato, dopo diciotto anni, di parlarne ancora.
Quel film parlava di due ragazzi, Céline e Jessie, lei francese lui americano che, su un treno diretto a Vienna, si conoscono, si parlano e non sanno ancora che da quel momento la loro vita avrebbe preso una direzione del tutto nuova. Lui dovrà prendere un aereo per tornare negli Stati Uniti mentre lei deve rientrare a Parigi ma decidono di scendere a Vienna e prendersi una pausa di una notte. Una notte che passeranno a camminare per le strade della città, parlandosi, conoscendosi e, probabilmente, amandosi. Poi l’arrivo dell’alba e la separazione. Ognuno verso la propria destinazione ma con una promessa: rincontrarsi dopo sei mesi nello stesso posto. Un’opera piena di dialoghi ma avvincente, perché in quel film c’era molto di più di un semplice incontro tra due ragazzi, c’era tutta la vita che due ventenni sognano di avere, con i desideri, le paure e il coraggio che solo a quell’età puoi possedere. Passarono i giorni e mi accorsi che quel film l’avevano visto in tanti, all’università tra dotti disquisizioni letterarie e ansia da esami vicini arrivava il momento in cui si parlava di cinema e su questo strano film che tanti avevamo visto. “Ma tu cosa avresti fatto al posto di Céline?” chiedevo alle ragazze illudendomi di trovare la chiave per comprendere l’incomprensibile, “e perché Jessie decide di prendere quel maledetto aereo?” mi rispondevano. Da lì, e a partire da quel film, si parlava della vita, dell’amore e dei sottili equilibri della vita. Il cinema compiva la sua magia, avvicinava le persone e aiutava a farle conoscere.
Passano gli anni, il periodo universitario è un bellissimo ricordo ma ero alle prese con situazioni nuove, tante cose erano cambiate in me tranne la passione per il cinema. E’ il 2004 e al cinema arriva Prima del tramonto, stesso regista e stessi attori di dieci anni prima. Credo di essere entrato allo spettacolo pomeridiano tanta era la curiosità di ritrovare di nuovo Céline e Jessie. Hanno dieci anni in più, hanno da poco superato i trenta e anche io ho la loro stessa età. Si rincontrano per caso, o forse no, sono a Parigi in una libreria, lui è diventato uno scrittore e presenta il suo libro che parla di un incontro a Vienna di dieci anni prima. Ecco la vita che riannoda se stessa. Tutto scritto a tavolino? Poco credibile? No, un altro grande film, altri dialoghi di altissimo livello, comincio a capire quelli che avevano l’età di Antoine Doinel nei film di Truffaut di quarant’anni fa. Il cinema segnava di nuovo delle esistenze con i ritmi esatti, senza scarti veloci, prendendosi il tempo giusto, il tempo della vita che è anche quello degli spettatori che crescono assieme ai personaggi. Il film terminava con una delle scene più sensuali del cinema moderno, Céline mette su un disco di Nina Simone, le note di Just in time la accompagnano nei movimenti mentre la macchina da presa rende la sua immagine eterna. Non sai cosa accadrà di loro, vivranno insieme? Si separeranno? Ma in fondo sono domande inutili, sarà il tempo a dirlo, non si può fare altro che aspettare e nel frattempo continuare a vivere la tua di vita.

Passa un altro decennio, siamo ai giorni nostri, l'esistenza ha compiuto un’altra rivoluzione copernicana, tutto è di nuovo cambiato (tranne ovviamente l’amore per il cinema). Arriva Before midnight, Céline e Jessie rientrano ancora nella mia vita, adesso sono per me come due vecchi amici, non mi stupisco del loro arrivo. Guardo il film e mi sembra di non essere più uno spettatore ma un protagonista della storia raccontata. Nel film c’è forse un tono più disilluso rispetto al passato ma a quarant’anni non si sogna allo stesso modo dei venti, diventi più consapevole dei traguardi raggiunti e sai che per mantenere l’equilibrio devi trovare il giusto compromesso tra i sogni dei tuoi vent’anni e le responsabilità dei tuoi quaranta quando, per la prima volta, cominci a capire che il tempo che passa diventa pian piano il tempo che resta. Guardo il film da solo prima dell’inizio della mia lezione e penso, mentre mi avvicino alla fine, che una delle grande differenze con quella prima visione di diciotto anni prima sta nell’assenza di condivisione con gli altri. Sarò rimasto l’unico folle ad emozionarsi ancora alla storia di Céline e Jessie? Mentre me lo chiedo entra un mio allievo che dà uno sguardo allo schermo e dice “Before midnight, che bello, l’ho visto qualche giorno fa,non ho perso nessuno dei loro film…”. Iniziamo a parlare del film mentre Il cinema ritorna, ancora una volta, a spiegarmi la magia della vita e sui titoli di coda la voce straordinaria di Céline mi sta, probabilmente, dando un altro appuntamento.


Clip - Prima del alba 



domenica 10 novembre 2013

Abel Ferrara - Mulberry St.


Quando associamo il cinema alla città di New York, per la maggior parte degli amanti della settima arte, i primi nomi che vengono alla mente sono quelli di Woody Allen, Spike Lee e Martin Scorsese. Mentre Allen rappresenta la città vista dalla prospettiva alta e borghese di Manhattan e Spike Lee rispecchia la comunità afro americana, il cinema di Scorsese è, almeno agli inizi, stato considerato come figlio di Little Italy e di tutta la cultura italo americana che quel quartiere rappresenta. Ritengo però che accanto al nome di Scorsese vada inserito quello di un altro grande regista che condivide con Scorsese le stesse radici italiane, Abel Ferrara.
Abel Ferrara è visto da molti come un autore maledetto del cinema e in effetti il suo cinema è sempre stato poco incline alle leggi del buon gusto estetico (regola alla quale anche Scorsese si è più volte adattato). Autore di capolavori come Il cattivo tenente, The addiction e Fratelli, Ferrara è anche riuscito a realizzare film del tutto trascurabili come Go go tales o New Rose hotel, ma nella sua discontinua produzione artistica non si può certo negare il marchio del grande autore. La storia artistica di Ferrara meriterebbe la scrittura di un libro tanto è ricca di eventi a dir poco singolari. Debutta negli anni Settanta addirittura con un film hard core di cui è interprete e regista per poi passare al cinema horror. Negli anni Ottanta i suoi titoli cominciano a essere sempre più considerati da critica e pubblico specialmente dopo King of New York (che offre una grandissima prova di Christopher Walken). Il suo cinema, fino agli Novanta, è percorso da una grandissima tensione etico religiosa (ed è naturale l’incredulità di chi pensa ai suoi inizi) calata in una realtà spesso bassa come quella delle strade più marginali di Little Italy. Assieme allo sceneggiatore Nicholas St. John, Ferrara riesce a dare un affresco della cultura italo americana, costantemente in bilico tra tradizione e progresso, religione e consumismo che non ha eguali sul grande schermo. La scrittura lucida e disperata del suo sceneggiatore unita alla sua capacità visiva riesce a tradursi sullo schermo in opere altissime. Ma a metà degli anni Novanta succede qualcosa di strano, Nicholas St. John stanco del cinema si rinchiude in convento e Ferrara perde il collaboratore storico per le sue opere. A partire da quel momento il suo cinema nasce dimezzato; rimane la forza espressiva delle immagini di un grande autore ma scompare quella tensione esistenziale data dalla scrittura di St. John. Pur continuando ad essere considerato un autore di prima fascia il suo cinema non raccoglie più gli entusiasmi passati.

Negli ultimi anni però Ferrara sembra avere ritrovato una discreta carica autoriale soprattutto in campo documentaristico. Realizza dapprima Chelsea on the rocks (2008) che narra la storia del famoso albergo newyorchese, patria degli artisti bohemienne del Novecento, da Dylan Thomas a Janis Joplin passando per Bukowski e Sid Vicious e poi Mulberry St. (2009) dove, con grande ispirazione, Ferrara si immerge nelle strade della sua Little Italy per raccontarne la trasformazione nei giorni della festa di San Gennaro. Un pezzo di Italia antica si riappropria in pieno delle sue tradizioni e caratterizza quel quartiere di New York in maniera ancora più forte di quanto non faccia normalmente. Ferrara si trova perfettamente a suo agio nel narrare un mondo e una storia che gli appartengono in pieno e il film diventa una piacevolissima scoperta di una cultura che troppo spesso i film ci fanno vedere sotto la lente, a volte irreale, della fiction cinematografica. Ferrara interpreta se stesso, lo stesso fanno i suoi amici e anche gli attori (come Matthew Modine) che lo vanno a trovare tra le strade del quartiere. Per novanta minuti si conoscono personaggi singolari che costituiscono l’anima storica della Little Italy che lentamente è destinata a scomparire, ma si parla anche di cinema, delle paradossali storie che, nell’arco dei decenni, sono capitate al regista per terminare i suoi film a partire da quello strano esordio che nel quartiere molti ricordano. Grande opera a metà strada tra diario intimo e cinema documentaristico. Se Ferrara continuasse così potremmo non rimpiangere più la fuga mistica del suo sceneggiatore.

Sergio

venerdì 8 novembre 2013

Pietà - Kim Ki Duk


Kim Ki Duk è uno di quegli autori per cui vale sempre la pena intrattenersi. I suoi film, assieme a quelli di Park Chan Wook, hanno contribuito in modo decisivo a fare conoscere il cinema coreano in Italia. Dalla fine degli anni Ottanta la sua produzione artistica è stata fondamentale per ogni appassionato della settima arte. Il suo cinema, fatto di rigore formale, fortissima violenza espressiva e sublime poesia, ci ha insegnato sulla moderna cultura orientale quello che Yasujiro Ozu ci ha spiegato sul Giappone del Novecento.
Pietà ha vinto lo scorso anno a Venezia il leone d’oro come miglior film; per Kim non è certo una novità fare incetta di premi in Europa. Questa pellicola era particolarmente attesa perché segnava il suo rientro artistico dopo anni di auto isolamento dovuto a una fortissima depressione (descritta in maniera strabiliante nel suo video diario Arirang).
Nei sobborghi di una città coreana un uomo gestisce il recupero dei crediti per conto di un’organizzazione criminale, i metodi che segue sono quelli di un torturatore. Il trattamento che destina agli insolventi sono di una violenza devastante, il tutto mentre la sua vita trascorre piatta e solitaria. Ma l’apparire di una donna misteriosa, che afferma di essere la madre, comincerà a incrinare le sue certezze facendo diventare il protagonista un soggetto debole (o meglio umano), prigioniero delle sue paure e del trauma di poter perdere la persona che ama. Come sempre il soggetto della storia, nelle mani del regista coreano, diventa ricco di metafore e simbolismi che trasformano la narrazione in un trattato sulla condizione umana. Purtroppo emerge la sensazione che ciò che Kim mostra in questo film sia la ripetizione (in peggio) di ciò che egli stesso ha fatto nelle sue opere passate. La solitudine, la vendetta, la pietà, concetti centrali della sua opera, eccedono probabilmente troppo, fino a diventare metafore troppo scoperte e, di conseguenza, superflue.
Se fosse stato il primo film visto di Kim Ki Duk avrei, probabilmente, dato un parere positivo ma so di cosa lui è capace quando non premette, alla propria ispirazione, una troppo forzata volontà di essere didascalico. A ciò si aggiunge un’eccessiva voglia di colpire con uno stile visivo un po’ troppo duro (anche per chi è passato indenne alla visione de L’isola).

A differenza di altri autori, definitivamente rovinati da una mortale auto celebrazione, continuo a confidare nel cinema di Kim Ki Duk probabilmente perché continuo a ritrovare nelle sue storie una meravigliosa ossessione alla ricerca dell’umanità di un mondo ormai a brandelli. Non sempre riesce a essere lucido ma è sicuramente coerente. E allora, in attesa del suo ultimo Moebius, mi rimetto a guardare quello che ritengo essere uno dei film più belli del decennio scorso: La samaritana.

Sergio

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martedì 5 novembre 2013

Another year - Mike Leigh


Guardare un film di Mike Leigh ricorda un po’ le atmosfere di certe cene che organizzi con gli amici, quelli veri, quelli che, nonostante gli anni trascorrano, ti danno la certezza di volere ancora bene e di essere ricambiato. Si parla con gli amici, si ricordano vecchi episodi e si ride per qualcosa che soltanto all’interno del ristretto gruppo si può comprendere. Si fa qualche progetto con un bicchiere di vino in mano e poi si ritorna alla vita di sempre, al trascorrere delle stagioni, agli eventi belli e brutti che la contraddistinguono. Il mondo non cambia per questo ma tu ti senti meglio.
Mike Leigh è uno dei più grandi registi inglesi in attività, raramente sbaglia un film. Nelle sue storie c’è la vita, quella vera, che quando la guardi non ti sembra di stare al cinema ma vorresti essere uno dei personaggi della pellicola per potere parlare con loro. Perché nelle loro gioie, nelle loro paure, riconosci le tue.
Another year sembra essere un film di Rohmer con i suoi lunghi dialoghi e la divisione del film in quattro parti corrispondenti alle quattro stagioni ma, a differenza del maestro francese, nel suo film c’è meno filosofia e più quotidianità. I personaggi del film di Leigh ruotano attorno alla famiglia di Gerri una psicologa cinquantenne e suo marito Tom ingegnere coetaneo. Gli anni che passano lasciano tracce evidenti sui corpi ma la loro serenità e il loro amore gli fanno affrontare ogni cosa con una leggerezza estrema. Diventano per questo punto di riferimento per gli amici, ognuno di loro con qualche problema esistenziale come Mary, l’amica divorziata e in perenne crisi di solitudine o il fratello di Tom rimasto vedovo da poco. La casa della coppia diventa un luogo di incontro in cui organizzare barbecue o amene cenette dove ognuno prende un pezzo della propria vita e la confronta con quella degli altri. In un film del genere la scrittura diventa essenziale per trovare il giusto equilibrio e dare all’intera opera il senso alto a cui mira. Leigh è maestro nella capacità di creare dialoghi mai banali e sempre carichi di senso, i suoi attori sono straordinari nel riuscire a parlare con ogni piccolo movimento del corpo. Tutto la storia diventa un’esperienza di crescita per ogni personaggio e anche per ogni spettatore che vive assieme a loro l’esperienza della vita che passa.

Ci sentiamo più pieni alla fine del film, carichi di un’umanità positiva che diventa l’arma migliore contro il cinismo che delle volte sembra essere l’unico strumento per sopravvivere. Quando guardi i film di Mike Leigh, come in quelli di Ken Loach l’altro grande maestro del cinema inglese, riesci ancora a dare un po’ di credito agli esseri umani. Uno strano corto circuito mi prende nell’avere visto questo film subito dopo La grande bellezza di Sorrentino; quanto mi sarebbe piaciuto che qualcuno dei personaggi del film italiano fosse comparso improvvisamente negli ambienti di Mike Leigh a farsi una lezione di umiltà e, soprattutto, di umanità.

Sergio

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sabato 2 novembre 2013

Amour - Michael Haneke


Pochi registi potevano pensare di realizzare un soggetto come Amour. Ma Michael Haneke non è diventato uno dei più grandi autori al mondo per nulla. Il suo cinema ci accompagna da più di vent’anni riuscendo spesso a provocarci dei brividi simili a quelli che un essere umano avverte tutte le volte che qualcuno,o qualcosa, ci svelano un pezzo della nostra anima.
La pellicola, palma d’oro lo scorso anno a Cannes, è una delle più forti storie d’amore mai realizzate. Ma è anche una storia di malattia e di morte, di pudore e solitudine, di emozione purissima e raggelante. Una di quelle storie che ti lasciano per un po’ in silenzio prima di potere riprendere a parlare.
Una coppia di anziani coniugi, un ictus che colpisce la moglie e il lento decadimento verso la fine. Potrebbe sembrare una sinossi pericolosissima per il cinema ma Haneke non è un regista qualunque. Lui ha sempre rifiutato la pornografia del dolore, sa benissimo quando un autore deve fermarsi per far parlare la storia e non dare mai un movimento inutile della macchina da presa. E sa anche che per una storia del genere servono due interpreti di una bravura straordinaria, per questo sceglie Jean Louis Trintignant e Emmanuelle Riva. Nel film non compare mai un medico,una corsia d’ospedale o qualche immagine che ti costringe a socchiudere gli occhi per la tensione, ma è talmente essenziale da farti confrontare con la tua interiorità più profonda. Credo che ogni spettatore di questo film potrà reagire in modo differente alla visione proprio perché l’anima di ognuno di noi è unica e ciascuno reagisce in maniera diversa agli eventi limite della vita. Anne e Georges decidono di vivere il loro dramma con un pudore estremo, pochissimi contatti con il mondo esterno se non quelli essenziali. Anche la figlia viene tenuta a una distanza discreta perché, come gli spiega Georges, “tutto questo non merita di essere messo in mostra…”. L’etica del dolore è quella che Haneke ci regala attraverso le azioni dei protagonisti ma anche il pudore dei comportamenti e quello, importantissimo, delle parole che ti insegna a non chiedere mai ad un malato come sta o se si può fare qualcosa per lui.

La falsa pietà di chi è incapace, fosse anche la figlia, di comprendere a fondo il senso di tragedia di un essere umano alle prese con la perdita progressiva della vita deve essere allontanato per salvaguardare ciò che, fino alla fine, rimane della persona che amiamo, la dignità e i ricordi. Haneke ci mostra, quasi con scientificità, quanto impreparati siamo a gestire gli aspetti limite dell’esistenza ma ci offre una commovente rappresentazione di ciò che può riuscire a fare l’uomo messo di fronte all’abisso. L’amore, quello più nobile e alto, che Georges regala ad Anne è una grandissima lezione di compassione, una lezione morale di sublime altezza. Rimaniamo muti di fronte a questo spettacolo, certi di avere assistito a qualcosa di grande, che probabilmente non riusciremo a spiegare bene con le parole ma avrà contribuito a migliorare la nostra vita.

Sergio


venerdì 1 novembre 2013

La grande bellezza - Paolo Sorrentino


Giuro di averci provato. Ho iniziato a guardare La grande bellezza facendo scomparire tutti i timori che, ogni volta che mi preparo a vedere gli ultimi film di Sorrentino, mi assalgono in maniera prepotente. Mi dicevo che uno come lui avrebbe sicuramente compreso che le sue ultime prove erano sempre più estetizzanti e sempre meno ricche di contenuto. Probabilmente la trasferta americana di This must be place era stata archiviata e il regista aveva compreso che certe storie e certi ambienti non erano nelle sue corde, magari la morte del divo Giulio l’aveva riportato a una considerazione più umana dell’esistenza che non ha bisogno di continui voli della macchina da presa per essere celebrata (o criticata). E probabilmente, mi dicevo, pure Toni Servillo avrà compreso che nella recitazione bisogna anche sapere lavorare di sottrazione piuttosto che dimostrare continuamente quanto si è bravi. Inizia il film e la frase di Louis Ferdinand Céline messa come incipit mi mette di buon umore, Céline lo scrittore che amo più di ogni altro… non poteva esserci migliore presentazione! Naturalmente conoscevo già il soggetto del film e l’affresco della capitale nei nostri poveri tempi mi sembrava uno spunto ottimo.
Ma che colpa posso avere se dopo i primi quindici minuti la coppia Sorrentino – Servillo riescono a darmi più colpi di un samurai alle prese con una epica crisi di astinenza? La macchina da presa non si ferma un attimo, dolly, carrelli, piani sequenza. La faccia di Servillo sembra il campionario delle facce dell’attore su quei vecchi manuali di espressività teatrale. Tutto portato all’eccesso in modo insopportabile… ma io sono buono e resisto, sono i tempi mi dicevo… sta descrivendo il nostro presente e allora forse avrà pensato che caricare tutto in questo modo è necessario per farci entrare dentro il film. Continuo la visione e cerco di respirare bene. Ma niente, Servillo non la smette di attaccarsi ai drappi e Sorrentino si sente sempre più Orson Welles (senza esserlo). Arriva Verdone e, nonostante gli sforzi, le sue capacità recitative non sono certo eccelse. Ma questo è niente rispetto al brivido provato all’apparizione della Ferilli, paura allo stato massimo. Sorvoliamo che la Ferillona entra in campo subito dopo un bel primo piano del simbolo della banca sponsor del film (ma c’era proprio bisogno di fare marchette così visibili?) ma capisco sempre più perché uno dei pochi geni del cinema italiano, Marco Ferreri, scelse lei e Jerry Calà (avete capito bene) per girare un suo grande film Diario di un vizio. Nessuno meglio di loro avrebbero potuto interpretare meglio i personaggi di quell'opera (scegliere il peggio per ottenere il meglio). Ma Sorrentino non è (neanche) Ferreri e la sua scelta è palesemente un omaggio alla romanità della Ferilli tanto è vero che subito dopo appare in un cameo agghiacciante l’altro simbolo della romanità coatta, Antonello Venditti. A dire il vero all’inizio ero convinto si trattasse di Corrado Guzzanti nella sua famosa imitazione ma dopo pochi secondi ho compreso che era il vero Venditti. Guzzanti è molto più reale nell’interpretare Venditti di quanto non lo sia lo stesso Venditti.

Il film scorre facendo scempio di tutte le regole cinematografiche che Sorrentino una volta conosceva. Pochissima adesione verso i personaggi visti costantemente come delle macchiette e senza mettere mai un briciolo di umanità; ma non perché si voglia spingere il tasto verso il grottesco (dispiace fare ancora paragoni ma anche Fellini è un esempio troppo lontano per questo Sorrentino) quanto per sottolineare, da parte dello stesso regista, un’umanità irrecuperabile nella sua totalità e per questo (cosa peggiore in assoluto) automaticamente assolta perché così fan tutti. A metà film cerco con lo sguardo i film di Ken Loach nella mia videoteca per farmi un po’ di coraggio e ricordarmi che avere etica nella vita è una dote ancora presente in qualcuno. Il film continua a dispiegarsi nella sua (ripetitiva) descrizione del malessere della società. Io non so più a cosa attaccarmi, penso a tutte le volte che ho scritto di Servillo come il migliore interprete italiano e di quando parlavo di Sorrentino come la grande promessa del nostro cinema. Rimango muto fino alla fine quando la voce di Gabriella al mio fianco mi ricorda di avere sottoposto la mia compagna a questo strazio di due ore. Ma lei sintetizza con una sola frase il senso di tutte queste mie parole: “E’ l’Italia che rovina le persone”. Chapeau!

Sergio