giovedì 22 dicembre 2011

Eduardo De Filippo - Natale in casa Cupiello


I riti sono probabilmente necessari agli uomini,  attraverso il riproporsi di certi contesti l’uomo ritrova il filo rosso che lo lega al proprio passato e gli  permette di guardare alla propria vita con un sentimento di unitarietà. Il Natale, al di là degli aspetti propriamente religiosi, rappresenta il rito più importante del mondo occidentale. L’atmosfera natalizia, che ruffiani messaggi pubblicitari ci vogliono inculcare solo per spendere un po’ di più, è in realtà  uno dei sentimenti più intimi e nello stesso tempo (passando attraverso la sua unicità)  più universali della nostra società. Molti amano questa data, qualcuno non la regge ma è difficile trovare chi rimanga indifferente all’avvicinarsi del 25 dicembre.
Personalmente ritengo che l’atmosfera natalizia riviva attraverso il riprodursi di sensazioni della propria infanzia, se riusciamo a risentire voci, emozioni che ci riportano a quello che sono stati i nostri natali passati ecco che questa atmosfera si appropria di noi. Assieme a volti e luoghi delle antiche feste, per me l’atmosfera ha bisogno di un piccolo sostegno culturale. Quello che per me funge da piccolo rito all’interno  di un rito più grande: mettere su il dvd di Natale in casa Cupiello di Eduardo. Ritrovo immediatamente sensazioni innumerevoli che partono da me bambino e attraverso gli anni mi vedono crescere sempre con quella inimitabile voce edoardiana che dice “te piace ò presepe?”. Parlare di quest’opera da un punto di vista di critica teatrale mi allontanerebbe in questo momento da quello che vogliono essere queste righe. A volte mi chiedo anche se ci riuscirei… forse no, quando qualcosa è così legata alla tua persona come fai a sezionarla con gli strumenti della critica? La guardavo da bambino negli anni Settanta  in televisione, poi negli anni Ottanta comprai la videocassetta e adesso il dvd… ogni volta che si avvicina il Natale Luca Cupiello si sveglia e ricomincia a fare il presepe. E ogni anno  mi convinco sempre di più della grandezza di Eduardo De Filippo. Nessuno come lui riesce a parlarmi degli affetti familiari, delle cose che rendono una vita meritevole di essere vissuta. Di un’umanità che spesso fatico a ritrovare nel mondo. Luca Cupiello era, romanticamente, un illuso… non vedeva il mondo cambiare e, attraverso la costruzione del presepe, riproponeva se stesso da bambino con i suoi affetti inattaccabili e le sue certezze granitiche. Il suo presepe è misero ma lui ci vede il mondo intero, la sua famiglia attraversa situazioni complicate ma lui sembra non accorgersene, per lui esiste solo il Natale che arriva e il presepe da costruire. Ma il suo non è disinteresse, è fiducia nel fatto che solo l’amore rimette a posto le cose. Anche quelle più gravi. Perché quella che può sembrare la fissazione di Luca Cupiello è in realtà una delle più grandi lezioni che Eduardo ci ha lasciato. Non è facile trascriverla con parole questa lezione; sta tutta negli occhi di Luca Cupiello che chiede ancora una volta al figlio, nella scena finale, “te piace ò presepe?”. Gli eventi familiari sono precipitati ma nella risposta del figlio si riapre finalmente la speranza. Lui che rispondeva continuamente con fastidio al padre sull’utilità del presepe, trova alla fine un’illuminazione in quegli occhi e risponde “sì, me piace…” Non è un semplice scambio di battute tra padre e figlio, è una presa di coscienza fortissima da parte del figlio (e quindi della vita che verrà). Come i fedeli napoletani aspettano ogni anno la liquefazione del sangue di san  Gennaro per affrontare con fiducia il futuro, ogni anno attendo l’ultima battuta di quest’opera immensa per vedere se riesco ancora ad emozionarmi e a dire, ancora una volta, “ si, me piace ò presepe…”
Sergio

Natale in casa Cupiello

martedì 20 dicembre 2011

Nanni Moretti - Habemus Papam


Mi si accusa di essere troppo parziale nei confronti di Moretti verso il quale nutro una simpatia esagerata, che forse trascende le sue doti registiche…
Non capisco un granché di inquadrature, tagli e sequenze… e nonostante i miei studi e sforzi, la valutazione che riesco a dare di un film è sempre basata su altri elementi.
Nanni Moretti mi piace. Il suo umorismo mi aiuta a sopportare le cose che nella quotidianità mi deprimono irrimediabilmente. Grazie a lui adesso riesco a ridere ogni volta in cui mi trovo accidentalmente in contesti imbarazzanti quali ad esempio, reading di poesie appena scritte dai nipoti sfigati di Carmelo Bene o aperitivi intellettuali in cui il numero di noccioline è nettamente superiore a quello dei neuroni… immediatamente nella mia testa si fa viva la sua voce che dice “Mi si nota di più se vengo e mi metto in disparte o se non vengo per niente? Vengo e mi metto vicino a una finestra, di profilo, in controluce…?” Così riesco a tornare a casa sorridendo.
Mi sembra che Moretti riesca a migliorare la realtà con la sua chiave comica, rendendola così anche più “umana”… se prendiamo da questa parola ciò che ha ancora di buono da offrire. E’ questo il caso di Habemus Papam, perché quella che il regista dipinge è a mio parere una Chiesa migliore di quello che è in realtà… la Chiesa però non sembra essere di questo parere (e la cosa non mi stupisce per niente), anzi ha addirittura sollevato una grossa polemica invitando la gente a boicottare le sale in cui si proiettava la pellicola (anche dal punto di vista della strategia adottata… nulla di nuovo sotto al sole).
Lo spunto narrativo mi è sembrato bellissimo: il neo-eletto santo padre si sente schiacciato dal ruolo e dalla responsabilità assegnatogli e cade in uno stato di panico che non gli permette di iniziare a svolgere il suo mandato. Entra così in ballo la psicoanalisi, con un Moretti che recita sé stesso alle prese con una terapia impossibile. E’ possibile indagare sui sogni del Papa? Meglio di no. Sulle sue fantasie sessuali? Assolutamente no! Un accenno alla mamma? Meglio di no. La macchina-Chiesa si mette in moto per mantenere il segreto e salvare le apparenze e, mentre il Papa tenta la fuga mescolandosi tra la gente comune di Roma, il Moretti psicologo rimane prigioniero del Vaticano regalandoci le scene più comiche di tutto il film.
A questo punto devo aprire una grossa parentesi che riguarda Michel Piccoli… la sua bravura è quasi divina (per restare in tema)… Un colosso della scena che recita con ogni singolo muscolo del corpo, rendendo indelebile anche la sfumatura emotiva più lieve. Il personaggio che indossa, arriva dritto al cuore, ci mostra un Papa estremamente umano, impaurito, un po’ bambino, disperatamente in fuga verso i suoi ricordi di gioventù, legati ad una vita senza abiti sacri.
Quando lo sbandieramento gaudioso della folla di fedeli in piazza San Pietro si arresta impotente davanti alla debolezza del Papa che non riesce ad assumersi la responsabilità di essere guida di una Chiesa così fatta… il film sembra finire con un retrogusto amaro e qualcosa di irrisolto. Ma dopo averci riflettuto un po’, ho apprezzato moltissimo la scelta di Moretti. Se davvero la Chiesa si vestisse di un’umanità più sincera e vacillasse anche solo per un attimo davanti alle sue certezze… sarebbe un ottimo modo per ricominciare in modo diverso e un’occasione per i fedeli di elaborare con coscienza, oltre che con fede, dei dogmi piovuti dall’alto… 
Gabri

lunedì 12 dicembre 2011

Yasujiro Ozu (12/12/1903 - 12/12/1963)


Il 12 dicembre del 1963 Yasujiro Ozu avrebbe compiuto sessant’anni ma quello fu pure il giorno della sua morte. Questo non è un evento usuale ma Ozu non è stato di  certo una persona comune. Ritengo il suo cinema tra le creazioni più alte che il mondo della settima arte abbia prodotto in poco più di cento anni di vita. Conobbi i suoi film quando pensavo di avere già abbastanza esperienza nel campo delle conoscenze cinematografiche ma la visione dei suoi capolavori rimise in discussione tutte le mie teorie sul cinema. I film di Ozu erano qualcosa di straordinariamente nuovo, non riuscivo ad accostare la sua arte a quella di nessun altro autore. I suoi capolavori più grandi parlano del Giappone del dopoguerra, di una società profondamente segnata dall’esperienza atroce della seconda guerra mondiale. Ozu parlava di questo attraverso storie familiari, storie minime, rapporti tra padri e figli, generazioni a confronto in un mondo che cercava di rinascere dalle macerie. E’ stato definito il regista più giapponese per la sua profonda immersione nei riti della società nipponica ma, magicamente, parlando in maniera così specifica di un mondo a noi lontano nel tempo e nello spazio, riesce a parlare a tutti. Capacità che solo i grandi artisti hanno, trovare il mondo attraverso la visione di una piccola realtà quotidiana. Cominciai a vedere i suoi film in maniera quasi ossessiva, mi accorsi che le trame sembravano sempre molto simili ma quello che potrebbe essere un limite per altri registi, per Ozu diventava un valore aggiunto. Anche se iniziavo a confondere le trame di Viaggio a Tokyo, Tarda primavera, Il gusto del sakè, C’era un padre o Tardo autunno, scoprivo che di Ozu non potevo più farne a meno. Quando la malinconia o la stanchezza di un giorno faticoso si impadronivano di me ecco che Ozu mi prendeva per mano e mi faceva scoprire di nuovo la bellezza della vita. Come le commedie di Eduardo De Filippo ti donano un’umanità che, delle volte, non senti più di avere o come i quadri di Vermeer che riescono a darti serenità senza che tu sappia bene il perché, ecco che il cinema di Ozu ti restituisce tutto lo splendore dell’esistenza in un modo assolutamente misterioso.
Scoprì che quasi tutti i grandi registi della storia del cinema amavano Ozu, anche se sembravano distanti anni luce dalla sua poetica e dalla sua tecnica. Ozu fu anche un grande innovatore della tecnica cinematografica e le sue composizioni figurative hanno fatto scuola. La sua capacità di fare interi film senza un solo movimento di macchina (ma sfido chiunque ad accorgersene senza che lo sappia prima…) è straordinaria. Forse può sembrare eccessivo affermarlo (ma non per chi ami le sue opere) ma per me, malato di cinema da tanto tempo, esistono due storie del cinema. Una è quella di Yasujiro Ozu, nella seconda prendono spazio tutti gli altri. Non è questione di maggiore o minore importanza ma soltanto impossibilità di inserire Ozu all’interno di un discorso che racchiude anche altri autori.
Qualcuno ritiene esagerato il mio amore per il suo cinema ma sono sicuramente in buona compagnia. Quando a Wim Wenders (reduce dal suo Il cielo sopra Berlino, film sugli angeli e sull’animo umano), chiesero se credesse a una vita dopo la morte lui rispose che non sapeva se esistesse o meno un Paradiso ma era sicuro che sulla terra il posto che più gli si avvicinava era dentro i film di Yasujiro Ozu…
Arigatò.
Sergio      

domenica 11 dicembre 2011

David Mamet - Redbelt


Mike Terry (Chiwetel Ejiofor) è un insegnante di Ju Jitsu brasiliano (variante del più antico Ju Jitsu giapponese, sviluppatosi in Brasile agli inizi del '900, grazie a un console giapponese e ai suoi allievi del posto). Crede fermamente nei valori che il vero Ju Jitsu vuole tramandare, è contro il combattimento sportivo, sostenendo che “indebolisce” il vero guerriero; potremmo definirlo un samurai dei giorni nostri.
In una società come la nostra, però, un credo di ferro come il suo ha vita difficile. Le varie intemperie economiche che gli pioveranno addosso metteranno a durissima prova tutti i valori che difende.

Drammaturgo ormai esperto e praticante di arti marziali da tanti anni, David Mamet ci presenta una storia asciutta, ricca di colpi scena, in cui parla di resistenza e di valori, di una società sporca in cui domina solo il dio denaro, e dove anche coloro che rappresentano quelle che dovrebbero essere piccole oasi di purezza, sono marci fino al midollo. Pochi personaggi rappresentano una lotta a questo sistema, una lotta che difende quei valori che non giovano al profitto ma rimangono necessari, sempre e comunque, all'essere umano.

Metafora di tutto: il Ju Jitsu.

Letteralmente “arte della cedevolezza”, il Ju Jitsu è la madre di tutte le arti marziali giapponesi, nata intorno al 1200 d.C. ad opera dei samurai. Il suo concetto fondamentale risiede nella cosiddetta “leggenda del salice”: durante le abbondanti nevicate, i rami di tutti gli alberi vengono spezzati dal peso della neve che si accumula. Il salice, invece, i cui rami sono flessibili, resta intatto perchè la neve scivola sul ramo che “cede” e non contrasta la forza della neve. La leggenda vuole che un samurai, osservato questo fenomeno, applicò il principio di cedevolezza in fase di addestramento, imparando a sfruttare la forza dell'avversario.

Una sceneggiatura a dir poco eccellente, da prendere come esempio per le nuove generazioni di scrittori. Concisa, essenziale, mai banale, in una parola: perfetta.
Magistrale anche l'interpretazione di Chiwetel Ejiofor, che rende così pieno di sfumature il personaggio principale, che vive una lotta interiore tra i valori in cui crede, e la situazione tragica in cui si trova.
Ben lungi dall'essere il solito film di arti marziali che tutti s'aspettano, il regista americano prende come spunto l'enorme e profondissima filosofia del Ju Jitsu per porci una riflessione sulla nostra società, senza voler imporre necessariamente una morale, senza far retorica.
Essenziale, deciso, preciso e necessario, proprio come il Ju Jitsu.


Robin

martedì 6 dicembre 2011

Mario Martone - Noi credevamo


Incontrai per la prima volta Mario Martone in un’estate dei primi anni Novanta durante il festival del cinema di Taormina. Stava preparando L’amore molesto (uno dei suoi film migliori) e mi colpì molto il fatto che leggesse, durante un incontro con la stampa, alcune pagine del suo diario di lavorazione sul set che riguardavano non il film che stava girando, ma delle riflessioni che Francois Truffaut faceva sulla propria idea di cinema ai tempi della realizzazione del suo Enfant sauvage. Autori lontani nel tempo e nello spazio che comunicavano a me, giovane appassionato di cinema, la medesima passione per un’arte, quella cinematografica, che non avrebbe più smesso di farmi compagnia.
Il cinema di Martone non mi ha mai deluso (tranne forse con L’odore del sangue). Dalla Morte di un matematico napoletano al citato L’amore molesto fino a Teatro di guerra, i suoi film sono sempre nati da esigenze forti; racconti di vite normali eppure straordinarie come quella del matematico Renato Caccioppoli o esperienze di teatriinguerra dove il conflitto nasce dal tentativo di fare teatro, e quindi vita, in una realtà in cui la vita non sembra più occuparsi dell’arte.
Quando quest’anno è uscito Noi credevamo, film sul Risorgimento che Martone preparava da anni e che, giustamente, è arrivato nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, le aspettative erano tante e, al di là degli encomi istituzionali dovuti e scontati, il film rappresenta una ulteriore conferma delle qualità artistiche di Martone. Tratto dal libro omonimo di Anna Banti, il film racconta gli eventi italiani che, a partire dal 1828, portarono l’Italia ad una unificazione sofferta e forse mai veramente realizzata. La ricostruzione scenografica dell’Italia di allora è di altissimo livello così come l’interpretazione degli attori, forse dai tempi del Gattopardo viscontiano non avevamo una rappresentazione così viva di quegli anni. Inevitabilmente parlare di una storia che tocca le origini del nostro essere nazione ci porta a considerare questa pellicola su piani non esclusivamente cinematografici. Non è questo il luogo di riflessioni storiche ma mi sembra importante il fatto che Martone abbia scelto, per parlare del Risorgimento italiano, la storia di tre ragazzi del Cilento che dal sud credevano di combattere per un traguardo che forse non era proprio quello che si realizzò a partire dal 1861.
Probabilmente il Risorgimento non è mai stata una vera rivoluzione. Dopo quasi tre ore di film il momento che mi rimane maggiormente impresso è un passo di una lettera di Cristina di Belgioioso  l’albero è stato piantato, con delle radici malate ma è stato piantato…”;  l’albero dell’Unità d’Italia mi convinco sempre più essere frutto  del primo grande compromesso del paese. Una Rivoluzione che avrebbe dovuto portare la Repubblica e che invece si accontentò dei regnanti piemontesi… un meridione che voleva liberarsi della dominazione straniera e che finì per pagare ancora più tasse invece che ai borboni ai nuovi governanti. E’ un senso di insoddisfazione che ti lascia la visione di questo film, ma non per il valore (alto) della pellicola ma perché ci ricorda ancora una volta come il nostro paese si sia sempre fermato qualche metro prima dell’obiettivo con il risultato che l’ardore e l’idealismo puro dei patrioti di allora sia ormai definitivamente tramontato dopo un secolo e mezzo di accomodamenti continui.
Sergio

Scena film - Discorso di Mazzini (Toni Servillo)

lunedì 21 novembre 2011

I 400 colpi - François Truffaut


Il caso ha voluto che, mentre mi accingevo a mettere giù qualche riga sull’ultimo film di Laurent Cantet (Entre les murs), la tv mandasse in onda quell’inarrivabile capolavoro di Truffaut; a quel punto non restava che mollare tutto, piazzarsi davanti allo schermo e ritornare bambina per dormire in una tipografia, falsificare giustificazioni e assistere ad uno spettacolo di marionette insieme ad Antoine. Il caso ha voluto, inoltre, che i due film avessero interessanti punti di contatto, ma, mentre il film di Cantet si focalizza sul ruolo delle istituzioni scolastiche contemporanee e sul loro complicato rapporto con studenti problematici, il film di Truffaut è uno spiazzante viaggio di crescita e ribellione; e qui crescere vuol dire sporcarsi le mani in prima persona, sbandare, commettere errori, rompere gli schemi imposti delle istituzioni, scolastiche e familiari in primo luogo. A un’infanzia mutilata o, addirittura, negata corrisponde l’incessante bisogno di “farsi da soli” per dimostrare di valere qualcosa;  per Antoine, al quale “non riesce d’imparare” tra i banchi di scuola o le mura domestiche, ciò che è importante è apprendere le leggi della strada o chiudersi in un cinema per trovare la propria dimensione.
Dietro quest’incessante bisogno di crescita e maturità, si nasconde, però, la necessità di essere apprezzato e ben voluto dalle persone emotivamente più vicine, perché in fondo sempre di un bambino si tratta. La lotta di Antoine è, in primo luogo, una lotta interiore tra la propria anima-bambina e l’anima-adulta, è un rimanere in bilico tra il bisogno di innocenza e inconsapevolezza e la fame di conoscenza. 
Le scene in cui Antoine sorride (decisamente poche) sono quelle in cui gli è permesso rimanere bambino; un gelato dopo il cinema o una mattina passata in un luna park rappresentano tutto ciò di cui ha bisogno. E’ quando invece si ostina a giocare a fare l’adulto che l’intera situazione si complica e non c’è spazio per le punizioni da bambini, ma sono le leggi dei grandi a valere.
Ciò che spiazza è come tale condizione non sia percepita e riconosciuta da nessuno, fuorché da un suo coetaneo, il quale diventa l’unica ancora di salvataggio. I due piccoli uomini si sostengono a vicenda quando tutte le porte sono state chiuse e le chiavi gettate. Per questo quella scena finale, quella disperata corsa che porta al mare (mai visto da Antoine) ha una sapore diverso, di speranza.
Quella corsa che altro non è che il filo rosso che lega l’età dell’infanzia a quell’enorme distesa di acqua che è il diventare grandi.
La vita di Antoine e quella di Truffaut, in questo modo, sembrano fondersi insieme.
La grande capacità del maestro francese sta nell’aver saputo dipingere in maniera così cruda, ma allo stesso tempo delicata e leggera, quel momento di passaggio, così duro e necessario, dall’età dell’innocenza al tempo della consapevolezza e della maturità.

E proprio questo film rappresentò per me, la prima volta che lo vidi, quel momento di passaggio, di consapevolezza, di crescita interiore; è stata una delle prime pietre di quell’edificio che cerco ancora di costruire giorno dopo giorno.

Vi lascio con due scene
Scena marionette
Scena finale

Valeria

giovedì 17 novembre 2011

Stefano Incerti - Gorbaciof


Ci sono dei film che non puoi immaginare di realizzare se non hai a disposizione un interprete all’altezza. Un attore che riesca a dominare anche il più impercettibile movimento delle sopracciglia per metterlo al servizio del personaggio. Io che sono sempre stato (abbastanza) d’accordo con sir Alfred Hitchcock (che alla domanda di alcuni suoi attori su come potessero riuscire a trovare le giuste motivazioni del personaggio rispondeva “nella paga che le viene data”), riesco ancora a ricredermi quando ammiro sullo schermo probabilmente il più grande attore che abbiamo attualmente in Italia, Toni Servillo.
Nel film Gorbaciof di Stefano Incerti, regista eterna promessa del panorama italiano capace di un esordio miracoloso con Il verificatore e poi abbastanza discontinuo nelle opere a seguire, tutto è studiato per permettere a Servillo di regalarci una delle sue più grandi prove attorali della carriera (secondo me superiore anche a Il divo). Il Gorbaciof del titolo è Marino Pacileo, ragioniere napoletano in servizio nel carcere di Poggioreale dove tiene la contabilità dei soldi che i parenti dei reclusi portano ai loro congiunti. Tutti lo chiamano Gorbaciof per quella strana voglia sulla fronte che ricorda l’ultimo presidente sovietico. Gorbaciof-Servillo trascorre le sue giornate tra il lavoro e il retrobottega di un ristorante cinese dove dilapida tutto in infiniti tavoli di poker,il vizio del gioco lo consuma facendolo continuamente perdere denaro in ogni modo possibile. Questo lo porta inevitabilmente a essere attratto dalla grande quantità di denaro che gli passa tra le mani nel suo luogo di lavoro e a cacciarsi in guai più grandi di lui. Ma Gorbaciof è in fondo un uomo buono, solitario, taciturno, timido e riesce ancora a sognare nonostante il grigiore dell’ambiente che lo circonda (una Napoli fotografata in modo magistralmente grigia nei suoi vicoli ormai multietnici). Una donna (la figlia del ristoratore cinese dove Gorbaciof gioca a carte) sarà naturalmente la tentazione che lo porterà a passi forse troppo azzardati. In questo film si parla pochissimo ma è tutto tranne che un film lento, Servillo riesce a dare uno spessore tale al personaggio da rimanere affascinati di fronte a tale bravura; i dialoghi, quando ci sono, non aggiungono moltissimo al film (oppure sono incomprensibili perché fatti in cinese o in un napoletano per esperti).
Alla fine della visione provi un leggero disagio dato dal fatto che, con un pò di accortezza in più in fase di scrittura, questo film poteva diventare un vero e proprio capolavoro e invece alcune leggerezze (soprattutto nel finale) lo faranno ricordare di più per l’immensa prova di Servillo che, comunque,non è poco.
Sergio

Trailer

sabato 5 novembre 2011

V per Vendetta - James McTeigue



C'è molto più della carne sotto questa maschera. C'è un'idea, e le idee sono a prova di proiettile...

Il misterioso V, nascosto dietro la maschera sorridente di Guy Fawkes, noto cospiratore inglese, membro della congiura, scoperta e repressa il 5 novembre del 1605, ai danni di Giacomo I D’Inghilterra, approda sul grande schermo e ci esorta alla ribellione.
Ed ecco che V ritorna a pareggiare i conti ben 604 anni dopo, in un futuro apocalittico e repressivo, in cui le autorità governative controllano e dominano ogni aspetto della vita sociale, così come le coscienze individuali, grazie all’audace e al furbo utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa.
Tralasciando le scelte tecniche e stilistiche e le qualità narrative che sono senza dubbio di altissima qualità e contribuiscono a rendere l’opera un piccolo capolavoro, è sicuramente il versante emotivo ad essere così trascinante ed impetuoso.
Ogni gesto, ma soprattutto ogni parola, del nostro misterioso anti eroe sono una lama che trafigge lo stomaco, sono un pugno in pieno volto, una secchiata di acqua gelida che ci fa spalancare gli occhi e ringhiare; parole crude e dirette che ci svegliano da un cattivo sogno in cui da troppo tempo siamo intrappolati.
V ci esorta a riprenderci quello che è nostro e che da troppo tempo ci è negato, la nostra libertà; e per far questo bisogna rimuovere alla radice l’ordine vigente, sradicare il marcio su cui poggia e riposa, tranquilla e felice, la società moderna che ci logora giorno per giorno.
Non serve a niente continuare a fingere di vivere un’esistenza appagante e felice, in cui quel poco che ci viene concesso basta (e addirittura avanza) alla vita, non ha senso continuare a negare che in fondo una realtà migliore possa esistere. Se prima non svegliamo le nostre coscienze, da troppo tempo anestetizzate e sorde, non possiamo pretendere di meritare di meglio.

"perché mentre il manganello può sostituire il dialogo, le parole non perderanno mai il loro potere perché esse sono il mezzo per giungere al significato e per coloro che vorranno ascoltare all'affermazione della verità...e la verità è che c'è qualcosa di terribilmente marcio in questo paese"

Non limitiamoci a vivere da zombie sullo sfondo di una realtà mistificata e deturpata, in cui le nostre idee, i nostri valori e le nostre individualità sono violentate senza pietà dai signorotti del potere, ma marciamo verso il rinnovamento. Verso la rivoluzione.
Noi siamo il principio del cambiamento, noi siamo il futuro. E allora non lasciamo che le mie parole, come quelle di V e di Guy Fawkes, rimangano solo “belle parole”. Svegliamoci!
Ecco perché “V per Vendetta” è un film di un’attualità disarmante, fotografa la nostra situazione sociale e la pone davanti ai nostri occhi senza nessuno scrupolo; fa male in ogni singola scena perché ci mostra lo sfracello quotidiano di cui siamo protagonisti e spettatori.
Non ci resta, così, che alzarci e preparare il nostro 5 novembre.


Valeria

mercoledì 2 novembre 2011

Pier Paolo Pasolini (02-11-1975 / 02-11-2011)

Ci sono dei periodi nei quali l’assenza di qualcuno, o di qualcosa, diventa più forte. Amplificata da un senso di vuoto che quella presenza nel passato contribuiva a colmare. Il 2 novembre del1975 veniva brutalmente ucciso Pier Paolo Pasolini in circostanze che purtroppo non sono mai state chiarite totalmente. La figura di Pasolini per la cultura italiana degli ultimi decenni è stata talmente importante che risulta superfluo pensare di discuterla.
Un intellettuale completo, presente in quasi tutti i campi della produzione artistica e pienamente figlio del proprio tempo. Con le sue opere, letterarie e cinematografiche,  con i suoi articoli, con i suoi studi ci ha permesso di capire la società italiana come pochi altri. Riusciva a vedere talmente lontano da essere ancora oggi, a quasi quarant’anni dal suo assassinio, una figura attualissima. Questa sua attualità ci fa sentire in maniera ancora più forte la sua assenza. La  nostra società viaggia su parametri etici, politici e culturali talmente bassi da farci quasi provare vergogna e guardandoci attorno è veramente complicato trovare una voce all’altezza. Il nostro mondo culturale si è quasi ritratto di fronte allo scempio della società italiana attuale rendendoci drammaticamente orfani di figure che, come quella di Pasolini, non avevano nessun timore di entrare quasi quotidianamente nei dibattiti sulle questioni più importanti della vita del paese.
Pasolini ci manca,con le sue contraddizioni, con i suoi furori, con la sua rabbia e la sua capacità di vedere cosa stavamo diventando. In questo spazio, prevalentemente cinematografico,  è naturalmente impossibile tratteggiare in maniera adeguata la figura di Pasolini e allora, in poche righe, vorrei che ci possa ritornare la voglia di studiarlo, di apprezzarlo per ciò che ci ha lasciato in eredità. Se oggi dovessi iniziare a far vedere qualcosa di Pasolini a chi non lo ha mai conosciuto, inizierei con La ricotta, episodio di un film collettivo del 1963 (Ro.Go.Pa.G). Per quel film Pasolini fu processato e condannato per vilipendio della religione cattolica, fu costretto ad inserire alcuni cambiamenti e a subire degli attacchi ferocissimi. Oggi i film di Pasolini li trovi comodamente tra gli scaffali delle edizioni paoline a conferma del fatto che il vero artista vede lontano e che quella che allora sembrava una provocazione (ma solo nella malafede di quella borghesia bigotta che sta(va) al potere) non era altro che uno dei capolavori della cinematografia italiana. Dirà Pasolini a proposito di questo film: “L'intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla  religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica,  incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei,  che vengono letti nell'azione del film [...]. Le musiche tendono a  creare un'atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti  dalla volgarità del mondo circostante. [...] Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono rappresentare la fondamentale incredulità dell'uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all'atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così  atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene  accadendo nel mondo moderno”.
Quando vidi per la prima volta questo film ne rimasi profondamente colpito e da lì inizio il mio viaggio verso la conoscenza di Pier Paolo Pasolini. Oggi guardavo i programmi delle tv alla ricerca di un piccolo ricordo a uno degli uomini più importanti della nostra cultura ma, naturalmente, nulla è presente. E allora andiamocela a prendere noi quella capacità di indignarci, a saziare quella sete di conoscenza che a molti non fa comodo riconoscerci. Per fortuna la tecnologia ci aiuta e adesso, per sapere, non è richiesto molto sforzo. Solo un po’ di curiosità.
Sergio

La ricotta - P.P. Pasolini

giovedì 27 ottobre 2011

Jane Campion - Bright star


Avevo atteso con impazienza di potere vedere l’ultimo film di Jane Campion. Dopo il deludente In the cut del 2003 aveva diretto solo alcuni cortometraggi e temevo di dovermi ormai accontentare di rivedere i suoi capolavori del passato, dal celebratissimo Lezioni di piano ai non meno belli Un angelo alla mia tavola, Sweetie o Holy smoke. E invece Bright star è un vero e proprio gioiello cinematografico girato con un coraggio e una sapienza da farmi ritenere che possiamo nuovamente considerare Jane Campion come una delle autrici più importanti del nostro tempo.
Bright star narra degli ultimi anni di vita del poeta inglese John Keats morto in giovane età nel 1821 e nome tra i più importanti della nascente poesia romantica. Ma non è (fortunatamente) il solito film romanzato e superficiale sui personaggi celebri del romanticismo che tanto inutile ciarpame hanno prodotto al cinema e in televisione. La Campion riesce a realizzare (da qui il suo coraggio) un vero e proprio inno alla poesia (e di conseguenza alla vita). Attraverso la storia d’amore con Fanny Brawne, relazione mai vissuta fino in fondo dai giovani per le difficoltà economiche che proibivano a Keats di progettare qualcosa, la Campion ci immerge, in maniera quasi miracolosa, in quei magici momenti in cui ti accorgi che l’amore prende possesso della tua vita fino a renderti assolutamente (e felicemente) schiavo di esso.
Ci voleva coraggio per girare un film sulla poesia in anni come questi e non disdegnare di fare leggere ai due bravissimi attori protagonisti (Ben Whishaw e Abbie Cornish) interi componimenti di Keats; ci voleva coraggio per girare una storia d’amore senza una sola scena di nudo ma caricando di un infinito erotismo anche la più semplice carezza. Pochi riescono, come fa Jane Campion, a filmare il trasporto dei sentimenti e per far questo usa tutta la sua capacità (e qui sta la sua sapienza) di sfruttare il mezzo cinematografico. Alcune inquadrature sono talmente belle che credo rimarranno impresse a lungo negli occhi di chi amerà quest'opera.
Alla fine del film senti di stare meglio (anche se la storia non è naturalmente felice). Stai meglio perché capisci che se ti emozioni sei ancora vivo e che, se anche non credi più che la poesia possa salvare il mondo, sai che non smetterai mai di credere che potrà sempre migliorarlo. E se poi ti vien voglia di (ri)leggere le poesie di Keats ecco allora che il cerchio si chiude…
Sergio

Fanny recita la poesia bright star di John Keats
Testo Bright star

lunedì 24 ottobre 2011

Serena Vitale - A Mosca, A Mosca!


Monotematico io? Può darsi..

Da coloro che non nutrono quest'amore ai confini dell'ossessione, mi sono sentito spesso incompreso, ho perfino pensato di avere qualcosa che non andasse, poichè non sono mai riuscito a spiegare con parole il perchè di quest'attrazione così forte. Il libro di una delle slaviste più importanti d'Italia, famosa anche a livello internazionale, è una delle prove che non sono il solo ad essere affetto da questa “malattia” per questo paese così ricco di personalità, così unico e speciale: la Russia.

Serena Vitale, allieva diretta del grande Angelo Maria Ripellino (da cui sicuramente è stata influenzata non poco), andò per la prima volta a Mosca nel 1967, in piena epoca brezhneviana. Inimmaginabili sono le difficoltà di una studentessa poco più che ventenne, catapultata in un mondo ostile che la vede come nemica, in quanto borghese dell'occidente capitalista. Non rare furono le porte in faccia, specie all'inizio. La gente aveva quasi paura a parlarle per non compromettersi.
Ma nonostante queste sofferenze, queste iniziali difficoltà, la Vitale non s'è mai data per vinta, e con coraggiosa testardaggine è sempre andata avanti, inghiottendo tutti i soprusi, accollandosi di essere spiata e seguita dagli agenti del KGB da mattina a sera, mettendosi a contrabbandare prodotti dall'occidente.. tutto per rimanere a Mosca e coltivare il suo amore per questo strano paese e per la sua anima, così profonda, attraente e misteriosa.
Nelle sue parole ritrovo il mio stesso sentimento descritto con una consapevolezza, ovviamente, smisuratamente maggiore. Raccoglie esperienze vissute in quarant'anni e le prende come spunto per parlare dell'essenza dell'Unione Sovietica, e, adesso, della Russia; dei suoi difetti, dei suoi pregi, delle sue contraddizioni e dei suoi profondissimi cambiamenti avvenuti nel corso di questi anni.
L'amore per la letteratura e per l'arte russa l'hanno portata a rischiare grosso, trasportando illegalmente e in più di un'occasione microfilm, libri e quant'altro di autori censurati e vietati dal regime.
Già dal titolo, di chiara maternità cechoviana, si può facilmente intendere quali siano i toni con cui si parla di questa città.
Sebbene la maggior parte degli aneddoti raccontano esperienze agghiaccianti, dalle quali ogni persona scapperebbe a gambe levate se ne avesse a priori la consapevolezza, il libro trasuda ammirazione verso la capitale russa e la passata Unione Sovietica.
Mentre si legge, non si può non sognare di andarci, o ritornarci (dico tutto ciò perfettamente consapevole di quanto mi sia impossibile dare un giudizio imparziale).
Il tono nostalgico che si avverte nelle parole della Vitale non risiede certo per l'epoca Brezhneviana, ma è più una nostalgia per la propria gioventù, un'epoca ormai passata in cui ancora aveva tutto da scoprire. Ora sembra quasi delusa da come le cose siano cambiate, come i radicali cambiamenti degli ultimi vent'anni abbiano spazzato via un intero paese, rimasto solo nella memoria di chi vi ha vissuto.
“E' una questione fisiologica, non ideologica. Uno invecchia, la vita si aggrappa alla memoria. Quella Russia è stata comunque la nostra giovinezza, non puoi farci nulla.” le dice una vecchia amica nel 2007 dopo aver provato, senza successo, ad entrare nell'atrio dell'MGU, loro vecchia università, luogo denso di ricordi.
Non è la prima volta che un'opera, letteraria o cinematografica che sia, riesce a chiarirmi le idee su ciò che provo; è una sensazione tanto strana quanto piacevole, che regala un forte senso di gratitudine verso quell'autore/autrice che ha avuto la capacità di spiegare le mie emozioni molto meglio di quanto avessi potuto fare io stesso.

Robin

venerdì 21 ottobre 2011

François Truffaut (21/10/1984 - 21/10/2011)


Quando il 21 di ottobre del 1984 François Truffaut è morto, il mondo era molto diverso rispetto a quello che ventisette anni potrebbero far credere. Ma il suo cinema continua ad essere una delle opere più imprescindibili per chi ama la settima arte.
Io avevo tredici anni in quell’anno, la stessa età di Antoine Doinel il personaggio di uno degli esordi cinematografici più dirompenti che la storia del cinema ricordi: I quattrocento colpi. Quel film, nel1959, rappresentò la nuova rinascita del cinema dopo quella ufficiale dei fratelli Lumiere; la Nouvelle Vague, Truffaut, Chabrol, Godard, Rohmer e tanti altri. Il cinema rinasceva perché prendeva finalmente consapevolezza della sua grandezza, non più arte di secondo piano ma meritevole di stare sullo stesso piano della letteratura o della pittura. Gli insegnamenti di quell’irripetibile stagione cinematografica (oltre all’esordio di Truffaut come non ricordare anche l’uscita, qualche mese dopo, di Fino all’ultimo respiro di Godard?), si allargarono con una velocità sorprendente dalla Francia a tutto il mondo cambiando profondamente il senso del segno cinematografico. Ci vorrebbe troppo spazio e tempo per parlarne in maniera sufficiente e non è questo il luogo ma un ricordo dell’autore più prestigioso di quel movimento è doveroso farlo.
Truffaut sta al cinema come Balzac o Dostoevskij stanno alla letteratura, credo che la formazione culturale (intesa come crescita dell’individuo) non possa ignorare il cinema dell’autore francese. Proprio quel personaggio di Antoine Doinel, riproposto successivamente in altri quattro titoli, che cresceva assieme a noi sia l’esempio più calzante a tal proposito. Per la prima volta al cinema un personaggio diventava adulto man mano che l’età del suo attore cresceva (il leggendario Jean Pierre Leaud) e, attraverso la sua crescita, noi spettatori prendevamo confidenza con il cinema. E con la vita.
Cominciai a vedere i suoi film a poco più di sedici anni e da allora non ho più smesso, ho imparato a conoscere me stesso attraverso la crescita di Antoine Doinel ad amare le donne attraverso gli sguardi di Catherine Deneuve (La mia droga si chiama Julie) e Fanny Ardant (La signora della porta accanto), a vivere il cinema come magia necessaria alla vita con Effetto notte. Con l’opera di Truffaut so di non essere abbastanza lucido nei giudizi, troppo intenso è il legame che mi tiene stretto ad ognuno dei suoi film; mi viene ancora difficile confrontarmi con qualcuno che non si sia emozionato con l’ultima straziante corsa verso il mare di Antoine Doinel alla fine dei Quattrocento colpi . E’ anche questo il bello di amare, non riuscire a spiegare perché le lacrime possono scendere all’improvviso. A Truffaut devo gran parte della mia formazione, sarei stato un’altra persona senza i suoi film, da tanto tempo non lo rivedo (necessariamente da adulti senti il bisogno di staccare da quelli che consideri come genitori), ma che emozione quando una persona di vent’anni mi dice di avere amato un suo film, tocchi con mano quanto l’arte sia capace di creare unione tra persone distanti per età e condizione sociale.
E’ passato un bel po’ da quando Truffaut ci ha lasciato ma non posso ancora fare a meno di ringraziarlo per quello che mi ha regalato.

Sergio

venerdì 14 ottobre 2011

David Cronenberg - A dangerous method

Noto che a volte i miei personaggi parlano della sofferta rivoluzione della carne. Io dico a me stesso: “ecco di cosa si tratta: l’indipendenza del corpo rispetto alla mente e la difficoltà della mente ad accettare tutto ciò che quella rivoluzione potrebbe significare”.

Prima di andare a vedere l’ultimo Cronenberg, “A dangerous method”, avevo letto delle critiche che lo definivano “accademico”, un “Cronenberg atipico e piegato alle logiche delle grosse produzioni”. Mi ritrovo invece davanti ad un film che è la summa di tutte le ossessioni cronenberghiane, un capolavoro che mi ha fatto uscire dalla sala carica di ammirazione per un’artista dalla lucidità visionaria che ha aggiunto un altro memorabile tassello al suo corposo (mai aggettivo fu più azzeccato!) percorso di ricerca.
Partono i titoli di testa. Dopo aver visto tutti i suoi film ho imparato che per Cronenberg ogni dettaglio è funzionale, non ci sono orpelli… quindi so già che in quell’inchiostro su carta che fa da apertura al film c’è un’importante chiave di lettura. Il film mette in risalto la copiosa corrispondenza epistolare tra i personaggi, sembra quasi che tutti i punti di svolta della storia scaturiscano da questo mettere su carta pensieri e azioni, o meglio… da questo “scrivere il corpo” per usare parole più vicine alla sua poetica.
Qualcuno si è interrogato sul perché Cronenberg si sia dedicato a un argomento che già in questo campo aveva dato i suoi frutti, a una storia così schifosamente cinematografica. Non avevo dubbi sul fatto che la storia sarebbe stata per lui un pretesto per far emergere nuove riflessioni su un problema antico. Ciò che in passato ha catturato l’attenzione di molti in merito all’argomento, ovvero la storia d’amore impossibile che finisce male, in Cronenberg è completamente assente. Il suo sguardo si sofferma invece su uno spaccato di realtà in procinto di un’importante mutazione, la mitteleuropa dell’impero austro-ungarico. Un preciso momento storico in cui era sentire comune che il mondo stesse andando per il meglio, in cui l’uomo si sentiva protagonista di una trasformazione da animale a essere illuminato, volto a una perfezione governata da leggi razionali. In questo scenario, Freud (interpretato da uno stratosferico Viggo Mortensen) incarna la figura di quel “mad doctor” a cui Cronenberg ci ha abituati. Ne Il demone sotto la pelle era il dottor Hobbes che minava quel paradiso di serenità , il complesso residenziale Starlin Towers, con  il parassita capace di far emergere le più oscure forze virali dell’uomo. Qui Freud apre una finestra sull’abisso oscuro che è dentro di noi e al quale non si può sfuggire e innesca quel procedimento virale che darà il via a una trasformazione senza ritorno.
Il film si sviluppa secondo una narrazione che sembra anch’essa una “perizia medica” volta a registrare l’avanzare di una malattia. Ma il suo punto di vista è, al contempo, epidemico, nel senso che si incarna con lo stesso virus (forza scatenante della malattia), ribaltando completamente la visione che normalmente abbiamo di esso e attribuendogli invece una veste di cancro creativo in quanto pulsione autonoma volta ad un rimodellamento del corpo. Secondo la “modalità del contagio” che in Cronenberg coincide quasi sempre con il contatto sessuale, i personaggi si contaminano a vicenda in un percorso creativo che si addentra nelle profondità più oscure di loro stessi. Cronenberg fa dire a Jung in un dialogo con Sabina Spielrein “sei sempre stata un catalizzatore, nel bene e nel male”. E’ lei, insieme al personaggio di Otto Gross, a dare vita al cancro creativo di cui si ammalerà Jung.
Ma un interrogativo ancora più grande sottende a tutto il film: “cosa è veramente la malattia?”.
Nei film di Cronenberg spesso i personaggi affetti dalla malattia, e quindi coinvolti nella mutazione, non hanno nessuna volontà di fare marcia indietro verso la normalità, verso la “guarigione”, il più delle volte sono spinti avanti dalla curiosità verso la loro metamorfosi, ne fanno un espediente per uscire dalle sorti comuni… e questo Sabina Spielrein lo dice chiaramente in uno dei suoi primi dialoghi con Jung che l’occhio di Cronenberg ci fa vedere.
Interessante è notare che i personaggi del film attraversano fasi altalenanti in cui non si capisce più “chi cura e chi è curato”, i ruoli si capovolgono e il confine tra sanità e malattia è fragile come quello tra razionalità e istintività. O meglio ancora… questo confine non è più organico ma prettamente sociale, mentale, legato esclusivamente al contesto storico e alla vita intellettuale in cui siamo immersi. E qui riappare come un lampo l’immagine di quell’inchiostro dei titoli di testa… ci riporta indietro ad un altro passaggio epocale senza ritorno: quello dall’oralità alla scrittura. E’ lì che ha inizio l’estrinsecazione, il portare fuori di sé la propria interiorità, il guardarsi dall’esterno e quindi un lento percorso verso l’auto analisi. Sta tutto lì, nei titoli di testa. Il primo passo verso quella modificazione inarrestabile che ci porta ad avere bisogno di una nuova carne, perché l’organismo è indietro rispetto al salto evolutivo verso cui l’uomo ha già allungato la gamba, proprio come Freud nel film dice di aver messo il piede su una terra inesplorata che ancora non si sa com’è ma di certo si sa che c’è…
Da questo primo passo, inizio della mutazione, non si torna mai indietro, non c’è salvezza… e il finale di questo film mi ha fatto ricordare il finale di The Brood, quando il pericolo sembrava scampato la camera si stringe a inquadrare i segni della malattia sul braccio della bambina… la minaccia del contagio avvenuto, da cui non c’è scampo. A dangerous method si conclude con un dialogo tra Jung e Sabina Spielrein in gravidanza, finalmente più distesa e apparentemente più equilibrata; lui le confida un suo sogno ricorrente. In quel sogno la minaccia che si avvererà, la prima guerra mondiale come un fiume in piena carico di sangue spazzerà via il sogno di quella mitteleuropa da cui eravamo partiti. I semi della nostra autodistruzione sono già nel nostro grembo... e alla luce di questo, mi sembra più che palese l’interesse di Cronenberg per questa storia…
Dilungarsi su questo argomento significherebbe parlare di tutti i film di Cronenberg, perché in tutti questo nodo centrale la fa da protagonista. L’uomo cronenberghiano prova sempre a superare i propri limiti, si perde in una costante dialettica tra il nascosto e il mostrato, tra le costruzioni (e costrizioni) sociali e le pulsioni oscure e viscerali che emergono dal profondo di quella terra sconosciuta. L’artista Cronenberg è un pioniere, non temo di dire che secondo me è ciò che ogni artista dovrebbe essere, colui che ha il coraggio di scendere con lucidità in quell’abisso che ci appartiene, toccare con precisione chirurgica quelle corde universali che sono alla base del nostro esserci.

 Gabri

lunedì 10 ottobre 2011

Stanley Kubrick - Barry Lyndon


E' strano che in un blog dove si parla di cinema ancora non sia stato fatto il nome di Kubrick nemmeno una volta. Devo dire che ho molta difficoltà a scrivere di un autore così conosciuto e importante, di cui è stato detto già tanto.
E' stato il primo autore a cui mi sono avvicinato da quando ho cominciato a guardare il cinema come qualcosa in più di un semplice passatempo ed è, pertanto, anche uno di quelli che sento più cari. E' anche uno di quei pochi registi di cui sono riuscito a vedere la filmografia completa.
Adoro rivedere i suoi film.
Rivedendo Barry Lyndon ho pensato per un attimo che fosse in assoluto la sua opera migliore, poi mi sono fermato e ho pensato a 2001:Odissea nello Spazio, ad Arancia Meccanica, a Full Metal Jacket, a Dr.Stranamore. Mi sono reso conto che quasi ogni volta che vedo un film di Kubrick penso “è il suo miglior film”. Perchè abbia sentito il bisogno di dare una coccarda a qualche suo titolo non lo so, ho però subito realizzato la mancanza di senso di questo gesto, in quanto ogni suo film è fin troppo speciale e inclassificabile (e per questo bellissimo).

Il film, nella sua visione d'insieme, è talmente perfetto che quasi mi sembra un sacrilegio tentare di scomporlo per analizzarlo punto per punto (o quantomeno per provarci).
Kubrick possedeva un perfezionismo che sconfinava in quella che potremmo tranquillamente definire ossessione. Una volta mi capitò di leggere, non ricordo più dove, che per girare la scena di Nicole Kidman che ride in Eyes Wide Shut, Kubrick volle girare ben 177 ciak prima di considerare buono il risultato e che per la scena del blocca-palpebre in Arancia Meccanica, costrinse Malcolm McDowell a passare svariate ore con quell'affare agli occhi, un'esigenza che causò all'attore una lesione alla retina.
Tuttavia, queste pignolerie che dovevano pagare le persone che avevano la fortuna/sfortuna di lavorare con lui erano ricompensate egregiamente dal risultato finale (anche se, effettivamente, con gli occhi di Malcolm McDowell ha esagerato un pelino)
Non conosco aneddoti particolari sulle riprese di Barry Lyndon, ma immagino benissimo Stanley che tiene ferme le riprese, rimanendo a pensare ore e ore, e perchè no, anche giorni, su luce, composizione e taglio di un'inquadratura da mezzo secondo.
La fotografia fu proprio uno degli aspetti che Kubrick curò di più; nota a molti fu la sua scelta, per questo film, di usare una luce completamente naturale, aiutandosi con candele come “illuminazione artificiale” e usando delle particolari lenti per gli obiettivi, originariamente studiate dalla Zeiss per i telescopi spaziali della NASA.
Il risultato fu a dir poco strabiliante.
Se devo immaginarmi un paradiso, di certo me lo immagino come i paesaggi di Barry Lyndon.

Tanto quanto sul lato fotografico, Kubrick era preparato sul fronte musicale. Non mi viene in mente nessuno, al momento, che condivida il suo stesso talento nel trovare musiche da accostare alle immagini. Volendo citare gli altri suoi film, io davvero non riesco più a separare nella mia mente il Così parlò Zarathustra di Strauss da 2001:Odissea nello Spazio, così come non riesco a sentire la Gazza Ladra o il Guglielmo Tell di Rossini senza pensare immediatamente ad Arancia Meccanica.
Anche in Barry Lyndon la scelta delle musiche è sopraffina: oltre alla conosciutissima Sarabanda di Haendel, la cui fama odierna è dovuta in larga parte a questo film, il meraviglioso Trio n°2 di Schubert accompagna una buona parte del film, e insieme alle altre musiche forma una base d'accompagnamento sulla quale si svilupperà la storia. Pochi sono i momenti in cui la musica è assente.
La trama mostra allo spettatore tutta la vita di Redmond Barry, dal suo primo amore alla sua morte. Quasi sento sbagliato il termine “spettatore” tanto è alto il livello di coinvolgimento che riesce a dare Kubrick. Alla fine del film sembra d'aver davvero camminato e cavalcato per i paesaggi dell'Irlanda, della Prussia e dell'Inghilterra, d'aver vissuto fianco a fianco a Redmond per tutta la sua vita e di aver provato e sofferto tutto insieme a lui. Ci si sente quasi stanchi.

Far vivere una vita intera in poche ore serbandone comunque tutte le emozioni, senza trascurare nulla, far conoscere i personaggi così a fondo da dare la sensazione di averli conosciuti di persona, far vivere nelle sue peculiarità un'epoca così lontana: una sfida all'altezza solo di pochi Kubrick.

Condivido, al posto del consueto trailer, una delle mie scene preferite, una delle più poetiche, in cui il tocco di un maestro è evidente più del solito.


Robin

sabato 8 ottobre 2011

Dov'è la casa del mio amico? - Abbas Kiarostami



Quello che cercherò di fare è di dare un colore e un sapore diverso a questo commento rispetto alle mie precedenti recensioni; cercherò di scrivere utilizzando più la pancia e meno la testa (cosa che mi viene spesso rimproverata e che puntualmente io rimprovero a me stessa), perché, in fin dei conti, il cinema è fatto di emozioni e le emozioni vanno necessariamente vissute e, se si ha il piacere, anche condivise con gli altri utilizzando tutti i mezzi che abbiamo a disposizione.
Kiarostami è l’esempio emblematico di come il cuore e la passione possano prendere il sopravvento sulla tecnica raggiungendo risultati strabilianti, confezionando capolavori di una poesia unica nel suo genere; lavora col cuore ed è lì che intende arrivare. E con me ci è riuscito benissimo.
Il mio incontro col maestro iraniano è piuttosto recente, lo conoscevo già per via della sua fama, del suo percorso cinematografico e dell’enorme importanza che ha rivestito il suo cinema nel panorama mondiale, ma concretamente la sua cinematografia mi è stata sempre sconosciuta.
Il nostro incontro è avvenuto proprio con questo film ed è stato un vero e proprio colpo di fulmine, uno di quei momenti in cui capisci che la persona che hai davanti cambierà la tua vita o avrà, comunque, un ruolo importante nel tuo percorso esistenziale. Ed è così che ho conosciuto la sua poesia, la sua capacità di emozionare con la semplicità e la sua abilità narrativa.
Raccontare storie ed emozionare è forse uno dei lavori più duri e complicati che esistano al mondo, il tranello della banalità, della presunzione e dell’ostentazione è sempre in agguato, tutti ostacoli che però  Kiarostami è riuscito a superare in maniera eccellente.

Il regista iraniano ci racconta una forma di solidarietà così pura e disinteressata che forse solo un bambino è in grado di coltivare e praticare giorno per giorno.
Solo un bambino può essere capace di sfidare qualunque intemperie per restituire un quaderno al proprio compagno di classe, un gesto che proprio per la sua semplicità e bellezza e per la perseveranza con cui è eseguito rapisce il cuore, spiazza e lascia senza parole.
E’ proprio nel momento il cui questa corsa incessante sembra destinata alla rassegnazione, proprio nel momento in cui crediamo che qualunque gesto e sacrificio non sia servito a nulla, è proprio in quell’istante che Kiarostami regala tutta la sua poesia, in un finale che colpisce l’anima e lascia libero sfogo alle emozioni.
Lo sguardo di Ahmad, così come la disperazione di Nemattzadeh dietro il suo banchetto sono  difficili da dimenticare. Viene quasi voglia di alzarsi dalla sedia e correre e patire insieme a loro, solo per rivedere il sorriso splendere sui loro volti.
Così che il piccolo Ahmad diventa il paladino di una solidarietà capace di riempire il vuoto lasciato dalla mancanza di comunicazione da una società eretta su dogmi polverosi ed obsoleti impossibili da sradicare.
Su questo sfondo di desolazione, solitudine ed incomunicabilità i volti di questi bambini rappresentano la speranza e il desiderio di uccidere il vecchio a favore di un nuovo fatto di libertà e condivisione. E la forza emotiva di questo sta proprio nei bambini e nei loro gesti.

Condividere e sacrificarci per gli altri. Forse è questo che Kiarostami vuole dirci, alla stesso modo in cui lui stesso ha voluto condividere con noi questo capolavoro, soffrire e gioire con noi insieme ai suoi bambini.
Quello che poi, in fin dei conti, accade in questo in questo blog e quello che spero di essere riuscita a fare anche io.

Vi lascio con la parte iniziale del film

Valeria

giovedì 6 ottobre 2011

Pavel Lungin - Luna Park


Ci sono film che potrei vedere e rivedere milioni di volte sapendo che non mi stancheranno mai. Offrono sempre la gradevole sensazione della prima visione.
Dopo essersi conquistato meritevolmente la fama internazionale con Taxi Blues (sua opera prima), premio per la miglior regia a Cannes, il secondo lavoro è senza dubbio all'altezza delle aspettative di pubblico e critica.
La maestria con cui il regista riesce a far convivere una violenza estrema con una pura tenerezza è incredibile.
La storia è quella di un giovane neofascista russo (probabilmente la categoria di uomini peggiori al mondo) che scopre di avere origini ebree. Riuscito a scovare il padre, tenterà di avvicinarsi a lui.
Il padre è un musicista scapestrato amante dell'arte e intriso di ideali di libertà (un po' l'incarnazione del carattere anti-sovietico). Il confronto tra i due darà vita all'intreccio del film, che si evolverà in maniera sempre più deliziosa, per concludersi in uno dei finali più belli e poetici che abbia mai visto.
Guardando non solo l'intreccio tra i personaggi, motore della storia, il film è una denuncia profonda degli avvenimenti contemporanei di quella confusione sociale che ha sconvolto la Russia dei primi anni Novanta.
Lungin riempie la storia di piccoli dettagli, apparentemente secondari, che descrivono con estrema veridicità le condizioni di fame e di disagio che viveva il popolo.
Un film ricco, sotto ogni aspetto. Assolutamente da vedere.

Sconsiglio la versione doppiata, raccomando la versione originale sottotitolata (il doppiaggio italiano di quest'opera è particolarmente scadente)

Robin

martedì 4 ottobre 2011

Buon compleanno Buster!

Non so quale sia stato il primo film visto nella mia vita. La fortuna di crescere con un genitore che lavorava in un cinema mi permetteva di passare interi pomeriggi tra sale cinematografiche e magiche cabine di proiezione. Ricordo vecchi scaffali dove si accumulavano le locandine dei film più antichi e io, bambino naturalmente curioso, a cercare di fare amicizia con coraggiosi cowboy e star più o meno dimenticate. Guardare film era per un me un’attività naturale come dormire o mangiare, ovvio che in questo contesto la mia fantasia mi portasse a familiarizzare con personaggi mai conosciuti. C’era un volto che mi incuriosiva più di tutti, era quello di un uomo dall’aspetto serio e che non rideva mai. Ogni volta che vedevo una sua foto mi colpiva quella sua espressione tra il malinconico e il pensieroso, non sapevo ancora che quel volto apparteneva a uno dei più grandi artisti del cinema comico di sempre. Uno che continua, a distanza di decenni, a regalarmi un po’ di poesia e di allegria tutte le volte che ne ho bisogno. Quel volto era di Buster Keaton attore e regista del cinema americano, star assoluta del cinema muto successivamente caduto in disgrazia con l’avvento del sonoro; un po’ per cause personali (depressione e alcolismo) un po’ perché la sua comicità assolutamente fisica poco si adattava all’uso del parlato.
Non ho mai visto Buster sorridere ma non esiste persona al mondo che mi abbia fatto ridere quanto lui con i suoi personaggi sempre impassibili di fronte a tutti gli eventi della vita ma, ciononostante, capace di regalarti più umanità rispetto a tutti gli altri. Di quel tizio con bombetta e bastone e camminata da clown non nutrivo una gran considerazione, non mi divertiva né mi emozionava perché sentivo istintivamente l’eccesiva artificiosità e costruzione delle sue storie adatte a quel pubblico bisognoso di buoni sentimenti a poco prezzo. Buster non voleva essere un poeta né probabilmente migliorare il mondo. Voleva solo far divertire ma grazie alla sua sincerità ha contribuito a migliorare la vita di milioni di spettatori nel corso degli anni. Perché in tutte le espressioni artistiche solo la sincerità è quella che ti apre le porte della condivisione con i propri simili. Di tutti gli altri ne ho sempre fatto volentieri a meno.
Durante la sua vita Buster Keaton ha interpretato e diretto decine e decine di titoli, naturalmente i più famosi sono quelli del periodo muto, scegliere solo qualche titolo sarebbe per me complicato, da One week a Our hospitality a The General non so quale potrebbe essere additato a capolavoro assoluto e allora mi piace ricordare alcuni titoli, probabilmente meno conosciuti di Buster, che appartengono alla fase finale della sua vita quando, dopo decenni passati nel dimenticatoio, cominciava ad essere nuovamente riscoperto dal grande pubblico. Uno è Film, unica opera scritta per il cinema da Samuel Beckett, dove il volto di Buster praticamente è il film. L’altro titolo è The railrodder girato poco tempo prima della sua morte, l’ultimo titolo più che un film è una battuta, tratta da un film senza pretese con Franchi e Ingrassia e famoso solo per la partecipazione del nostro, che riesce a comunicare con un semplice “grazie…” tutto quello che gli amanti del suo cinema vorrebbero potergli dire con questa parola. Francesco Guccini scrisse una bellissima canzone su Keaton ricordando proprio questo titolo italiano.
Oggi è il 4 di ottobre. E’ il suo compleanno, tanti auguri Busterino e grazie. Di tutto.

Sergio

lunedì 3 ottobre 2011

Nicolo Donato - Fratellanza-Brotherhood

I registi danesi ci hanno abituato a delle periodiche sorprese nel campo cinematografico. Già prima dei tempi della creazione del manifesto Dogma (che richiederebbe un’analisi molto più ironica da parte di chi ha preso questo decalogo come una nuova e rivoluzionaria tavola delle leggi cinematografica), Lars Von Trier e numerosi altri autori del piccolo paese del nord Europa ci hanno regalato opere bellissime assieme a titoli inspiegabilmente sopravvalutati.
L’opera prima di Nicolo Donato (regista danese ma di origine italiane) “Fratellanza-Brotherhood ” che ha trionfato al festival di Roma 2009 fa sicuramente parte delle piacevoli sorprese. Racconta di un amore omosessuale all’interno dell’ambiente forse più omofobico che si possa immaginare, quelli dei gruppi neonazisti. Lars, il protagonista del film, è costretto a lasciare il mondo militare per delle avances fatte ad alcuni suoi commilitoni. Si ritrova, quasi per caso, ad entrare a far parte del gruppo di estrema destra della sua città. Tra chi lo guarda con diffidenza e chi lo ammira per la sua intelligenza si avvicinerà gradualmente a Jimmy, uno dei veterani del gruppo con il quale esploderà una passione incontrollabile dagli esiti facilmente immaginabili.
Nonostante l’ambiente in cui il film è girato e l’inevitabile carico di violenza che si porta dietro nella sua ricostruzione di pestaggi rituali e iniziazioni alle dottrine naziste, Broterhood è un film delicato nel suo tentativo di raccontare una storia d’amore tormentata. Donato ha spiegato che la scelta di ambientare il film nell’ambiente di estrema destra, non aveva una motivazione strettamente politica ma gli serviva per accentuare il contrasto di un rapporto destinato a difficoltà di ogni tipo. Nelle sue note di regia Donato aveva segnato: è difficile amare qualcuno ma bisogna provarci. Probabilmente la riuscita del film sta proprio in questo pensiero di fondo, in questo sforzo di rappresentare la forza di un sentimento qualunque sia l’ambiente circostante. Per questo Brotherhood poteva anche essere ambientato in un mondo hippie o in un paese islamico integralista. Nelle scelte di Lars e Jimmy c’è tutto il bisogno e l’impotenza di provare ad essere quello che si è e non ciò che gli altri si aspettano da noi. Da vedere.
Sergio

Trailer

sabato 1 ottobre 2011

Les Choristes - Christophe Barratier



Credo che sia difficilissimo girare un film che abbia i bambini come protagonisti. Eppure quanta poesia sono capaci di darci quando li si prende per il verso giusto; mi viene da pensare a Gli anni in tasca, o a I Quattrocento colpi di Truffaut. Chissà se i bambini che recitavano in quei film fossero consapevoli dell'immensa poesia che stavano contribuendo a creare o se seguissero solo un percorso abilmente indicato da Truffaut per ottenere quello che voleva. In qualsiasi caso: che meraviglia!
Sebbene siamo ben lontani dai capolavori suddetti, anche in Les Choristes i bambini giocano un ruolo chiave, e qualcuno di loro è capace di farci sorridere come solo la loro ingenuità è capace di fare.

Ambientato in un collegio alla fine degli anni Quaranta, il film narra la storia di un insegnante che non crede all'educazione dai metodi repressivi, ma piuttosto in quella che fa della dolcezza e della comprensione le fondamenta per far crescere un bambino.
Alcuni aspetti di scrittura sono trattati un po' superficialmente, ma la forza di questo film risiede principalmente nella Musica e nell'effetto benefico e curativo che questa infonde a ogni personaggio. Anche i più miseri e abbietti sembrano umanizzarsi e diventare più comprensivi, più teneri.
La musica cattura volutamente l'attenzione dello spettatore, ed è così celestiale che fa passare in secondo piano tutto; e anche se la storia è semplice, potremmo dire anche scontata, quelle voci bianche rendono tutto magico e commovente. Val la pena vederlo anche solo come cornice alla colonna sonora.
Vi lascio con la musica dei titoli di coda

Vois sur ton chemin

Robin