lunedì 22 settembre 2014

The wolf of Wall Street - Martin Scorsese



Anche se Martin Scorsese non girasse più film avrebbe già guadagnato il suo posto di rilievo all’interno della storia del cinema. Pochi come lui hanno saputo raccontare la vita della metropoli americana moderna. Ci sono registi che vengono subito in mente se si pensa a un particolare stato d’animo. Pensiamo a Bergman quando riflettiamo sui tormenti dell’anima o ci viene in mente Fellini tutte le volte che parliamo dei sogni. Ci sono poi altri registi legati indissolubilmente a una città, la Parigi di Truffaut o la New York di Woody Allen ma anche quella di Scorsese. Non una New York da piani alti ma quella di strada, abitata non da alienazioni e nevrosi come nel cinema alleniano ma da sofferenze e disagi molto più fisici. Da questa New York da marciapiede nascono grandi capolavori come Mean Streets, Taxi driver o Toro scatenato. Scorsese fino alla metà degli anni Novanta ci ha regalato grandissime opere cinematografiche ma, così come è successo per l’altro grande regista newyorchese, ad un certo punto sembra avere smarrito la lucidità dei momenti migliori iniziando un processo involutivo che solo a sprazzi ci ha permesso di godere della sua bravura. Così ogni volta che guardo un nuovo Scorsese mi concentro con la speranza che il vecchio zio Marty riesca ancora a colpirmi duro con la sua arte.
Avevo grandi aspettative con The wolf of wall street, molta critica entusiasta, un Leonardo Di Caprio a detta di tutti in stato di grazia ma, ancora una volta (purtroppo), termino la visione con un bel po’ di amaro in bocca. Scorsese continua a girare in maniera impeccabile, il ritmo delle sue sceneggiature è di altissima scuola ma manca qualcosa di importante, probabilmente la più importante nel mio giudizio di un’opera, il suo essere necessaria. Molti hanno amato questa pellicola e in effetti il racconto che Scorsese fa della capitale mondiale della finanza con i suoi operatori senza scrupoli, è di pregevolissima fattura. Scorsese gira con un cinismo estremo, i personaggi sono tutti senza speranza di redenzione ma quando crei un’opera non provando empatia per nessuno dei tuoi personaggi giungi inevitabilmente a un livello di distacco troppo estremo per farla diventare sincera (e quindi necessaria). Flaubert diceva che madame Bovary era lui e probabilmente dietro lo sguardo allucinato di Travis Bickle in Taxi Driver c’era tanto del suo autore. Ma dietro la maschera feroce di Jordan Belfort, interpretato a onor del vero da un Di Caprio strepitoso, nessun raffronto è possibile. Non che per fare un film sul nazismo bisogna sentirsi un po’ Hitler ma se in  una narrazione cinematografica è totalmente assente la parte empatica arriva facilmente il sospetto che l’opera sia stata scritta a tavolino con esigenze più di nature commerciali che non poetiche.

Un abisso tecnico distanzia lo Scorsese di The wolf of Wall Street da quello ancora acerbo stilisticamente di Mean Streets ma quanta voglia in più in quel film. Voglia di raccontare il tuo ambiente, le tue radici, la tua educazione. Questo manca nell’ultimo Scorsese, voglia di raccontarci il suo mondo, con le sue contraddizioni e le sue paure. Senza paura di raccontare storie in qualche modo simili, perché i grandissimi registi non possono temere di parlare di loro stessi, dietro la loro vita e la capacità che hanno di filtrarla attraverso l’arte nascono i capolavori.

Sergio

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venerdì 5 settembre 2014

Pasolini - Abel Ferrara

L'atmosfera della Mostra del Cinema di Venezia è di una bellezza indescrivibile. Una piccola isola come il Lido gremita di gente fino a mezzanotte inoltrata, tutti per guardare film dalla mattina alla sera. I più fortunati, quelli che riescono a ottenere un pass da giornalista, passano le loro giornate dentro le varie sale, guardando dai tre ai nove film al giorno. Io, coi miei pochi spiccioli, punto sul film che mi sembra più interessante e ho la segreta speranza di assistere a un capolavoro memorabile, così da poter dire in futuro “eh, io c'ero!”. Peccato che non sia stato questo il caso di Pasolini di Abel Ferrara.

Quando ho letto che Ferrara presentava un film su Pasolini ho pensato a film come King of New York, Fratelli, o Il cattivo tenente (quello vero, con Harvey Keitel) e ho creduto che poteva venirne fuori un film davvero superbo. Tuttavia, malgrado l'innegabile talento di Willem Dafoe, che nelle movenze e negli sguardi è di una bravura disarmante, il film risulta convincere poco, restituisce poco o niente del genio del vero Pasolini.

Impedimento più grosso di tutti è stato quello linguistico. Probabilmente è un mio limite non riuscire ad accettare un Pasolini che parla un inglese americanaccio, probabilmente deficito io di fantasia per non poter accettare la cerchia di amici e familiari che parla in italiano fra di loro e in un inglese da Supermario quando si rivolge al Willem-Pierpaolo, ma a neanche venti minuti dall'inizio avevo già mal di testa. Scusate, ma non riesco proprio a trovare la credibilità di un Pasolini che accoglie l'amica Laura Betti dicendole “how you doin'?”.

Ho voluto sperare il più possibile, ma quando ho visto Scamarcio interpretare il Ninetto Davoli di una volta, ho capito che proprio non c'era niente da fare.

Ferrara si è voluto concentrare nelle ultimissime giornate della vita del poeta bolognese, riprendendo il suo tragico omicidio lasciando poco spazio all'immaginazione. Le immagini forti e “scandalose” dominano il film dall'inizio alla fine, sicuramente un omaggio al coraggio con cui Pasolini girò scene che scandalizzarono ogni strato della società, dentro e fuori il paese. A differenza del grande maestro però, l'allievo Ferrara si dimostra poco capace di creare quella necessità narrativa che sta dietro alle immagini forti, senza la quale sono solo immagini fini a sé stesse. “Forti” solo per modo di dire, solo a livello visivo.

Peccato, perchè Pasolini era uno di quei registi che sapeva sconquassare, che non girava un'orgia solo perchè è una scena che richiama l'attenzione. Il suo era un cinema di denuncia, un cinema politico, necessario. Pochi come lui hanno saputo cogliere, con la sua stessa razionalità, gli aspetti della società in cui viveva e denunciarli con violenza in libri, poesie e film.

Rendere omaggio a una figura tanto spessa è un'idea tanto giusta quanto ardua, e, ahimé, non mi sento affatto di dire che Ferrara sia stato all'altezza di reggere il peso del compito.

Peccato davvero.

Robin

mercoledì 7 maggio 2014

Oh boy, un caffè a Berlino - Jan Ole Gerster



E’ una bella sorpresa vedere un’opera prima di un regista tedesco e trovarsi catapultato in piena atmosfera nouvelle vague anni Sessanta. Oh Boy – Un caffè a Berlino di Jan Ole Gerster del 2012 è  uno di quei film che, pur non facendoti gridare al capolavoro, riesce a dimostrare come si possa fare cinema intelligente anche con un budget ridotto a patto di avere delle idee di sceneggiatura di buon livello.
Una giornata nella vita di un ragazzo all’interno di una Berlino non turistica tra incontri casuali e momenti di crescita. Niko è un ragazzo di poco più di vent’anni, confuso sulle cose da fare come spesso solo a quell’età riesci ad essere. Ha lasciato gli studi ma senza confessarlo al padre (che continua a versargli l’assegno mensile), non riesce ad avere una vita sentimentale seria e a chi gli chiede se ha un po’ di tempo risponde di avere mille cose da fare. In realtà l’unica cosa che cerca di fare è prendere un caffè ma qualcosa si mette sempre di traverso impedendogli il soddisfacimento dell’unico desiderio reale che ha. I personaggi che Niko incontra sono a volte drammatici a volte divertenti ma sembrano avere tutti un punto in comune: sono troppo presi dalle loro esistenze per confrontarsi con lui che, di contro, non ha tanta voglia di aprirsi con qualcuno. Ogni vita scivola via tra vecchi ricordi diventati ossessioni, momenti di riflessione che non hanno mai fine e gesti importanti che si rimandano sempre. Tutto è narrato con una leggerezza davvero difficile trovare in un regista all’inizio (solitamente i giovani autori fanno a gara nel rendere le loro storie pesantissime elucubrazioni sui destini dell’umanità). Gerster segue la giornata di Niko con discrezione mentre il ragazzo si lascia trasportare da un quartiere all’altro, ritrovando antiche compagne di scuola o facendo amicizia con la nonna di uno spacciatore di droga. Ma anche quando si scontrerà con il padre, che scopre l’abbandono degli studi da parte del figlio,  il tono narrativo non cambia. Si parla di temi (anche) importanti con leggerezza e con un sottofondo jazz che accompagna gradevolmente tutto il film.

Niko rispecchia una stagione della vita molto spessa carica di incertezze, di dubbi, di pensieri un po’ folli ma con la certezza che tanto ci sarà del tempo per ritornare sui propri passi. Il racconto di una libertà data dalla non assunzione di responsabilità, anche questo è il fascino dei vent’anni. E’ la libertà narrativa dell’autore diventa la diretta conseguenza dei primi film dei registi della nouvelle vague, Niko è il fratello minore dell’Antoine Doinel truffautiano ma anche del protagonista del Segno del leone di Rohmer o del Belmondo godardiano di Fino all’ultimo respiro. Un bell’esordio che speriamo non rimanga un caso isolato.

Sergio 

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venerdì 2 maggio 2014

L'intrepido - Gianni Amelio


I film di Gianni Amelio sono stati importanti nella mia formazione giovanile soprattutto per consolidare l’idea di un cinema di forte impegno morale. Un cinema che non si tirava mai indietro nel raccontare temi importanti come nel bellissimo Porte aperte, tratto dal romanzo di Sciascia, del 1990 (con una delle ultime e più grandi interpretazioni di Gian Maria Volontè). E poi film come Il ladro di bambini o Lamerica, opere dove la lettura del presente avveniva in maniera coinvolgente e con una partecipazione emotiva altissima. Il suo cinema era (ed è) però lontanissimo parente di quel cinema impegnato alla Ken Loach che si è abituati a usare come metro di paragone. Amelio ha sempre privilegiato l’aspetto intimo, poetico per raccontare la società. Quasi mai dalle sue opere esce fuori un grido di rabbia piuttosto si è portati a una sorta di riflessione morale sulla natura dell’uomo. Poca analisi sociale o studio sui meccanismi del potere ma grande attenzione agli aspetti personali dell’essere umano.
Pur apprezzando i suoi film non ne sono però mai stato interamente coinvolto, sentivo quasi sempre un di più di paternalismo retorico che rendeva le storie inutilmente più ampie di quello che avrebbero dovuto essere. Preferivo di gran lunga i suoi documentari dove la grande capacità di Amelio di osservare in profondità l’animo umano conosceva un limite preciso che gli proibiva di illustrare in maniera didattica il suo punto di vista. La terra è fatta così un suo lavoro del 2000 che racconta tramite semplicissime sequenze di interviste, i ricordi dei sopravvissuti al terremoto dell’Irpinia del 1980, è una di quelle opere che non mi stancherei mai di guardare (e di consigliare).
Purtroppo con l’età succede che certe tendenze si accentuino e diventino ancora più ingombranti rispetto al passato. Guardando il suo ultimo film L’intrepido ho avuto conferma di ciò. Nel cercare di raccontare il disastro sociale ed economico del nostro paese degli ultimi anni Amelio sceglie una via quasi fiabesca. Il protagonista, Antonio, è un uomo di mezza età che non trova niente di meglio da fare per andare avanti che fare il rimpiazzo. Sostituendo per qualche ora o per qualche giorno qualcuno che non può presentarsi a lavoro, Antonio passa tra i mestieri più disparati e la sua figura è praticamente quella di un lavoratore invisibile. Il grado più alto della precarietà e dello sfruttamento professionale. Ma Antonio, un Albanese non molto convincente, vive tutto questo con una serenità e una positività che nelle intenzioni dell’autore vorrebbe probabilmente essere un omaggio a una umanità che non si abbatte ma si risolve invece in una superficialissima rappresentazione di un presente che meriterebbe ben altri strumenti narrativi per essere narrato. La vita del protagonista scorre tra lavori casuali e rapporti interpersonali (con il figlio e con una donna conosciuta lavorando) senza mai decollare. A cosa dovrebbe portare questa positiva predisposizione d’animo se non a una, ancora più feroce, tendenza allo sfruttamento da parte di un mercato del lavoro sempre più schiavista?

Dopo avere visto il film leggo una intervista di Amelio in cui afferma che voleva raccontare il mondo del lavoro come fece Chaplin. Il cerchio si chiude. La chaplinizzazione dell’umanità è servita solo ad arricchire il creatore di questa straordinaria beffa artistica e a fare stare ingenuamente meglio chi aveva poco tempo per andare a fondo nello studio dei caratteri umani accontentandosi della consolante immagine dell’uomo buono. Non credo che di illusioni buoniste abbia bisogno l’Italia di oggi quanto piuttosto di sonore incazzature e prese di coscienza ma purtroppo nel nostro paese i Ken Loach sono merce rara.

Sergio


sabato 26 aprile 2014

L'angelo Azzurro - Josef Von Sternberg


Non sono moltissimi i film che possano vantare delle scene entrate nell’immaginario collettivo anche per i non appassionati di cinema. Spesso queste scene sono più legate all’immagine della star ripresa che al valore artistico dell’opera. Quando però i due casi si incontrano ecco che rivedersi, di tanto in tanto, un vecchio film diventa un godimento sia per gli occhi che per il cervello.
L’angelo azzurro, capolavoro tedesco del 1930, è uno di quei film che non mi stanco mai di rivedere. I motivi che di volta in volta mi possono spingere a rimettere la pellicola sono sempre diversi, inutile negare che il fascino di Marlene Dietrich non sia quasi sempre l’impulso principale. Quando con la sua splendida voce inizia a cantare Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt (o Falling in love again nella versione in lingua inglese) tocchi con mano il miracolo con cui il grande cinema riesce a strapparti da qualsiasi pensiero per accompagnarti in una dimensione perfetta. Allo stesso modo la voce di Lola Lola si eleva da quel malfamato locale di una Berlino che sta per piombare nei suoi anni più bui per arrivare a toccare le corde del cuore del professor Rath, serioso insegnante del prestigioso ginnasio cittadino. L’interpretazione che Emil Jannings (in assoluto uno dei più grandi attori della storia del cinema) da di questo personaggio è assolutamente grandiosa. Jannings riesce a mettersi sulle spalle l’intera metamorfosi di un mondo che sta rapidamente disintegrandosi. Il decadimento della vecchia borghesia sta per lasciare spazio alla frenesia folle del nazismo e il professor Rath rovinato dall’amore per l’affascinante Lola Lola riesce a spiegarci come un libro di storia quello che stava per avvenire in Europa in quegli anni.
E’ probabilmente uno degli ultimi grandi momenti del cinema tedesco prima della diaspora iniziata con l’avvento del terzo Reich (ci sarà ancora quel immenso capolavoro di M di Fritz Lang). Una delle cinematografie più importanti e più innovative del mondo stava per scomparire per non mischiarsi a uno dei governi più malati che l’uomo ricordi. Gli artisti che con l’espressionismo ci avevano donato (non solo nel cinema ma anche nel teatro, nella letteratura, nella musica e nella pittura) quasi una riproposizione di quello che fu il Rinascimento in Italia, stavano per preparare le valigie in tutta furia. Così fece sia il regista Von Sternberg che la divina Marlene trasferitasi ad Hollywood per diventare uno dei miti del cinema mondiale. Ma tutto partiva da quella canzone cantata al Der Blaue Angel vero canto d’addio della Repubblica di Weimar e di un intero sistema di valori.

A quella voce e a quel corpo, pochi potevano resistere. Hitler provò disperatamente a convincere la Dietrich a rientrare in patria per diventare la regina del nuovo cinema tedesco (che ovviamente non nacque mai), ma lei si rifiutò sempre energicamente; amava dire a proposito delle insistenze del dittatore tedesco “quel poveretto non si è più ripreso dalla scena della giarrettiera…”. La Dietrich oltre ad essere una star divenne una delle più famose oppositrici del regime nazista e i suoi viaggi, durante il conflitto, all’interno delle prime linee alleate furono leggendarie. Molti reduci raccontarono che grazie alle sue canzoni riuscivano a trovare nuovo entusiasmo e voglia di vivere da spendere nei giorni decisivi della battaglia. Erano altri tempi, più feroci certo ma anche più carichi di sogni rispetto ad oggi e allora il cinema riusciva davvero a entrare nella vita, e a cambiarla.

Sergio



martedì 22 aprile 2014

La parte degli angeli - Ken Loach



Quando vai a vedere un film di Ken Loach sembra quasi di prepararsi per andare a trovare dei vecchi amici. Quelli con cui sei cresciuto, che conoscono tutto di te e non ti fanno stare a disagio anche se comunichi loro le tue debolezze più grandi.
Se il fatto di sapere già prima cosa aspettarti è un limite per molti autori cinematografici, per altri (ben pochi per la verità) diventa un motivo di vanto. La differenza tra l’essere ripetitivo e l’essere coerente con la propria idea di cinema (e di società) è quella che passa tra i grandi autori e i mestieranti dalle emozioni a un tanto al chilo.
Registi come Ken Loach e, per rimanere tra i contemporanei, David Cronenberg e Aki Kaurismaki fanno della fedeltà ai loro valori di vita un punto di partenza imprescindibile per i loro soggetti cinematografici. Guardi le loro opere e ti accorgi che ogni volta aggiungono un capitolo a un libro che messo assieme forma la loro personalissima recherche proustiana.
Con La parte degli angeli Loach ci regala una nuova grande opera ambientata nelle sue adorate periferie urbane (questa volta siamo a Glasgow) e popolata ovviamente da anti eroi, da personaggi che con la vita hanno solo fatto a pugni e con i quali la società non sa bene come comportarsi (bellissima la scena iniziale con la sequenza velocissima di processi al tribunale). Per Robbie, il protagonista del film, però è un periodo speciale, sta per nascere il suo primo figlio e la forza che da solo non riesce a trovare, la scopre in dosi straordinarie in un piccolo essere umano, l’unico che sembra dargli ancora un po’ di fiducia  e regalargli quella seconda possibilità di cui ha bisogno. Ma questa nuova possibilità Robbie deve costruirsela da solo e per farlo ha bisogno di un nuovo colpo. Ma non un colpo pericoloso, una di quelle azioni per cui inizieresti ad odiare il protagonista. Un colpo quasi poetico nel suo essere surreale, riuscire ad estrarre qualche bottiglia di whisky da una botte quotata a prezzi folli per poterle poi rivendere a ricchi collezionisti. La parte degli angeli corrisponde alla percentuale di evaporazione nel processo di maturazione del whisky (circa il 2% del totale), all’incirca quella che Robbie e i suoi amici tenteranno di estrarre dalla botte.

Nelle storie di Loach, anche quelle più drammatiche, non ci si dimentica mai di sorridere. Se sai che la rinascita può avvenire solo da una presa di coscienza seria del reale e che ribellarsi contro una società sbagliata diventa l’unico modo per ritornare ad essere vivo, la solidarietà degli amici la trovi sempre. E l’amicizia per Loach è qualcosa di straordinariamente importante perché anche grazie a loro riesci a trovare il tempo per sorridere alla vita. Dei film di Loach scopro sempre di averne un bisogno quasi fisiologico, anche quando non sono perfetti. Nella vita probabilmente nulla lo è, però le sue storie sono vere, sincere e ti danno quella forza che ti serve ad andare ancora un altro poco avanti, fino al prossimo film, alla prossima uscita con gli amici o al prossimo sorriso del tuo bambino.

Sergio

martedì 1 aprile 2014

La vita di Adele - Abdellatif Kechiche


Dalla visione di un film che ha vinto la palma d’oro a Cannes ci si aspetta sempre tanto. Anche se hai sempre pensato che il regista, il franco tunisino Abdellatif Kechiche, sia sempre stato sopravvalutato rispetto alle sue capacità.
Con La vita di Adele ritengo si arrivi a un punto di non ritorno. Cercare di comprendere il perché quest’opera abbia riscosso un entusiasmo così elevato mi riesce francamente complicato. Il trattare in maniera visivamente forte il tema di un amore omosessuale mi sembra (per fortuna) ormai superato nel nostro presente così come le numerose scene di nudo che tanto scandalo hanno fatto alla presentazione del film e che sono state abilmente pubblicizzate per logiche commerciali.
Per quasi tre ore assistiamo alla formazione sentimentale della protagonista Adele (peraltro una bravissima e ancora poco nota attrice: Adele Exarchopoulos) che insoddisfatta dalle esperienze eterosessuali scopre di essere attratta dalle donne; la sua storia d’amore con Emma diventa il centro del film facendoci assistere alla presa di coscienza, fisica e mentale, di una ragazza alle prese con la conoscenza di sé. Nel film non succede niente di straordinario, nulla che non succeda quotidianamente a ogni essere umano adolescente nella formazione della propria identità e che lo porterà a scelte importanti per la propria crescita. E allora perché quello che succede ad Adele dovrebbe colpirmi in modo così profondo? Non sono capace di provare empatia o esiste qualcos’altro?
Più passa il tempo e più la penso come il maestro Hitchcock quando affermava che il cinema non è una fetta di vita ma una fetta di torta. Con ciò non voglio naturalmente affermare che non possa esistere altro modo di fare cinema ma che trasportare nel linguaggio cinematografico ciò che, per sua natura, è di stretta competenza della letteratura, non è operazione facile per chiunque. Nei corsi di sceneggiatura si impiega molto tempo a spiegare come una trama necessiti di un suo climax narrativo e costruire storie in cui gli eventi non progrediscono ha un coefficiente di difficoltà altissimo. Fare un racconto di formazione per immagini senza chiamarsi Eric Rohmer è un’operazione non alla portata di tutti e le, pur discrete, capacità registiche di Kechiche non sono di certo sufficienti a tale impresa.

Termini il film avendo l’impressione che questa storia non ti abbia dato niente di più rispetto a ciò che non conoscessi già sull'argomento. Basta aver vissuto e avere fatto buone letture per sapere che la vita di Adele non ha nulla di originale e non ti arricchisce da nessun punto di vista. Al cinema serve qualcosa di più per assolvere alla sua funzione culturale.

Sergio


martedì 4 marzo 2014

Ali Aydin - Muffa


In giornate di grida sguaiate e patriottici entusiasmi cinefili a dir poco imbarazzanti non è stato forse un caso imbattersi in una pellicola che mi ha confermato che i grandi film si realizzano ancora. E’ sempre più difficile trovarli, sommersi come sono da titoli di scarsa levatura ma di più immediato appeal. Da tempo non sentivo citare Fellini e Maradona (perché insieme? Non so ma non chiedetelo a me), icone di un passato glorioso e per molti aspetti rimpianto. Mi è allora ritornata in mente la frase con cui si chiude l’ultimo film del regista riminese La voce della luna: Eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”. Il silenzio è importante, aiuta a riflettere, serve a capire meglio gli altri, e quando viene usato bene al cinema, con le immagini, i volti e le storie giuste riesce a comunicarti più di tante parole. Sarà per questo che mi porto sempre Buster Keaton nel cuore.

Muffa opera d’esordio del regista turco Ali Aydin è uno di quei film che ti entra dentro come solo le grandi opere riescono a fare. Lo fa rimanendo quasi in silenzio, con pochissimi dialoghi ma con un’espressività così potente delle immagini da farti quasi rimpiangere che sia stato inventato il sonoro al cinema. Il grande cinema turco ci ha abituato con le opere di Yilmaz Güney o Tevfik Başer a narrazioni essenziali. Niente orpelli registici o dialoghi di insopportabile pedanteria. Solo immagini potenti e parole quando servono. Da questa tradizione sembra uscire fuori il film di Aydin (premiato a Venezia con il leone del futuro nel 2012). La trama di Muffa è minima. Un uomo di mezza età, impiegato alle ferrovie, vive da solo dopo la morte della moglie e la scomparsa del figlio avvenuta diciotto anni prima in circostanze mai chiarite. Il senso delle sue giornate viene dato solo dalle sue incessanti richieste, sotto forma di lettere mensili, che l’uomo invia alle autorità per avere notizie sulle sorti del figlio. Come, grazie a una storia simile, si riesca a entrare dentro ad un universo di poesia e di alta riflessione sui rapporti umani è difficile dirlo. Il cinema è capace di questi miracoli quando si realizza con sincerità e con grande applicazione. Non è un cinema spontaneo, c’è più difficoltà a filmare una scena di solitudine di tre minuti che ti colpisce come un pugno, rispetto a un piano sequenza di un quarto d’ora che è solo sfoggio estetico. Ma questo spesso non è compreso da chi ha bisogno di grandi bellezze e di banalità profuse a piene mani. Per fortuna esiste un cinema diverso, va cercato faticosamente e poi condiviso con chi crede ancora alle emozioni che escono fuori dal volto di un uomo e non dalle giravolte di una cinepresa.

Sergio

venerdì 17 gennaio 2014

Woody Allen - Blue Jasmine


Risulta francamente impossibile avvicinarsi a una nuova pellicola di Woody Allen senza essere influenzato dalla sua incredibile carriera passata. Decine di capolavori fino ai primi anni Novanta e poi una deriva preoccupante che lo ha portato, soprattutto nell’ultimo decennio, a titoli francamente superflui (con la felice eccezione di Midnight in Paris).
Gli amanti di Woody Allen, anche senza conoscersi tra loro, sono molto simili agli adepti delle logge segrete della massoneria, si scambiano messaggi in codice sotto forma di vecchie battute dei suoi film e dalla reazione che suscitano capiscono chi fa parte del proprio gruppo. Proprio per il triste declino che il nostro regista ha conosciuto negli ultimi anni, diventano sempre più sfuggenti ed ermetici. Alla domanda se si è visto il suo ultimo film, spesso ti dicono che non ne hanno avuto ancora il tempo (per evitare di dire qualcosa di spiacevole) però, proprio il giorno prima, casualmente, hanno recuperato il dvd di Io e Annie o Manhattan e via con gli elogi…
Con questo, ormai classico metodo di avvicinamento, mi sono accostato al suo ultimo film, Blue Jasmine, pellicola numero quarantaquattro nella carriera alleniana. Il volto della bravissima Cate Blanchett  che risalta sul manifesto del film sembra promettere bene. Paragonata alla bellezza da bambola di Scarlett Johansson la differenza è enorme. Per nostra fortuna.
L’ambientazione non newyorchese della pellicola, girata in gran parte a San Francisco, sembra ribadire la costante del Woody degli ultimi anni abituato a vagare per le città, soprattutto europee, alla ricerca di quell’ispirazione che solo la grande mela e delle volte Parigi gli hanno dato in passato. Ma in questo film New York è più che presente, perché da lì proviene la nostra protagonista che si porta dietro un matrimonio finito e una vita andata a rotoli dopo l’arresto e il suicidio del marito truffatore. Jasmine/Blanchett arriva nella città californiana per ricominciare da zero, ospite della sorella, diversissima da lei e unica persona che può aiutarla a ricostruire la sua vita.

Quando in un film di Allen ti accorgi che dopo la prima mezz’ora di visione non hai ancora fatto un sorriso, le peggiori paure si impossessano in noi adepti alleniani. Pensi di ripiombare in quegli incubi fintamente “alti” di Match Point. Riproposizione delle solite tematiche di aristocratici in crisi con relativo bagaglio psicoanalitico da decifrare. Ma mentre inizi a pensare alle scuse da dire sull’ultimo film di Woody che non hai ancora visto ecco che la storia prende quota come un vecchio motore che sbuffa all’inizio e poi fila via in maniera impeccabile. Blue Jasmine non ha nulla delle commedie tipiche di Allen ma è distante anni luce anche dalle ambiziose e deludenti opere che il regista americano ci ha purtroppo regalato nell’ultimo decennio. La sontuosità dell’interpretazione di Cate Blanchett è sicuramente decisiva nel rendere credibile la pellicola e farci provare una grossa empatia per il personaggio di Jasmine incapace di rifarsi un’esistenza libera dalle macerie del suo passato. Ma anche la scrittura e la regia di Allen sono importanti perché in questo film (finalmente è il caso di dire) il nostro Woody si ricorda di assecondare i suoi personaggi piuttosto che le proprie ossessioni. Intendiamoci, Jasmine è in pieno un personaggio alleniano, per come si muove, per come parla, per il mondo da cui proviene ma non si ha mai la sensazione che ciò che vedi sia la stanca ripetizione di ciò che hai visto (meglio) qualche decina di film fa. Il suo tentativo disperato di riprendersi la propria vita in una città che non conosce e in mezzo a persone mai viste appare credibile e assolutamente in linea con la caratterizzazione del personaggio. Certo non possiamo fare paragoni con titoli come Un’altra donna (anno di grazia 1988) ma la boccata d’aria che il vecchio Woody ci regala è notevole. Alla fine posso dirlo, quando esce un nuovo Allen state certi che noi fanatici il film lo vediamo subito.

Sergio

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venerdì 10 gennaio 2014

Matteo Garrone -Reality


Mi ero ripromesso, dopo avere parlato de La grande bellezza, che avrei ricominciato a scrivere di un film italiano solo per sottolinearne gli aspetti positivi. Dopo numerose visioni che mi hanno lasciato abbastanza perplesso (come gli ultimi titoli di Bertolucci, Soldini e Paolo Franchi) ho dovuto ripiegare su un classico come Viaggio in Italia di Rossellini per risentire un po’ di sano orgoglio cinefilo nazionale. Ma questo non era sicuramente sufficiente a ripagare l’amarezza data da un paese che sembra ormai avere adeguato il livello della sua cultura cinematografica a quello dell’estetica televisiva. Sceneggiature sciatte (o insopportabilmente pompose), tecnica sempre più ridondante e recitazione spesso sopra le righe. In mezzo a tanta desolazione abbiamo ancora, per fortuna, qualche autore che prosegue il suo percorso artistico rimanendo fedele alla sua idea iniziale di cinema che possa servire a raccontare il presente in modo critico, mai ruffiano e capace di utilizzare il mezzo cinematografico in modo serio, come un bravo artigiano che conosce bene i suoi strumenti di lavoro e sa quando deve renderli protagonisti e quando invece deve nasconderli per mettere in risalto la storia che racconta. Mi riferisco a Matteo Garrone regista italiano venuto fuori negli anni Novanta con titoli importanti come Terra di mezzo e L’imbalsamatore e poi confermatosi ad alti livelli con opere come Primo amore e il suo ultimo recente Reality. Sembra abbastanza singolare che per trovare un film che non si abbassi al livello dello sceneggiato televisivo da prima serata bisogna vedere un film che, sin dal titolo, rimandi in maniera diretta a ciò che più televisivo non potrebbe essere, il reality e quel grande fratello che è riuscito ad elevare a modello comportamentale personaggi che, in una società appena più normale della nostra, meriterebbero il più completo disinteresse (se non qualche rimbrotto e il consiglio di andare a leggersi qualche libro).
Garrone è un regista attento alle mutazioni della nostra società, qualcuno ha detto che il suo film è arrivato fuori tempo massimo per il fatto che il fenomeno mediatico del grande fratello non gode più dell’entusiasmo di qualche anno fa. Ma per Garrone non è tanto il format televisivo in questione il centro della storia, ma cercare di capire come la nostra società è cambiata nel corso degli ultimi anni facendoci diventare schiavi di un meccanismo perverso per cui l’apparire, sempre comunque e in ogni modo, è il solo metro di paragone per ritenersi vivi e facenti parte di una comunità. Metro di crescita dell’individuo non è più la capacità di elevarsi culturalmente o riuscire a indicare ai propri figli stili di vita sani e solidali, ma riuscire a farsi notare in un mondo sottosopra dove non conta più se fai la figura dell’idiota perché in mezzo a tanti idioti si capovolge, come in un carnevale, il senso del giudizio è idiota appare l’unico sano.

Luciano, il protagonista del film di Garrone, mette a repentaglio la propria famiglia e la propria esistenza nel sogno folle di partecipare a un programma televisivo che potrebbe significare l’inizio di una nuova vita. Garrone ci presenta Luciano non come una scheggia malata della società ma, semplicemente, come un elemento più debole degli altri che perde la testa dietro ad una illusione che però non è vista come tale dagli altri. Nessuno mette in discussione il fatto che la partecipazione al grande fratello potrebbe veramente significare un punto di arrivo nella vita di un uomo. Ed è probabilmente questo l’aspetto più inquietante del film di Garrone, la nostra società ha completamente capovolto i valori di riferimento e chi non la vede così diventa quasi un alieno. In questo senso diventa magistrale l’idea del regista di aprire e chiudere il film con due movimenti di macchina opposti. All’inizio la macchina da presa arriva dal cielo e si avvicina progressivamente alla città mentre alla fine si allontana progressivamente dal primo piano del protagonista per raggiungere nuovamente le stelle. Ed è bellissimo notare come Garrone si ricordi la grande lezione dei maestri del cinema che sottolineavano gli aspetti tecnici solo quando erano funzionali al racconto e non perché dovevano servire a sottolineare le capacità tecniche del regista. Come diceva Orson Welles la tecnica la puoi imparare in qualche settimana di studio ma la capacità di sapere raccontare ciò che ti sta attorno richiede molto più sacrificio e studio. In Italia questo insegnamento si è quasi del tutto perso ma per fortuna il cinema di Garrone ci da ancora qualche speranza.    

Sergio

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lunedì 6 gennaio 2014

Carlos Saura - Io, Don Giovanni


I rapporti tra l’opera e il cinema sono da sempre stati intensi e pieni di accostamenti spesso nobili. Grandi maestri del cinema si sono misurati nel passato con il ricco repertorio operistico. Abbiamo avuto chi, come Werner Herzog, ha preferito curare esclusivamente la regia a teatro di opere come La donna del lago di Rossini scindendo il mezzo cinematografico da quello musico teatrale. Di contro registi come Joseph Losey o Ingmar Bergman hanno inserito nella loro filmografia delle vere e proprie trasposizioni operistiche (il Don Giovanni per il regista inglese e Il flauto magico per il maestro svedese). In ogni caso non è sicuramente sbagliato affermare che il ricco patrimonio musicale e narrativo presente nella letteratura operistica ha esercitato un enorme fascino su molti grandi registi cinematografici.
Da amante del cinema, ma non esperto di musica d’opera, ho sempre avuto un certo timore nell’esprimere un giudizio sugli adattamenti cinematografici delle grandi opere liriche. I soli strumenti del critico cinematografico mi sono sempre sembrati insufficienti per valutare la complessità di un linguaggio musicale così ricco come, ad esempio, quello mozartiano.

Con questo mio solito timore mi sono avvicinato alla visione di “Io, don Giovanni” di Carlos Saura, grande maestro del cinema spagnolo che però negli ultimi anni sembrava in fase discendente. Saura aveva già trasposto al cinema la Carmen di Bizet realizzando un’opera di grande fascino ma che richiedeva una competenza e un amore preciso per la musica d’opera per potere essere apprezzata fino in fondo. La piacevolissima sorpresa che ho invece avuto guardando questa ennesima riproposizione mozartiana sta nel fatto che, in questo caso, il cinema non arretra di fronte alla nobiltà della musica e del libretto ma è a pieno titolo protagonista dell’opera con pari dignità e rivendicando (forse) un certo predominio. Mentre fino ad ora avevo visto delle opere cinematografiche che (per quanto curate) erano degli accompagnamenti rispettosi delle opere, con questo film Saura ci racconta la genesi dell’opera di Mozart a partire dall’arrivo di Da Ponte a Vienna e del suo ingresso nella corte viennese dell’epoca. Così facendo il regista spagnolo compone (è proprio il caso di dirlo) un’opera di perfetto equilibrio tra linguaggio cinematografico e musicale. Impossibile dire se predomini il cinema o la musica e questo permette a chi non ha grandi conoscenze musicali di apprezzare le arie che Saura inserisce in un incastro equilibratissimo di narrazione filmica e operistica. Il racconto dell’amicizia tra Da Ponte e Mozart cammina di pari passo con le prove della messinscena del Don Giovanni facendoci gustare i due racconti paralleli senza farci sentire irrimediabilmente a disagio per le nostre non eccelse conoscenze musicali. Le curatissime scenografie e la splendida fotografia curata da Vittorio Storaro contribuiscono in maniera decisiva per regalarci un film che credo possa mettere tutti d’accordo, cinefili e melomani, nel godimento di un’opera che sintetizza al meglio le grandi capacità espressive di ogni mezzo.

Sergio

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